Rivista Anarchica Online


ecologia

Verso una dittatura ecologica?
di Philippe Godard

 

Quali prospettive hanno le future generazioni di evitare il dilemma tra disastro ambientale e dittatura ecologica?


Che eredità rimane alle generazioni future? Cercherò di rispondere all’interrogativo da un punto di vista politico. In sintesi il problema è questo: noi lasciamo in eredità ai nostri discendenti un dilemma, l’alternativa tra il disastro ambientale e una dittatura con finalità che si vorrebbero ecologiche, la sola che permetterebbe di evitare la catastrofe.
La questione idrica e quella petrolifera ci inducono a non chiuderci davanti alla prospettiva di una dittatura con finalità ecologiche. È una proposta non nuova, perché in Francia, almeno dagli anni sessanta, qualcuno già prospettava un’alternativa del genere. Lo scenario è quello di un’umanità alle prese con problemi ambientali talmente gravi che solo un intervento senza precedenti nei confronti dell’organizzazione sociale potrebbe salvare il mondo dal disastro. E questo al prezzo della libertà, della nostra libertà.
La situazione idrica illustra purtroppo chiaramente che l’ipotesi non è campata per aria. Infatti già oggi le soluzioni cui ricorrono molti paesi per risolvere i problemi dell’acqua sono di carattere dittatoriale. Con ciò voglio dire che si fanno scelte contro l’interesse immediato delle popolazioni, in nome talora di un ipotetico interesse superiore o futuro. La dittatura consiste in questo caso nel decidere ciò che è bene per la comunità senza preoccuparsi di interpellarla o di darle i mezzi per comprendere il dramma che vive e perché deve sacrificarsi per la causa comune.
La dittatura si manifesta in modo del tutto concreto con il trasferimento forzato di intere popolazioni, con l’accaparramento illegale di falde freatiche poste in parte nel sottosuolo di un paese straniero, con la deviazione di corsi d’acqua in modo non concertato, con il loro sbarramento con dighe, danneggiando così le regioni più a valle. Pensiamo a quello che accade in Israele-Palestina, nel bacino del Nilo o in quello dell’Eufrate, in Cina e in India-Pakistan-Bangladesh, per citare i casi più noti. In India, che è uno Stato federale, il conflitto vede contrapposti alcuni Stati dell’Unione, per esempio il Karnataka e il Tamil Nadu.
La situazione è simile, e rischia di diventare altrettanto drammatica, nei bacini di tutti i grandi fiumi che attraversano o costeggiano le zone aride, perfino in Spagna, un paese che ha in mente progetti tali che il Portogallo non è più sicuro di avere assicurato in futuro il proprio approvvigionamento di acque fluviali.

Dramma senza precedenti

Si tratta di un dramma senza precedenti per le popolazioni direttamente colpite da queste misure, perché sono costrette a lasciare ogni cosa, nella maggior parte dei casi senza essere risarcite o con indennizzi ridicoli. È così negata la libertà ad alcuni gruppi. La mia preoccupazione, però, non riguarda solo le vittime dirette di quelle scelte che si possono definire dittatoriali: la dittatura, infatti, non si limita all’applicazione di decisioni autoritarie.
La prima constatazione è che la dittatura si afferma in nome dei limiti ecologici e non riguarda più un numero ristretto di persone. In India le vittime della diga sul Narmada sono almeno mezzo milione, ma dal 1947, anno dell’indipendenza, se ne possono contare più di dieci milioni o addirittura quindici che hanno dovuto abbandonare tutto a causa delle dighe. La cifra è ancora più notevole di quella dei trasferimenti forzati e drammatici di popolazione al momento della Spartizione del paese, nel 1947. È chiaro che la novità qui sta nel fatto che si spostano a forza le popolazioni rurali in nome dell’ecologia, più precisamente con la scusa della produzione di energia. Dato che il mondo è troppo inquinato, che certi paesi consumano troppa energia, che la producono inquinando, è indispensabile generarla in modo più pulito, dato che non è più il caso di rimettere in discussione il dogma del progresso. La parola «dogma» va presa in senso stretto: il Progresso è un principio fondamentale del nostro mondo. L’ecologia, che postula a ragione la necessità di un mondo pulito, di una natura preservata, può a questo punto giustificare decisioni dittatoriali.
È pertanto possibile interrogarsi sul futuro più prossimo: quando, tra cinque o sei anni, scopriremo l’urgente necessità di intervenire contro il riscaldamento del clima, per esempio, o contro questa o quella forma d’inquinamento, come potremo agire se non in modo sempre più dittatoriale? Chi è davvero convinto che basteranno le regole del mercato per risanare la situazione? Il mercato regolatore è una favola: in realtà gli interessi del mercato attualmente vanno contro quelli dell’ambiente. Bastino come prove quelle chimere che sono gli organismi geneticamente modificati.

