Che eredità
rimane alle generazioni future? Cercherò di rispondere
all’interrogativo da un punto di vista politico. In sintesi
il problema è questo: noi lasciamo in eredità
ai nostri discendenti un dilemma, l’alternativa tra il
disastro ambientale e una dittatura con finalità che
si vorrebbero ecologiche, la sola che permetterebbe di evitare
la catastrofe.
La questione idrica e quella petrolifera ci inducono a non chiuderci
davanti alla prospettiva di una dittatura con finalità
ecologiche. È una proposta non nuova, perché in
Francia, almeno dagli anni sessanta, qualcuno già prospettava
un’alternativa del genere. Lo scenario è quello
di un’umanità alle prese con problemi ambientali
talmente gravi che solo un intervento senza precedenti nei confronti
dell’organizzazione sociale potrebbe salvare il mondo
dal disastro. E questo al prezzo della libertà, della
nostra libertà.
La situazione idrica illustra purtroppo chiaramente che l’ipotesi
non è campata per aria. Infatti già oggi le soluzioni
cui ricorrono molti paesi per risolvere i problemi dell’acqua
sono di carattere dittatoriale. Con ciò voglio dire che
si fanno scelte contro l’interesse immediato delle popolazioni,
in nome talora di un ipotetico interesse superiore o futuro.
La dittatura consiste in questo caso nel decidere ciò
che è bene per la comunità senza preoccuparsi
di interpellarla o di darle i mezzi per comprendere il dramma
che vive e perché deve sacrificarsi per la causa comune.
La dittatura si manifesta in modo del tutto concreto con il
trasferimento forzato di intere popolazioni, con l’accaparramento
illegale di falde freatiche poste in parte nel sottosuolo di
un paese straniero, con la deviazione di corsi d’acqua
in modo non concertato, con il loro sbarramento con dighe, danneggiando
così le regioni più a valle. Pensiamo a quello
che accade in Israele-Palestina, nel bacino del Nilo o in quello
dell’Eufrate, in Cina e in India-Pakistan-Bangladesh,
per citare i casi più noti. In India, che è uno
Stato federale, il conflitto vede contrapposti alcuni Stati
dell’Unione, per esempio il Karnataka e il Tamil Nadu.
La situazione è simile, e rischia di diventare altrettanto
drammatica, nei bacini di tutti i grandi fiumi che attraversano
o costeggiano le zone aride, perfino in Spagna, un paese che
ha in mente progetti tali che il Portogallo non è più
sicuro di avere assicurato in futuro il proprio approvvigionamento
di acque fluviali.
Dramma senza precedenti
Si tratta di un dramma senza precedenti per le popolazioni
direttamente colpite da queste misure, perché sono costrette
a lasciare ogni cosa, nella maggior parte dei casi senza essere
risarcite o con indennizzi ridicoli. È così negata
la libertà ad alcuni gruppi. La mia preoccupazione, però,
non riguarda solo le vittime dirette di quelle scelte che si
possono definire dittatoriali: la dittatura, infatti, non si
limita all’applicazione di decisioni autoritarie.
La prima constatazione è che la dittatura si afferma
in nome dei limiti ecologici e non riguarda più un numero
ristretto di persone. In India le vittime della diga sul Narmada
sono almeno mezzo milione, ma dal 1947, anno dell’indipendenza,
se ne possono contare più di dieci milioni o addirittura
quindici che hanno dovuto abbandonare tutto a causa delle dighe.
La cifra è ancora più notevole di quella dei trasferimenti
forzati e drammatici di popolazione al momento della Spartizione
del paese, nel 1947. È chiaro che la novità qui
sta nel fatto che si spostano a forza le popolazioni rurali
in nome dell’ecologia, più precisamente con la
scusa della produzione di energia. Dato che il mondo è
troppo inquinato, che certi paesi consumano troppa energia,
che la producono inquinando, è indispensabile generarla
in modo più pulito, dato che non è più
il caso di rimettere in discussione il dogma del progresso.
La parola «dogma» va presa in senso stretto: il
Progresso è un principio fondamentale del nostro mondo.
L’ecologia, che postula a ragione la necessità
di un mondo pulito, di una natura preservata, può a questo
punto giustificare decisioni dittatoriali.
È pertanto possibile interrogarsi sul futuro più
prossimo: quando, tra cinque o sei anni, scopriremo l’urgente
necessità di intervenire contro il riscaldamento del
clima, per esempio, o contro questa o quella forma d’inquinamento,
come potremo agire se non in modo sempre più dittatoriale?
Chi è davvero convinto che basteranno le regole del mercato
per risanare la situazione? Il mercato regolatore è una
favola: in realtà gli interessi del mercato attualmente
vanno contro quelli dell’ambiente. Bastino come prove
quelle chimere che sono gli organismi geneticamente modificati.
