Domenica 13 febbraio
2005. Primi effetti della normativa europea in materia di salute
ambientale entrata in vigore il 1 gennaio 2005, la quale prevede
un massimo in un anno di 35 giorni di superamento della soglia
di 50 microgrammi di polveri sottili per metro cubo. Il fatto
è che a questa data, in Italia, già diverse città
avevano ampiamente consumato il “bonus” d’inquinamento
a disposizione, quindi si erano trovate fuorilegge e, se non
fossero corse ai ripari in qualche maniera, si sarebbero trovate
costrette a pagare multe salatissime. Così, in questa
domenica di febbraio 2005 città come Milano, Mantova,
Bologna, Ferrara, Ravenna, Roma ed altre, hanno dovuto attuare
un parziale blocco totale del traffico, nel tentativo off-limits
di non risultare al di là della normativa europea. Ho
scritto parziale, che può risultare in contraddizione
con totale, perché non è stato per tutta la giornata,
ma solo per certe fasce orarie, variabili da città a
città.
Il mercoledì successivo, 16 febbraio, è entrato
in vigore il tantissime volte evocato protocollo di Kyoto. Lo
stesso giorno si è svolta una riunione programmata tra
i sindaci delle città e Altero Matteoli, il ministro
dell’ambiente in carica, con lo scopo di definire una
strategia comune per diminuire l’effetto inquinante dell’operare
umano fino a farlo rientrare nei limiti “consentiti”.
In seguito a questa riunione, su suggerimento dell’ANCI
(Associazione Nazionale Comuni Italiani), il governo ha decretato
di prelevare 5 centesimi su ogni litro di carburante che, secondo
previsioni di calcolo tendenziale, in cinque anni permetterebbero
di acquistare ventimila autobus. L’intenzione di potenziare
il trasporto pubblico è chiara e mette in evidenza il
senso della strategia che si ha in mente di adottare: limitare
al massimo il trasporto privato ed offrire in alternativa i
mezzi pubblici.
Nemico dichiarato: lo smog
Dopo il primo blocco totale del traffico di domenica 13, in
diverse città tra le più importanti si sono susseguiti
in modo incalzante blocchi, targhe alterne a ripetizione e a
rotazione, ancora blocchi, ancora targhe alterne. Non c’è
più dubbio, è ufficiale, il nemico dichiarato
è lo smog, che continua a crescere pericolosamente e,
beffardo, ha dichiarato guerra alla nostra salute. Ora, e soltanto
ora (di primo acchito non si capisce perché soltanto
ora e non molto prima) si è accettata la dichiarazione
di guerra e si tenta di scendere in campo rispondendo al fuoco
nemico, purtroppo in ordine sparso e con idee molto poco chiare.
Insomma, verrebbe da dire finalmente, il mondo è in preoccupato
fermento per come la nostra specie si sta comportando nel suo
stare sulla superficie del pianeta. L’Italia in particolare
è in fibrillazione e, se non si trattasse di materia
altamente seria e drammaticamente tragica, verrebbe da dire
che si pone, come al solito, con una vis comica veramente straordinaria.
Il protocollo di Kyoto fu stipulato nel 1997 e stabilisce che
entro il 2012 bisogna diminuire le emissioni di CO2 nell’atmosfera
del 6,5% rispetto ai valori del 1990, anno in cui per la prima
volta a Rio fu affrontato il problema a livello mondiale. Ma
si è potuto applicarlo solo adesso, perché ha
fatto una gran fatica ad esser ratificato da un numero di paesi
sufficiente a raggiungere il 55% delle emissioni globali del
pianeta.
Risultato che si è potuto raggiungere da poco perché
soltanto recentemente la Russia ha deciso di ratificarlo, dal
momento che anche USA, Cina, Australia e India non vi aderiscono.