Scelte dittatoriali

Così non è affatto serio escludere con una scrollata di spalle l’ipotesi di una dittatura ecologica. D’altronde, il mercato sa adattarsi benissimo a certe scelte dittatoriali. Voglio ricordare che Cina e India sono paesi modello riguardo alla crescita, ma anche riguardo alla negazione della democrazia: partito unico in Cina, scontro continuo dei partiti politici indiani che difendono gli interessi di certe comunità e non quelli del paese nel suo insieme.
La seconda constatazione riguarda il fatto che quelle scelte dittatoriali sono prese di concerto con gli scienziati. Questi esperti rappresentano ormai un potere svincolato da qualunque beneplacito degli stessi esseri umani. Scienziati e ricercatori, in generale, sarebbero detentori di un sapere che nessuno potrebbe contestare.
Esisterebbero leggi superiori, scientifiche, immutabili. Io vorrei però ricordare che gli esperti sono tutt’altro che d’accordo tra loro e che questo solo fatto ci dovrebbe indurre a non concedere loro nessun credito particolare. Non dico proprio nessun credito, ma appunto uso questo aggettivo particolare, perché le decisioni che riguardano il futuro dell’umanità non sarebbero da prendersi sulla scorta di considerazioni scientifiche, considerate superiori a tutto il resto.
Né gli uomini, infatti, né le loro società e nemmeno l’ambiente sono meccanismi che si possono smontare e spiegare in modo univoco e incontestabile. E poi una società che affida tutto quel potere a un numero tanto esiguo di scienziati è una società che non funziona bene. Possiamo senz’altro definirla una dittatura.
Gli esperti certe volte si sbagliano. Eccone un esempio. L’irrigazione comporta in certi casi una salinizzazione del suolo e può rappresentare in tempi assai brevi un serio intralcio all’agricoltura. È un fenomeno perfettamente noto almeno fin dal XIX secolo e che fa parte del mondo in cui viviamo.
Eppure (oh miracolo!) ci sono scienziati al servizio di imprese biotech che stanno preparando piante geneticamente modificate capaci di sopportare notevoli concentrazioni di sale. La conclusione è semplice e ovvia: l’unica soluzione che avremo sarà di accettare la salinizzazione del suolo e la risposta che presto verrà offerta dalle biotecnologie. Ebbene, no! L’irrigazione è una scelta politica inadeguata per affrontare il problema della produzione agricola nel mondo moderno e le piante resistenti al sale rappresenteranno una novità dalle conseguenze ancor più devastanti.
Sappiamo già, infatti, che saranno coltivate in monocultura, come tutte quelle del genere; sappiamo anche che la natura non avrà il tempo di inventare, nell’arco di pochi anni, piante tolleranti al sale: le piante geneticamente modificate saranno perciò praticamente le sole in grado di colonizzare le zone salinizzate, vi attireranno tutti i parassiti e saranno distrutte molto rapidamente, a meno che non s’inventino nuovi pesticidi che avveleneranno ancora di più i terreni. E così di seguito…
Allora, quando concediamo troppo potere agli scienziati, tutto ciò che facciamo non è che favorire la struttura che opprime gli esseri umani. Qualsiasi decisione presa con l’avvallo degli scienziati rafforza l’organizzazione del mondo, la sua Struttura. La quale Struttura è ormai data, ne è come l’armatura che nessuno è più in grado di modificare. È una constatazione più che un’analisi: la Struttura che ci governa ci sfugge e finisce per opprimerci.
Terza constatazione: i problemi dell’ambiente sono presentati sempre di più come alternative drammatiche. Resterebbero solo scelte limitate che noi saremmo oggi costretti a fare. In altri termini, noi ragioniamo schiacciati tra il dramma e l’urgenza, che è il modo peggiore per ragionare e, a dire il vero, non si tratta nemmeno di un ragionamento!
L’idea dell’ecologia è nata in un mondo che usciva da un periodo di forte crescita e non era affatto preparato a mettere in discussione questa crescita che facevamo coincidere con il Progresso. C’è dunque stata una sorta di collisione tra l’ecologia e la crescita. Quest’ultima ha avuto la meglio, perché i nostri maîtres-à-penser preferiscono credere al Progresso e a un uomo capace di dominare la Natura, piuttosto di tenere conto della conservazione del nostro ambiente, l’unico nel quale ci è possibile vivere, che ci piaccia o no.