Scelte
dittatoriali
Così non è affatto serio escludere con una scrollata
di spalle l’ipotesi di una dittatura ecologica. D’altronde,
il mercato sa adattarsi benissimo a certe scelte dittatoriali.
Voglio ricordare che Cina e India sono paesi modello riguardo
alla crescita, ma anche riguardo alla negazione della democrazia:
partito unico in Cina, scontro continuo dei partiti politici
indiani che difendono gli interessi di certe comunità
e non quelli del paese nel suo insieme.
La seconda constatazione riguarda il fatto che quelle scelte
dittatoriali sono prese di concerto con gli scienziati. Questi
esperti rappresentano ormai un potere svincolato da qualunque
beneplacito degli stessi esseri umani. Scienziati e ricercatori,
in generale, sarebbero detentori di un sapere che nessuno potrebbe
contestare.
Esisterebbero leggi superiori, scientifiche, immutabili. Io
vorrei però ricordare che gli esperti sono tutt’altro
che d’accordo tra loro e che questo solo fatto ci dovrebbe
indurre a non concedere loro nessun credito particolare. Non
dico proprio nessun credito, ma appunto uso questo aggettivo
particolare, perché le decisioni che riguardano il futuro
dell’umanità non sarebbero da prendersi sulla scorta
di considerazioni scientifiche, considerate superiori a tutto
il resto.
Né gli uomini, infatti, né le loro società
e nemmeno l’ambiente sono meccanismi che si possono smontare
e spiegare in modo univoco e incontestabile. E poi una società
che affida tutto quel potere a un numero tanto esiguo di scienziati
è una società che non funziona bene. Possiamo
senz’altro definirla una dittatura.
Gli esperti certe volte si sbagliano. Eccone un esempio. L’irrigazione
comporta in certi casi una salinizzazione del suolo e può
rappresentare in tempi assai brevi un serio intralcio all’agricoltura.
È un fenomeno perfettamente noto almeno fin dal XIX secolo
e che fa parte del mondo in cui viviamo.
Eppure (oh miracolo!) ci sono scienziati al servizio di imprese
biotech che stanno preparando piante geneticamente modificate
capaci di sopportare notevoli concentrazioni di sale. La conclusione
è semplice e ovvia: l’unica soluzione che avremo
sarà di accettare la salinizzazione del suolo e la risposta
che presto verrà offerta dalle biotecnologie. Ebbene,
no! L’irrigazione è una scelta politica inadeguata
per affrontare il problema della produzione agricola nel mondo
moderno e le piante resistenti al sale rappresenteranno una
novità dalle conseguenze ancor più devastanti.
Sappiamo già, infatti, che saranno coltivate in monocultura,
come tutte quelle del genere; sappiamo anche che la natura non
avrà il tempo di inventare, nell’arco di pochi
anni, piante tolleranti al sale: le piante geneticamente modificate
saranno perciò praticamente le sole in grado di colonizzare
le zone salinizzate, vi attireranno tutti i parassiti e saranno
distrutte molto rapidamente, a meno che non s’inventino
nuovi pesticidi che avveleneranno ancora di più i terreni.
E così di seguito…
Allora, quando concediamo troppo potere agli scienziati, tutto
ciò che facciamo non è che favorire la struttura
che opprime gli esseri umani. Qualsiasi decisione presa con
l’avvallo degli scienziati rafforza l’organizzazione
del mondo, la sua Struttura. La quale Struttura è ormai
data, ne è come l’armatura che nessuno è
più in grado di modificare. È una constatazione
più che un’analisi: la Struttura che ci governa
ci sfugge e finisce per opprimerci.
Terza constatazione: i problemi dell’ambiente sono presentati
sempre di più come alternative drammatiche. Resterebbero
solo scelte limitate che noi saremmo oggi costretti a fare.
In altri termini, noi ragioniamo schiacciati tra il dramma e
l’urgenza, che è il modo peggiore per ragionare
e, a dire il vero, non si tratta nemmeno di un ragionamento!
L’idea dell’ecologia è nata in un mondo che
usciva da un periodo di forte crescita e non era affatto preparato
a mettere in discussione questa crescita che facevamo coincidere
con il Progresso. C’è dunque stata una sorta di
collisione tra l’ecologia e la crescita. Quest’ultima
ha avuto la meglio, perché i nostri maîtres-à-penser
preferiscono credere al Progresso e a un uomo capace di dominare
la Natura, piuttosto di tenere conto della conservazione del
nostro ambiente, l’unico nel quale ci è possibile
vivere, che ci piaccia o no.
