Falco
e falconiere
Qual è la differenza tra un falco e un falconiere? Da
un punto di vista grammaticale falco è un nome primitivo
e falconiere un nome derivato, nel senso che se non c’è
il primo non esiste il secondo.
Inoltre essere falconiere accende la fantasia di tempi antichi,
di nobili solitari e sprezzanti che vagano per i boschi e con
un fischio richiamano il volatile al loro braccio.
Essere falco vuol dire invece accendere l’occhio rapace
del cacciatore, reso onnipotente dal fucile caricato, e che
spara non per legittima difesa, ma per semplice e dichiarato
“divertimento”. “Go fato caccia!” è
l’esclamazione soddisfatta di fronte al cadavere dell’animale
appena ucciso.
Così è successo al “mio” falco pellegrino,
abbattuto da una serie di pallini “vaganti” e schiantatosi
nel bosco, tra carpini, castagni e roverelle. Quando l’ho
fotografato si riconosceva chiaramente il becco corto, molto
ricurvo e le dita armate di unghie ben sviluppate, la gola bianca
e la parte inferiore color cenere con sfumature rossicce a macchie
scure. Era “mio” nel senso che l’avevo già
incontrato più volte, l’avevo osservato da lontano
mentre volteggiava lento, si precipitava in picchiata per poi
ritornare a veleggiare in alto. È una specie protetta
abbastanza rara, dal carattere fiero che talvolta nidifica lungo
le coste rocciose dei Berici. Un tempo si trovava anche sulle
pareti del Broion di Lumignano, scacciato poi dall’invadenza
dei rocciatori.
In questi giorni il Parlamento di questo Paese sta cercando
di proporre una legge oscena per allargare ancora di più
le specie cacciabili (e l’Europa, che dice?), per ampliare
ancora di più il periodo di caccia, in barba ai periodi
di nidificazione (“guai a chi tocca i bambini” dicono
i saggi, riferendosi a tutti i bambini del mondo) e ai periodi
di migrazione (“il viandante è il benvenuto”
dicono i saggi, riferendosi a tutti i viandanti del mondo),
per rendere più vasti i territori dove esercitare la
nobile arte dello “Sparare a vista su qualsiasi cosa si
muova in cielo e in terra”, aprendola anche nei Parchi
e nelle zone protette.
La contrarietà alla caccia è della quasi totalità
del popolo italiano, ma forze oscure e potenti hanno sempre
più il sopravvento, portando a scelte concrete sempre
più permissive e distruttive della biodiversità
e dell’habitat naturale, già minacciati dai cambiamenti
climatici e dal “progresso” industriale e chimico.
Di fronte alle dichiarazioni baldanzose di rappresentanti governativi
e di associazioni venatorie ripenso tristemente alla povera
ballerina bianca che correva con un’ala spezzata, incapace
di sollevarsi dal campo arato e destinata a morire per avvelenamento
da piombo, al fringuellino colorato lasciato cadavere lungo
il sentiero in montagna e che ho raccolto tra le mani per deporlo
tra i rami di un grande albero, al mio falco pellegrino abbattuto
a tradimento nel cielo vicino a S. Pancrazio, luogo di spiritualità
violata.