Illusione di progresso

Per mettere in discussione la crescita, per porre fine ai molteplici attacchi al nostro spazio vitale, avremmo dovuto ricollegarci direttamente all’idea di Progresso che sta alla base di tutti i guai che permangono nel mondo che ci circonda.
Il Progresso dell’umanità prende oggi la forma dello sviluppo durevole o sostenibile, ma si tratta di un’illusione se lo s’intende come «Progresso» dell’umanità. Infatti quella che è progredita è la Struttura che serra il mondo, lo soffoca al punto che finisce per ridurlo a un punto in cui tutte le informazioni arrivano in tempo reale e il denaro circola in forma virtuale. L’accelerazione delle comunicazioni ha finito per rendere una prigione questo mondo. Siamo magari troppo numerosi, ma se lo siamo è perché in nome del Progresso abbiamo reso più piccolo il mondo.
Non è qui il luogo per sviluppare una critica radicale dell’idea di Progresso, che pure giudico indispensabile. Voglio solo rilevare un punto. Siccome le società sviluppate continuano a imporre al mondo una corsa alla produzione, alla produttività, al progresso, non dobbiamo meravigliarci se la questione ecologica si presenta in forma sempre più acuta. Ciò porta logicamente a un’alternativa che definirei mortifera, tra dittatura reale e disastro ecologico. Molti di noi, indubbiamente, ci pensano, ma che strada ci rimane? Come uscire da questa trappola?
Prima di tutto smettendo di ragionare nell’urgenza e di parlare continuamente di catastrofe. La questione non è di sapere se il pianeta sia o meno alla fine. In ogni caso, che stia per morire non è una novità. Vi ricordo che ieri sono morte di fame trentacinquemila persone, altrettante stanno morendo oggi e altre trentacinquemila moriranno domani. Il che vuol dire che la Struttura di questo mondo tollera tranquillamente un simile disastro quotidiano. Per questo, purtroppo, la catastrofe non è un motivo serio di riflessione. È orribile constatarlo, ma questo fatto la dice lunga sulla forza d’inerzia della Struttura.
La prima conclusione logica che dobbiamo trarre da questo quadro, è che la nostra riflessione deve avere al centro una prospettiva a lungo termine. Una visione allargata nel tempo, la calma, e non gli appelli disperati e incessanti ai quali, in fondo, non crede nessuno. Viviamo in una torre di Babele dove è necessario strillare più forte degli altri per essere visti e ascoltati, ma solo per un brevissimo istante. E quello di cui abbiamo bisogno non è un attimo fuggente di presa di coscienza.