Illusione di progresso
Per mettere in discussione la crescita, per porre fine ai molteplici
attacchi al nostro spazio vitale, avremmo dovuto ricollegarci
direttamente all’idea di Progresso che sta alla base di
tutti i guai che permangono nel mondo che ci circonda.
Il Progresso dell’umanità prende oggi la forma
dello sviluppo durevole o sostenibile, ma si tratta di un’illusione
se lo s’intende come «Progresso» dell’umanità.
Infatti quella che è progredita è la Struttura
che serra il mondo, lo soffoca al punto che finisce per ridurlo
a un punto in cui tutte le informazioni arrivano in tempo reale
e il denaro circola in forma virtuale. L’accelerazione
delle comunicazioni ha finito per rendere una prigione questo
mondo. Siamo magari troppo numerosi, ma se lo siamo è
perché in nome del Progresso abbiamo reso più
piccolo il mondo.
Non è qui il luogo per sviluppare una critica radicale
dell’idea di Progresso, che pure giudico indispensabile.
Voglio solo rilevare un punto. Siccome le società sviluppate
continuano a imporre al mondo una corsa alla produzione, alla
produttività, al progresso, non dobbiamo meravigliarci
se la questione ecologica si presenta in forma sempre più
acuta. Ciò porta logicamente a un’alternativa che
definirei mortifera, tra dittatura reale e disastro ecologico.
Molti di noi, indubbiamente, ci pensano, ma che strada ci rimane?
Come uscire da questa trappola?
Prima di tutto smettendo di ragionare nell’urgenza e di
parlare continuamente di catastrofe. La questione non è
di sapere se il pianeta sia o meno alla fine. In ogni caso,
che stia per morire non è una novità. Vi ricordo
che ieri sono morte di fame trentacinquemila persone, altrettante
stanno morendo oggi e altre trentacinquemila moriranno domani.
Il che vuol dire che la Struttura di questo mondo tollera tranquillamente
un simile disastro quotidiano. Per questo, purtroppo, la catastrofe
non è un motivo serio di riflessione. È orribile
constatarlo, ma questo fatto la dice lunga sulla forza d’inerzia
della Struttura.
La prima conclusione logica che dobbiamo trarre da questo quadro,
è che la nostra riflessione deve avere al centro una
prospettiva a lungo termine. Una visione allargata nel tempo,
la calma, e non gli appelli disperati e incessanti ai quali,
in fondo, non crede nessuno. Viviamo in una torre di Babele
dove è necessario strillare più forte degli altri
per essere visti e ascoltati, ma solo per un brevissimo istante.
E quello di cui abbiamo bisogno non è un attimo fuggente
di presa di coscienza.
Assenza di interdisciplinarietà
Ragionare a lungo termine significa, tra l’altro, dare
alle generazioni future i mezzi per ragionare meglio di noi.
È un luogo comune, ma è stupefacente osservare
oggi l’assenza di interdisciplinarietà e addirittura,
nell’ambito di una sola disciplina, l’ignoranza
di ciò che non sia il proprio oggetto di studio. Gli
scienziati sono talmente convinti dell’oggettività
del loro sapere e a tal punto soggetti alla pressione dei risultati,
che ciò che fanno rimane sempre più staccato dalla
realtà. Se è questo il tipo di attività
intellettuale che noi diamo come esempio alle generazioni future,
è il caso di farci qualche domanda. In primo luogo dobbiamo
interrogarci sulla questione della dittatura, perché
essa nasce dalla necessità che si avverte di dare tutto
il potere a uno solo che possieda tutta la conoscenza.
Il problema che abbiamo davanti è umano e comporta un
dato ineludibile: come preservare la libertà degli esseri
umani e nello stesso tempo lasciare vivere la Natura. Dimentichiamo
che la Natura è l’unico ambiente che abbiamo, la
fonte di ogni esistenza e, in ultima analisi, di ogni cosa che
produciamo, dall’automobile al computer. Di ogni prodotto
e di tutta l’energia. Perciò, per smetterla di
ragionare nell’urgenza, dobbiamo, tra l’altro, fare
uno sforzo pedagogico senza precedenti: dare alle giovani generazioni
i mezzi per uscire dalla logica della riflessione immediata,
dell’urgenza, che seguiamo da fin troppo tempo.
In tutti i paesi le urgenze ipotetiche inducono i dirigenti
a non interessarsi mai dei problemi a lungo termine. In Francia
il governo ha appena aperto un dibattito sull’insegnamento.