Elena Barbieri
Movimento UNA - Uomo/Natura/Animali
(Nanto)
Lettera
aperta al “mio” direttore
Il “mio” direttore, già una volta, a causa
di un calendario satirico su Berlusconi mi aveva ristretto l’orario
della sala computer e ritirato la stampante e lo scanner. Poi
il “mio” direttore, per fortuna, andò via
e con il nuovo direttore tutto ritornò come prima. Ora
il “mio” direttore è ritornato, nel luogo
del delitto, e alla prima occasione, per avere criticato le
strutture penitenziarie, per tentare di migliorarne la qualità,
mi aveva trattenuto due lettere, (il magistrato di sorveglianza
ne ha ordinato subito l’inoltro), mi ha di nuovo ridotto
l’orario della sala computer/lettura, con il ritiro della
stampante e scanner. Come se questo non bastasse mi ha spostato
l’orario della sala computer con quello del passeggio
e in questa maniera sono ricattato fra studiare o andare all’aria,
ovviamente sto scegliendo di studiare ed è circa un mese
e mezzo che non vado al passeggio. Nonostante che il precedente
direttore mi ha autorizzato, tramite l’articolo 51 del
regolamento di esecuzione, di poter svolgere con il mio computer
attività intellettuali, artigianali ed artistiche il
“mio” direttore mi sta proibendo di stampare poesie,
un bigliettino di auguri per il compleanno di mia figlia, un
disegnino per San Valentino per la mia compagna, immagini creative,
ecc. Come se non bastasse mi ha negato persino di stampare una
istanza al Magistrato di sorveglianza, probabilmente per motivi
di sicurezza… ma che pericolo c’è in un disegno
o in una poesia? Posso solo utilizzare stampante e scanner su
richiesta, tramite censura preventiva e controllato dall’agente
a vista, solo esclusivamente per appunti di studio ogni 15 giorni,
quindi se devo stampare una piccola modifica, anche una semplice
virgola alla tesi che sto elaborando, devo fare la domandina,
aspettare che sia approvata e aspettare ancora che l’agente
sia libero, ecc. Infatti, dal 22 gennaio, quindi circa un mese
e mezzo fa, ho potuto stampare solo tre volte. Ho fatto presente
al “mio” direttore che negli altri istituti (persino
qui nel carcere di Nuoro con altri direttori) queste restrizioni
sulla stampante e scanner non ci sono, lui mi ha risposto “gli
altri direttori sbagliano”, io ovviamente ho risposto
che stava offendendo la maggioranza dei suoi colleghi…
Chi sono: sono Carmelo Musumeci, da molti anni in carcere. Per
dare un senso alla mia vita e alla mia pena ho iniziato a studiare
da autodidatta e così per me studiare ha rappresentato
soffio di vita e di speranza. L’istruzione serve anche
per dare gli strumenti per ragionare, per sapere rispondere
a delle domande ed anche per imparare a porre domande. Dalla
quinta elementare di partenza sono riuscito a diplomarmi e quest’anno
mi laureo in Scienze giuridiche. Partecipo con passione e assiduità
a varie attività per curare i miei interessi umani e
sociali, investo il mio tempo, l’unica cosa che mi è
rimasta, ed energie per migliorare la qualità della mia
esistenza.
La mia esperienza in questo istituto è l’impotenza,
qui nessuno ha voglia di ascoltarti, a parte alcune persone
dell’area educativa. La legge, il buon senso, la buona
amministrazione è come se fossero aria fritta. Con tutta
la buona volontà, anche inventandosi un trattamento personalizzato,
non è possibile cogliere le opportunità che il
carcere dovrebbe offrire. Spesso il colpevole silenzio e l’ostilità
della direzione su richieste legittime ci mortifica e ci umilia.
In questo istituto non si sconta la sola privazione della libertà,
già di per sé terribilmente brutta, ma si sconta
la reclusione in un ambiente difficile e ostile, angusto e malsano
dove le condizioni igieniche sono terribili (si pensi solo che
bisogna andare in bagno davanti ai propri compagni), dove mancano
educatori, insegnanti, assistenti sociali in numero sufficiente,
dove le strutture sono fatiscenti, la promiscuità è
la regola; i rapporti con l’amministrazione sono difficoltosi
e discrezionali, le opportunità di lavoro sono scarse
per non dire nulle, un ambiente dove non esiste alcun presidio
di tutela dei diritti. In questi tre anni nell’istituto
di Nuoro ho sempre reclamato, lottato spesso da solo ma anche
in compagnia senza mai deformare la realtà per rivendicare
giustizia, diritti e rispetto delle regole e norme penitenziarie
e per superare l’indifferenza e l’illegalità
di questo carcere. Ho lottato per avere la possibilità
per me ed i miei compagni, di vivere realmente in modo civile
e dignitoso per consentirci di mantenere la propria individualità
di esseri coscienti e responsabili. Alle ingiustizie bisogna
ribellarsi soprattutto quando esse vengono inflitte in nome
della giustizia perché il detenuto che non si ribella
è peggio del suo aguzzino. A lungo andare questo comportamento
mi ha creato antipatie ma non importa preferisco essere considerato
“cattivo” che pusillanime, servitore e leccapiedi.
Il cittadino prigioniero è impotente di fronte ad un
direttore che ha sempre ragione se non usa anche la stessa legge
per tentare di correggere le ingiustizie di costui. In carcere
si possono tollerare tante cose ma non la cattiveria gratuita
come di proibire di stampare un fiore una poesia alla propria
figlia, o alla propria compagna che si ama, con il proprio computer
e stampante… è umiliante per il “mio”
direttore non trovare riscontri positivi a richieste cosi semplici.
Inoltre, signor direttore, le sue nuove restrizioni mi rendono
più difficile il mio diritto allo studio. Le sue restrizione
sono cattive, repressive, capziose e per ultimo capricciose.