Assenza di interdisciplinarietà

Ragionare a lungo termine significa, tra l’altro, dare alle generazioni future i mezzi per ragionare meglio di noi. È un luogo comune, ma è stupefacente osservare oggi l’assenza di interdisciplinarietà e addirittura, nell’ambito di una sola disciplina, l’ignoranza di ciò che non sia il proprio oggetto di studio. Gli scienziati sono talmente convinti dell’oggettività del loro sapere e a tal punto soggetti alla pressione dei risultati, che ciò che fanno rimane sempre più staccato dalla realtà. Se è questo il tipo di attività intellettuale che noi diamo come esempio alle generazioni future, è il caso di farci qualche domanda. In primo luogo dobbiamo interrogarci sulla questione della dittatura, perché essa nasce dalla necessità che si avverte di dare tutto il potere a uno solo che possieda tutta la conoscenza.
Il problema che abbiamo davanti è umano e comporta un dato ineludibile: come preservare la libertà degli esseri umani e nello stesso tempo lasciare vivere la Natura. Dimentichiamo che la Natura è l’unico ambiente che abbiamo, la fonte di ogni esistenza e, in ultima analisi, di ogni cosa che produciamo, dall’automobile al computer. Di ogni prodotto e di tutta l’energia. Perciò, per smetterla di ragionare nell’urgenza, dobbiamo, tra l’altro, fare uno sforzo pedagogico senza precedenti: dare alle giovani generazioni i mezzi per uscire dalla logica della riflessione immediata, dell’urgenza, che seguiamo da fin troppo tempo.
In tutti i paesi le urgenze ipotetiche inducono i dirigenti a non interessarsi mai dei problemi a lungo termine. In Francia il governo ha appena aperto un dibattito sull’insegnamento. Nello stesso tempo, però, ha anche annunciato che si privilegeranno i bilanci di spesa dei ministeri della Difesa, dell’Interno e della Giustizia. Riecco la sacrosanta triade: esercito, polizia, carcere. Non sappiamo ancora se riusciremo a evitare il disastro ecologico, ma piano piano, quasi indistintamente, si rafforza la dittatura. Senza far rumore. Non posso tracciare, qui, tutte le strade possibili per superare l’alternativa tra dittatura e disastro. Diciamo solo che è necessaria una critica radicale dell’idea di Progresso, che secondo me passa dalla scelta di non agire più contro l’ambiente, di fare il contrario dello sfruttamento della natura da parte nostra. È anche cosa del tutto diversa dal modificare o correggere la Natura.
Il tema di questa ventinovesima giornata di studio è «Economia del nobile sentiero». Nelle discussioni precedenti l’economia è stata presentata come un elemento che diremmo positivo: l’economia creerebbe la ricchezza. A rischio di sorprendervi, io sostengo che un’eventuale creazione di ricchezza si basa anche sull’organizzazione della scarsità. L’economia organizza la scarsità, la mancanza.
Lo si può dire sulla scorta degli studi etnologici del compianto Pierre Clastres o di Marshall Sahlins. Il libro di quest’ultimo, L’economia dell’età della pietra, sostiene una tesi oramai universalmente accettata: l’uomo dell’età della pietra, il raccoglitore-cacciatore di un Neolitico pre-agricolo, non aveva problemi di alimentazione. Diecimila anni più tardi, la metà degli esseri umani non mangia a sufficienza. Sono proprio i diecimila anni di regno dell’economia: c’è quindi un problema che non va ignorato.
Ho detto che dovremmo smettere di agire contro il nostro ambiente. Sembra una cosa astratta e cercherò subito di spiegarla. Se cerchiamo di mettere a confronto la produttività di un contadino tradizionale e quella di un agricoltore dei paesi sviluppati, tenderemo a considerare che la prima sia molto più bassa della seconda. Ma un contadino tradizionale coltiva con attrezzi semplici, poco costosi, senza motori, senza additivi chimici. Invece un agricoltore dei paesi sviluppati dispone di numerosi utensili, di trattori e mezzi motorizzati, di costruzioni talora gigantesche, dotate per esempio di ventilazione per evitare che i raccolti vadano a male. Consuma una quantità enorme di sostanze: carburanti, acqua, concimi, pesticidi. Risultato: l’agricoltura oggi più produttiva, se si tiene conto dell’insieme del lavoro fornito e non solamente di quello dei contadini, si pratica sul delta del Mekong, dove si utilizzano utensili semplicissimi. E non ho nemmeno parlato dei terreni che, dove si pratica un’agricoltura fortemente meccanizzata, sono ormai esausti. Senza fertilizzanti e pesticidi produrrebbero solo un decimo di quanto rendono oggi e ci vorranno venti o trent’anni per «disintossicarli»…
Ecco quindi un esempio concreto: il piccolo contadino tradizionale non agisce contro il proprio ambiente. Ne approfitto per invitare tutti i partecipanti alla conferenza a venirmi a trovare nel Giura, la prossima primavera o in estate. Potranno vedere i duemila metri quadrati del nostro orto e osservare come, senza fertilizzanti chimici e senza pesticidi, si possa uscire dall’economia devastatrice!

Impresa di salvataggio

Il non agire s’ispira ai pensatori taoisti, più o meno contemporanei al Buddha Sakyamuni che duemilacinquecento anni fa aveva abbandonato le proprie ricchezze per seguire il «nobile sentiero». E io non mi perito di proporre questo bell’anacronismo: quando il Buddha lasciò il suo palazzo, si lasciò alle spalle il mondo dell’economia e del profitto per imboccare «il nobile sentiero del non agire contro il proprio ambiente».
Per concludere vorrei dire due parole sul «collante» indispensabile a qualsiasi impresa di salvataggio. È quel collante che impone agli uomini di collaborare tra loro, su un piano di assoluta uguaglianza e, se mi è permesso dirlo, di fratellanza. Non intendo con questo una concezione religiosa che postula astrattamente che gli uomini sono fratelli. Penso invece a una solidarietà di un certo tipo, a una comunità, a un’interazione che si basa sulla comprensione del fatto che, ci piaccia o no, noi siamo interdipendenti. E non solo tra noi: c’è anche una forte interdipendenza che ci lega alla Natura, allo spazio in cui viviamo. Dipende solo da noi, credo, che questo legame con la Natura rimanga la nostra fonte di ricchezze e non si trasformi in un vincolo di asservimento. Vi ringrazio.

Philippe Godard

traduzione dal francese di Guido Lagomarsino

Questo è il testo di una relazione presentata, in una giornata di studi, alla Fondation Pió Manzu il 19 ottobre 2003.