È bene notare che gli USA da soli sono responsabili del
36% delle emissioni dell’intero globo terrestre, una fetta
altamente consistente, e non hanno accettato perché,
fatta una mano di conti, i loro esperti economici reputano che
i costi di realizzazione del protocollo sarebbero talmente alti
da non poterseli permettere. In altre parole, si sentono grande
potenza solo per generare catastrofi e non per rimettere in
sesto dove fanno danni.
L’Italia, come il resto dell’Europa, vi aderì
subito. Ma, a guardare che cosa ha fatto e come si è
comportata in seguito a tale adesione, viene il dubbio (in realtà
la certezza) che la sua sia stata una adesione puramente formale,
senza la convinzione necessaria, quasi avesse scelto a suo tempo
per poter dire che “anche lei c’è”.
È arrivata, infatti, nelle condizioni peggiori al fatidico
appuntamento del 16 febbraio, al punto da far pensare che ci
fosse rimasta più per obbligo che per scelta. Se vi avesse
aderito con convinzione sia nella lettera che nello spirito
avrebbe dovuto cominciare da un pezzo perlomeno a pensare cosa
fare, mettendo a punto un piano d’intervento.
Al contrario non ha ancora presentato in sede europea un serio
piano di riduzione delle emissioni come avrebbe dovuto secondo
gli accordi. Quello presentato in fretta e furia è stato
immediatamente bocciato, dal momento che prevedeva aumenti delle
emissioni di anidride carbonica nell’ordine del 22,8%,
all’opposto di quello che avrebbe dovuto fare.
Di fatto, invece di ridurre le emissioni, come avrebbe dovuto
essere secondo logica avendo ratificato il protocollo, soprattutto
negli ultimi tempi sotto la spinta di una superrampante visione
berlusconiana, l’Italia ha aumentato le sue emissioni
ben del 23%. Per trovarsi dunque in regola nella scadenza prevista
del 2012, dovrà essere in grado di abbattere le emissioni
del 29,5%. Un classico capolavoro di assurdità ed inefficienza
all’italiana. Come dicevamo più sopra, il nostro
bel paese continua a distinguersi per la sua vis comica veramente
straordinaria.
Nonostante tutto, tralasciando per necessità di comprensione
le usuali facezie della commedia di casa nostra, può
sembrare che il mondo abbia cominciato a darsi una mossa seria,
adeguata ai bisogni dirompenti che stanno insorgendo? Possiamo
allora cominciare a farci dei bei sonni tranquilli? Anche solo
ad un primo sguardo disincantato direi proprio di no.
Poche speranze
Anzi! La situazione che si prospetta è altamente drammatica
e lascia adito a ben poche speranze. Innanzitutto perché
il protocollo di Kyoto, anche se venisse applicato integralmente
in ogni parte del globo, è del tutto insufficiente a
realizzare l’obbiettivo che si pone teoricamente.
Ciò che richiede, infatti, è una diminuzione complessiva
entro il 2012 delle emissioni nocive che si aggira attorno a
poco più del 5% rispetto ai valori del 1990. Secondo
gli scienziati del clima di tutto il mondo, per sperare seriamente
di invertire la rotta derivata dalla degenerazione dell’effetto
serra, ci vorrebbe invece una drastica riduzione che si dovrebbe
aggirare tra il 60 e l’80%, cioè un valore maggiorato
tra le dodici e sedici volte rispetto a quello prospettato.
Alla fine perciò gli sforzi che si metteranno in atto,
ammesso e non scontato che li si mettano in atto davvero fino
in fondo, risulteranno del tutto inadeguati rispetto all’obbiettivo
propagandato.
A questa carenza strutturale del progetto protocollare si aggiunge
l’aggravante che hanno aderito complessivamente 132 paesi
del globo, non tutti, come al contrario avrebbe richiesto una
sua seria applicazione pur carente alle radici. Ulteriore aggravante
è che mancano gli USA, che guarda caso sono i maggiori
produttori di gas serra del mondo, ed altre nazioni emergenti
che, proprio per la propensione economica che stanno dimostrando,
danno un costante e consistente contributo all’aumento
dell’inquinamento globale. Ma la cosa forse più
contraddittoria è la qualità della direzione di
marcia, cioè il tipo di interventi scelti, perché
fondata soprattutto sulla repressione dei comportamenti per
contenere il fenomeno, invece di agire sulle cause per trasformare
l’origine generatrice del male che si è costretti
ad abbattere. Guardiamo per esempio al problema delle polveri
sottili generato dai trasporti, responsabili di circa il 35%
di emissione di CO2.