Signor direttore, mi permetta lei sa solo comandare, vietare
ma non sa ubbidire alle leggi, ai regolamenti e soprattutto
al buon senso. Proibire di stampare un fiore è violare
le regole della logica che costituisce un limite giuridico all’esercizio
di ogni attività discrezionale prive di ogni carattere
di ragionevolezza. La nostra vita è fatta anche di cose
“inutili” senza le quali però la stessa esistenza
non avrebbe senso.
Signor direttore spesso coloro che sono in posizione di autorità
non si curano affatto del bene o del male, da ciò che
è giusto e di ciò che non lo è: la loro
unica preoccupazione è di tiranneggiare i sottoposti.
Spesso in carcere ci si trova dinanzi ad un potere smisurato
e cattivo dove non si può fare nulla per cambiare il
corso delle cose e chi non accetta le regole del potere non
può fare altro che soffrire ma è pur sempre meglio
di non fare nulla… Spesso accade che il detenuto ha ragione
ma ha torto in quanto detenuto ed il custode ha torto ma ha
ragione in quanto aguzzino. Spesso si vuole che il detenuto,
in quanto prigioniero, deve accettare di essere punito ingiustamente,
si vuole che il detenuto sia sempre e soltanto ciò che
il carcere lo farà essere. Spesso al detenuto conviene
non avere mai un pensiero autonomo, conviene essere sempre d’accordo
con il suo carnefice. Invece, spesso, il detenuto ha tanto da
trasmettere e comunicare: si può ed è possibile
reagire all’emarginazione del carcere. In carcere convivono
dolore, prostrazione, fede, abbandono, odio, pentimento, talvolta
brutalità, ma c’è anche un senso infinito
di umanità e dove una vita può anche rinascere…
In carcere non bisogna adattarsi né rassegnarsi perché
sono convinto che più ti adatti alla realtà della
detenzione, alle sue leggi negative, maggiore difficoltà
troverai all’esterno. Lei direttore non capisce, ma sarebbe
meglio dire fa finta di non capire, che protestare pacificamente
e lottare per i propri diritti riconosciuti con il metodo della
non violenza è profondamente giusto e serve, tra l’altro,
a scontare la propria pena migliorando interiormente. Quando
reclami può sembrare terribilmente inutile ma è
terribilmente importante che uno lo faccia, infatti, una cosa
che distingue i detenuti gli uni dagli altri è la forza
di protestare: il detenuto che non reclama perde la sua libertà
proprio nel momento che spera di ottenerla non reclamando.
Ricordo al “mio” direttore che il carcere non dovrebbe
essere solo un luogo di punizione, ma dovrebbe anche essere
un’occasione di recupero, dovrebbe rieducare e aiutare
chi ha sbagliato a reinserirsi nella società, invece
il carcere è il luogo dove più di qualsiasi altro
posto non viene rispettata la legge. Ricordo che quando il detenuto
si vede esposto ad una sofferenza che la legge non ha ordinato
e neppure previsto entra in uno stato di collera abituale, e
non crede più di essere stato colpevole ma accusa la
giustizia stessa. Ricordo che rinunciare al diritto e obbligo
a reclamare significa rinunciare alla propria qualità
di uomo e ai propri doveri e non c’è nessun compenso
possibile per chi rinunci a questo. Se si protesta ad alta voce,
anche in modo pacifico, la spiegazione che si dà solitamente
è che il detenuto sia un ribelle, quando va bene, ed
irrecuperabile, quando va male. Non si va a cercare la causa
perché uno protesta ma si condanna la sola protesta Le
ricordo che il rispetto della dignità dei detenuti non
è la debolezza, ma la forza di una istituzione e, tra
l’altro, un dovere preciso di un direttore. Le ricordo
che è terribilmente sbagliato sprecare il carcere solo
per espiare la pena, coniugare controlli, sicurezza, trattamento
ed inserimento non è difficile, invece lei preferisce
vigilare e reprimere, così è molto più
facile che non lavorare per far crescere una coscienza critica
e responsabile del prigioniero. Signor direttore mi permetta
di ricordarle che spesso negare i diritti ai detenuti si viola
sia la logica che il diritto e viene fatto di pensare che spesso
più che rapporti di giustizia, si tratta di rapporti
di forza e questo assicura il dominio, non la giustizia. Con
lei i diritti dei detenuti sono eventuali ed inesigibili mentre
i doveri e le sanzioni sono certe ed inevitabili, lei mi proibisce
di fatto di valorizzare le mie energie, la poca intelligenza
che ho, capacità e disponibilità. Le ricordo che
la differenza tra noi e “le persone per bene” sta
più in ciò che facciamo che in ciò che
siamo. Ma come posso migliorare e fare qualcosa se lei mi tiene
chiuso in cella 21 ore senza fare nulla e 3 ore all’aria
che sembra una voliera? Le ricordo che nella maggioranza dei
casi il detenuto è ciò che apprende dai suoi eventuali
educatori. Le ricordo che spesso i detenuti sono migliori (non
è il caso mio) di chi li governa. Le ingiustizie consumate
all’insaputa di tutti sono più dolorose, bisogna
trasmettere quello che accade in carcere affinché la
gente si accorga delle ingiustizie e possa riconoscere i torti
e sviluppare un sentimento di comune offesa alla dignità
umana. Chissà per quali insondabili e burocratiche cattiverie
lei mi sta facendo questo, tutte le cose insensate in carcere
hanno una logica perversa e stringente. A volte punitiva, altre
semplicemente di assurda burocrazia cioè vessazione,
cattiveria allo stato puro, insomma, sadica burocrazia carceraria.