Nello stesso tempo, però, ha anche annunciato che si
privilegeranno i bilanci di spesa dei ministeri della Difesa,
dell’Interno e della Giustizia. Riecco la sacrosanta triade:
esercito, polizia, carcere. Non sappiamo ancora se riusciremo
a evitare il disastro ecologico, ma piano piano, quasi indistintamente,
si rafforza la dittatura. Senza far rumore. Non posso tracciare,
qui, tutte le strade possibili per superare l’alternativa
tra dittatura e disastro. Diciamo solo che è necessaria
una critica radicale dell’idea di Progresso, che secondo
me passa dalla scelta di non agire più contro l’ambiente,
di fare il contrario dello sfruttamento della natura da parte
nostra. È anche cosa del tutto diversa dal modificare
o correggere la Natura.
Il tema di questa ventinovesima giornata di studio è
«Economia del nobile sentiero». Nelle discussioni
precedenti l’economia è stata presentata come un
elemento che diremmo positivo: l’economia creerebbe la
ricchezza. A rischio di sorprendervi, io sostengo che un’eventuale
creazione di ricchezza si basa anche sull’organizzazione
della scarsità. L’economia organizza la scarsità,
la mancanza.
Lo si può dire sulla scorta degli studi etnologici del
compianto Pierre Clastres o di Marshall Sahlins. Il libro di
quest’ultimo, L’economia dell’età della
pietra, sostiene una tesi oramai universalmente accettata: l’uomo
dell’età della pietra, il raccoglitore-cacciatore
di un Neolitico pre-agricolo, non aveva problemi di alimentazione.
Diecimila anni più tardi, la metà degli esseri
umani non mangia a sufficienza. Sono proprio i diecimila anni
di regno dell’economia: c’è quindi un problema
che non va ignorato.
Ho detto che dovremmo smettere di agire contro il nostro ambiente.
Sembra una cosa astratta e cercherò subito di spiegarla.
Se cerchiamo di mettere a confronto la produttività di
un contadino tradizionale e quella di un agricoltore dei paesi
sviluppati, tenderemo a considerare che la prima sia molto più
bassa della seconda. Ma un contadino tradizionale coltiva con
attrezzi semplici, poco costosi, senza motori, senza additivi
chimici. Invece un agricoltore dei paesi sviluppati dispone
di numerosi utensili, di trattori e mezzi motorizzati, di costruzioni
talora gigantesche, dotate per esempio di ventilazione per evitare
che i raccolti vadano a male. Consuma una quantità enorme
di sostanze: carburanti, acqua, concimi, pesticidi. Risultato:
l’agricoltura oggi più produttiva, se si tiene
conto dell’insieme del lavoro fornito e non solamente
di quello dei contadini, si pratica sul delta del Mekong, dove
si utilizzano utensili semplicissimi. E non ho nemmeno parlato
dei terreni che, dove si pratica un’agricoltura fortemente
meccanizzata, sono ormai esausti. Senza fertilizzanti e pesticidi
produrrebbero solo un decimo di quanto rendono oggi e ci vorranno
venti o trent’anni per «disintossicarli»…
Ecco quindi un esempio concreto: il piccolo contadino tradizionale
non agisce contro il proprio ambiente. Ne approfitto per invitare
tutti i partecipanti alla conferenza a venirmi a trovare nel
Giura, la prossima primavera o in estate. Potranno vedere i
duemila metri quadrati del nostro orto e osservare come, senza
fertilizzanti chimici e senza pesticidi, si possa uscire dall’economia
devastatrice!
Impresa
di salvataggio
Il non agire s’ispira ai pensatori taoisti, più
o meno contemporanei al Buddha Sakyamuni che duemilacinquecento
anni fa aveva abbandonato le proprie ricchezze per seguire il
«nobile sentiero». E io non mi perito di proporre
questo bell’anacronismo: quando il Buddha lasciò
il suo palazzo, si lasciò alle spalle il mondo dell’economia
e del profitto per imboccare «il nobile sentiero del non
agire contro il proprio ambiente».
Per concludere vorrei dire due parole sul «collante»
indispensabile a qualsiasi impresa di salvataggio. È
quel collante che impone agli uomini di collaborare tra loro,
su un piano di assoluta uguaglianza e, se mi è permesso
dirlo, di fratellanza. Non intendo con questo una concezione
religiosa che postula astrattamente che gli uomini sono fratelli.
Penso invece a una solidarietà di un certo tipo, a una
comunità, a un’interazione che si basa sulla comprensione
del fatto che, ci piaccia o no, noi siamo interdipendenti. E
non solo tra noi: c’è anche una forte interdipendenza
che ci lega alla Natura, allo spazio in cui viviamo. Dipende
solo da noi, credo, che questo legame con la Natura rimanga
la nostra fonte di ricchezze e non si trasformi in un vincolo
di asservimento. Vi ringrazio.
Philippe
Godard
traduzione dal francese di Guido Lagomarsino
Questo è il testo di una relazione presentata,
in una giornata di studi, alla Fondation Pió Manzu
il 19 ottobre 2003.
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