Soglia arbitraria
Si è stabilita una soglia di sopportazione quantitativa,
arbitraria come tutte le soglie convenzionate, la quale sancisce
che si può sopportare l’inquinamento fino a quel
punto stabilito, non certamente che bisogna smettere d’inquinare.
Sono state perciò installate delle centraline di misurazione
delle quantità per verificare quando si supera la soglia.
Quando la si supera si diminuisce il volume del traffico, o
addirittura lo si impedisce, in attesa di rientrare sotto. Poi
tutto torna come prima fino a quando sarà superata di
nuovo.
Questa logica guarda al contenimento del fenomeno inquinante,
in una visione di adeguamento allo stesso, mentre non si preoccupa
minimamente di eliminarlo, come richiederebbe al contrario una
seria volontà di cambiamento. Se si identifica, come
si è fatto, che è la stessa circolazione delle
auto, per come sono prodotte, ad essere l’origine del
problema, logica vorrebbe che si smettesse di produrre auto
in quella maniera e di metterle in circolazione. Invece cosa
si fa? Si continuano a produrre auto inquinanti, perché
il sistema capitalistico che ci sovrasta ne ha bisogno per il
mercato e per i profitti di cui non può fare a meno,
si inducono a comprarle con sofisticate pubblicità suadenti,
poi si impedisce di usarle.
Il sistema reagisce in modo schizofrenico ai guasti che produce.
Da una parte ci seduce per convincerci ad acquistare le auto
perché ha bisogno del nostro volume di consumi, dall’altra
ci impedisce sempre più spesso di usarle, ci fa pagare
la tassa di circolazione facendoci circolare sempre meno e ci
aumenta il prezzo del carburante per finanziare mezzi sostitutivi
che si tende a rendere obbligatori. Ma non rimuove le cause.
Lo stesso ragionamento vale per tutti gli altri tipi di produzione,
compresa in particolare la produzione di energia, che è
a fondamento del modello di sviluppo su cui si basa il sistema
stesso col quale teniamo in piedi le nostre società.
Per potersi riprodurre e risultare efficace nella soddisfazione
delle esigenze del sistema produttivo di cui è il puntello,
tale sistema si regge su una costante spropositata richiesta
di aumento dell’uso di energia.
E l’energia in circolazione deriva solo in minima parte
da fonti rinnovabili, mentre viene prodotta senza sosta o con
il nucleare, che comporta grossi rischi per le indistruttibili
scorie radioattive e per il sempre presente pericolo della fusione
del nocciolo (vedi Cernobyl), o in gran parte attraverso processi
di combustione di combustibili fossili (petrolio, carbone, metano),
generatori di quantità rilevantissime di emissione di
gas serra.
A loro volta la massima parte dei processi di produzione industriale,
che entrano in moto usufruendo dell’energia prodotta e
sui quali si regge l’intera economia mondiale, sono generatori
di altre rilevantissime quantità di emissione di gas
serra. Indiscutibilmente siamo così in balia di una spirale
impazzita, senza freni e, per come è concepita, non in
grado di autolimitarsi.
A guardarlo nella sua definizione strutturale dunque, l’attuale
modello di sviluppo è una vera e propria spada di Damocle
che incombe sempre più minacciosa sulle nostre teste.