Viviamo in condizioni illegali di sovraffollamento, ozio forzato,
mancanza di igiene e cure e spazi disponibili, e lei mi proibisce
di stampare una poesia, un cuoricino… Di queste restrizioni
non si capisce il senso visto che non sono motivabili con ragioni
di sicurezza, se non spiegabili in una logica punitiva fine
a se stessa.
Dottore lei mi appare più prigioniero di me perché
è prigioniero della sua infelicità, tristezza
e cattiveria e mi fa molta pena. Per educazione la saluto e
non scrivo il suo nome per non rischiare di essere denunciato.
Carmelo Musumeci
(Carcere di Nuoro, marzo/2005)
In
morte di Oupa Diniso
Ho appreso con sincera commozione della morte improvvisa (marzo
2005) di Oupa Diniso, uno dei “Sei di Sharpeville”.
Sharpeville, città martire, era già nella mente
e nel cuore di chi, anche nella vecchia Europa, colpevole di
tante ingiustizie nei confronti dei popoli di Africa, Asia,
America Latina…(colonialismo, sfruttamento…) si
mobilitava contro il regime dell’apartheid. Manifestando
davanti a consolati e ambasciate e anche contro le fabbriche
di armi e le banche (molte, purtroppo, anche italiane) che rifornivano
e finanziavano il governo razzista, sapevamo di lottare anche
per la nostra libertà e dignità di fronte al dispotismo.
Negli anni sessanta il massacro di Sharpeville (marzo 1960)
era diventato un richiamo costante, una pietra di paragone di
fronte ad altre stragi del potere contro popolazioni indifese
e inermi. Da “Piazza delle Tre Culture” a Città
del Messico alla “Domenica di sangue” di Derry (chiamata
la “Sharpeville irlandese”); dal massacro operato
dai colonnelli fascisti in Grecia contro gli studenti del “Politecnico”
al “Settembre Nero” del 1970 contro il popolo palestinese…E
intanto dal Sudafrica giungevano fino a noi l’eco di altre
lotte e altre orribili repressioni…I nomi di alcuni militanti
come Steve Biko, Nelson Mandela, Ruth First…e della rivolta
di Soweto (con l’immagine della prima vittima, Hector
Peterson ) in qualche modo sedimentavano anche nella nostra
mente e nel nostro cuore.
Ma solo negli anni ottanta cominciammo ad assistere ad un consistente
movimento di opposizione all’apartheid in Europa, un movimento
che principalmente denunciava le mille complicità dei
nostri governi, a parole democratici ma ottimi soci in affari
con i razzisti di Botha & C.
Imparammo a conoscere il nome di tanti altri martiri; Victoria
Mxenge, Benjamin Moloise, i “Tre di Moroka”…In
questo scenario la vicenda dei “Sei di Sharpeville”
divenne emblematica, sia per il nome della città (ricordata
anche nella “Giornata mondiale contro il razzismo”)
che per l’assurda condanna all’impiccagione senza
prove, al solo scopo di punire l’intera comunità
in rivolta contro l’apartheid. La loro salvezza (l’esecuzione
venne sospesa un paio di giorni prima, grazie anche alla mobilitazione
internazionale), anche se non poteva certo risarcire pienamente
i “Sei” delle sofferenze patite in carcere, in qualche
modo lasciava intravedere una possibile fuoriuscita dall’apartheid,
un preludio di quelle prime elezioni democratiche del 1994.