Fra l’altro bisogna tener presente che secondo le previsioni
ufficiali degli uomini di scienza accreditati non è lontano
il momento fatidico in cui questa spada si sgancerà e
crollerà sui nostri crani sfracellandoceli. Negli ultimi
tempi sono usciti diversi documenti scientifici di enti istituzionali
accreditati a livello mondiale che, con sistematica puntualità,
ci avvertono dei pericoli e delle probabili catastrofi incombenti
nei prossimi decenni, dovute al modello e ai tipi di sviluppo
che sorreggono l’attuale sistema. Se non si riuscirà
ad intervenire in modo veramente efficace difficilmente il mondo
intero riuscirà a salvare capra e cavoli come invece
avrebbe intenzione di fare.
La riunione della conferenza ONU sul clima, svoltasi a Buenos
Aires nella metà di dicembre 2004, è stata estremamente
chiara nel denunciare lo stato delle cose dal punto di vista
della tendenza ecologica, dovuta alle influenze del tutto negative
degli sconvolgimenti climatici che stanno avvenendo e quelli
destinati ad esplodere.
Conclusioni apocalittiche
Il rapporto mondiale Living Planet 2004 del WWF, uscito
in contemporanea alla conferenza ONU, misura l’impatto
dell’uomo sugli ecosistemi del pianeta e denuncia che
consumiamo il 20% in più delle risorse naturali disponibili,
mentre le specie animali collassano letteralmente. L’ultimo
rapporto annuale del WWI, la più importante organizzazione
internazionale di studio e ricerca ambientale, ci sbatte in
faccia un’ininterrotta sequela di dati ufficiali, non
interpretabili diversamente, che mostrano come stiamo marciando
a vele spiegate verso il collasso e una futura prossima generale
catastrofe. Precedentemente il rapporto Swartz Randall,
commissionato dal Pentagono e tuttora top-secret, ma le cui
conclusioni sono state rivelate da Foster, uno dei massimi esperti
militari USA e docente presso il College of the Armed Forces,
a chiare lettere aveva confermato conclusioni apocalittiche
sul futuro del pianeta. Ultimo in ordine di tempo, non certamente
d’importanza, il rapporto di fine gennaio 2005 del ICCT
(International Climate Change Taskforce), organizzazione
inglese i cui studi servono al premier britannico Blair per
stilare rapporti ufficiali. L’ICCT denuncia che, con un’approssimazione
molto probabile, entro il 2015 il surriscaldamento del pianeta
sarà giunto a un punto di non reversibilità per
cui non potremo più nulla. Lo stesso Blair, allarmato,
sta patrocinando un consesso di duecento scienziati da tutto
il mondo, che a Exeter nel Devon stanno discutendo su come evitare
i pericoli dei mutamenti climatici in atto e da venire.
Criminale consapevolezza
Il fatto è che il sistema, attraverso i suoi organismi
decisionali ufficiali, non vuole mettere in discussione le proprie
fondamenta e si sta muovendo con l’unica intenzione di
tentare di limitare i danni, trovandosi nell’impossibilità
di rimuovere realmente le cause delle catastrofi che produce
con sistematica cocciutaggine e con criminale consapevolezza.
Bisogna cominciare ad accettare la cruda verità: il sistema
globale che ci sovrasta non può far diversamente da quello
che sta facendo, pur ammettendo che ci possa mettere tutta la
buona volontà di cui è capace, perché,
consolidatosi in secoli di storia travagliata in ciò
che effettivamente è e rappresenta, non vuole non può
e non è in grado di rinunciare ad essere quello che è.
Anzi, proprio per la natura del potere che lo contraddistingue,
ha bisogno di perpetuarsi e di continuare a imporsi a qualsiasi
prezzo.
Dobbiamo cominciare ad accettare l’idea che siamo necessariamente
all’alba di una mutazione epocale di tipo antropologico-culturale,
paragonabile all’assunzione dell’intuizione pre-storica
della funzione della ruota o dell’acquisizione della sapienza
agricola per procurarci gli alimenti, le quali cambiarono irreversibilmente
e totalmente il modo della nostra specie di stare nel mondo,
sia a livello dell’immaginario sia a livello pratico e
organizzativo dell’essere società. È una
necessità perché o realizziamo fino in fondo questa
mutazione o ci destiniamo all’invivibilità sul
pianeta, sia per noi che ne siamo i principali responsabili
sia per le altre specie viventi.
Dobbiamo smettere di riparare i danni che facciamo, il più
delle volte senza riuscirci, per il semplice motivo che al contrario
dobbiamo smettere tout-court di fare danni.
Dobbiamo smettere di prometterci continuamente di rispettare
la natura, in realtà poi mancandole sistematicamente
di rispetto, per la semplice ragione che quando si parla di
rispetto ci si riferisce a qualcosa di altro da sé, quindi
si decide un comportamento che, non essendo né insito
né necessario, è per forza arbitrario e dipende
esclusivamente dalla nostra buona volontà.
Il rapporto con la natura non è in sé etico, anche
se comporta necessariamente un’etica di conseguenza, per
l’ovvio motivo che la natura non è altro da noi.
Noi siamo natura, come tutto il resto, e la natura, intesa nella
sua complessità, ci comprende e non può non comprenderci.
Nel momento in cui ci riferiamo ad essa, necessariamente ci
riferiamo automaticamente anche a noi stessi. Non dobbiamo perciò
portare rispetto alla natura, ma a noi stessi, quindi a tutte
le altre componenti la natura stessa.
Smettiamo quindi di tentare di rispettarla, senza fra l’altro
riuscirci, e, molto più realisticamente, cominciamo a
sentircene pienamente parte, non tanto in senso intellettuale,
come frequentemente avviene, quanto in senso istintuale, come
per esempio viviamo senza pensarci su desiderio e istinto di
sopravvivenza.
Inquinare e devastare l’ambiente deve diventare un tabù,
fino all’automatismo, in modo tale che qualunque cosa
si scelga di fare la si faccia solo se si è sicuri che
il farlo non comporti danni, i quali, ora sappiamo, sistematicamente
si riversano sia sull’insieme della società, sia
sull’ambiente in cui viviamo assieme agli altri esseri
viventi e alle altre meravigliose cose come il paesaggio.
Sostituire il sistema vigente
Ma non si può entrare in questa dimensione intellettuale,
mentale e psichica diffusa e interiorizzata se si continua a
vivere tutto ciò che è altro da noi come luogo
privilegiato del nostro puro soddisfacimento, come spazio a
completa disposizione delle nostre pulsioni a dominarlo e a
depredarlo. La spinta al dominio deve essere surclassata e sostituita
con la spinta a realizzare situazioni di reale benessere nel
modo di esserci e di stare dove siamo.
Soprattutto, le nostre scelte operative e produttive, tutte
le scelte indistintamente, non debbono più essere motivate
innanzitutto dal bisogno di realizzare ricchezza finanziaria,
quindi la spinta ai guadagni e ai profitti non può più
rappresentare in alcun modo la molla che ci porta a decidere
cosa fare o non fare.
È per queste ragioni elementari che sia il sistema economico
capitalista che sovrasta i nostri atti, sia i sistemi politici
autoritari e gerarchici che dirigono la nostra vita e condizionano
le nostre scelte, compresi quelli cosiddetti democratici in
cui la funzione decisionale è sostanzialmente nelle ristrette
mani di voraci oligarchie, non possono più rappresentare
i sistemi di riferimento per poter realizzare il mutamento antropologico
culturale che ci è indispensabile per ridefinire e reimpostare
la nostra presenza sul pianeta.
Saggezza vorrebbe che il sistema vigente nel suo complesso,
sia dal punto di vista economico sia da quello politico, venisse
bloccato, per essere sostituito con un modo di essere società
in cui le scelte siano patrimonio collettivo autogestito dalla
società stessa nella sua complessità, avendo continuamente
presente che non siamo, non possiamo e non vogliamo più
essere i padroni del mondo, ma molto più umilmente dei
suoi abitanti che hanno tutto l’interesse a preservarlo,
per far vivere tutti, tutto e noi stessi il meglio possibile.
Andrea Papi
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