Rileggendo la storia di quel periodo dal punto di vista dell’Europa,
mi sono ulteriormente reso conto dell’importanza che le
iniziative antiapartheid (manifestazioni, azioni di picchettaggio
e boicottaggio si svolsero un po’ ovunque: da Parigi a
Dublino, da Milano a Bilbao…), hanno avuto nel mantenere
più alto sia il livello di consapevolezza politica e
sociale che la vitalità di movimenti e associazioni democratiche
europee.
Le iniziative antiapartheid hanno sicuramente rappresentato
in Europa (e in Italia in particolare) uno dei più importanti
momenti di confronto, di scambio di esperienze, di coagulo tra
i “vecchi” militanti degli anni sessanta e settanta
e nuove leve di giovani disposti a impegnarsi contro la guerra,
il razzismo e le ingiustizie planetarie.
Anche le nuove forme di lotta nate in quegli anni ( boicottaggio
di prodotti derivati dallo sfruttamento, commercio equo e solidale,
azione diretta non-violenta…) si sono poi sviluppate fino
ai nostri giorni.
Penso che in quel periodo abbia cominciato a germogliare anche
quel movimento “No-global” che da Seattle a Praga,
da Porto Alegre a Cancun, da Genova a Firenze ha rimesso in
discussione la legittimità dei privilegi dei potenti.
Sicuramente le lotte dei Neri in Sudafrica contro il regime
di Pretoria hanno fatto molto di più per la consapevolezza
sociale, politica degli Europei (in materia di diritti umani
e diritti dei popoli, nel pacifismo e contro lo sfruttamento
del “Sud” del mondo), di quanto la nostra solidarietà
possa aver contribuito a liberare le vittime del razzismo istituzionalizzato.
Con la morte di Oupa (così come, qualche anno fa, con
quella di Francis Mokhesi) è anche un pezzo della nostra
storia che ci lascia. Esprimo ai suoi familiari, ai suoi amici
e a tutti quelli che in qualche modo condivisero il suo impegno
e le sue sofferenze la mia solidarietà e la mia riconoscenza.
Gianni Sartori
Lega per i diritti e la liberazione dei popoli
(Nanto)
Impoverimento
della cultura democratica
La verità è che siamo in una fase di controriforme.
Il silenzio dei democratici sui molti interventi legislativi
che sarebbero necessari sul fronte delle libertà civili,
è il risultato dell’impoverimento della cultura
democratica e della sua rassegnazione. Le battaglie non combattute
in questi anni, la passività osservata di fronte alla
rinascita dell’autoritarismo, l’abbandono di missioni
storiche della sinistra come la difesa dei gruppi più
deboli e la lotta per l’estensione universale dei diritti,
hanno cambiato il senso comune diffuso nel paese. Sono venuti
meno quegli anticorpi necessari ad espellere le tossine immesse
nel sistema da un modello di società imperniato sulla
dittatura del mercato, sul culto dei consumi, su una cultura
popolare involgarita dalle tivù commerciali e dalle semplificazioni
dell’ideologia berlusconiana.
Per risalire la china servirebbe una decisa inversione di tendenza:
il rifiuto totale del senso comune neo autoritario, il rilancio
di tutte le ambizioni della tradizione democratica e progressista,
il rigetto del berlusconismo, che in questi anni è dilagato
ben oltre i confini del consenso politico raccolto da Forza
Italia.
Chiedere il possibile
Marco Revelli, in un’intervista al settimanale “Carta”
del gennaio 2005, si è domandato che cosa sia possibile
chiedere al sistema politico affinché cominci un “nuovo
corso” attorno alle questioni chiave del nostro tempo,
dal pericolo della guerra permanente alla tutela delle risorse
naturali. Su questi argomenti la comunità scientifica,
gruppi sempre più estesi della società civile
organizzata, la stessa opinione pubblica mondiale hanno posizioni
e consapevolezze che invece stentano a far breccia nella cittadella
della politica.
Revelli prende l’esempio del concetto di sviluppo. “Bisognerebbe
avere il coraggio – sostiene – di urlare che il
nostro obiettivo non è l’aumento del Pil ma la
sua diminuzione. (…). Ma sarebbe come se nel Cinquecento
avessimo detto che non esiste il demonio, o che la terra gira
attorno al sole: finiremmo sul rogo. Eresia! In tutto l’universo
politico questo discorso è scandaloso. Dal politico,
dunque, non mi aspetterei questo, che è un compito nostro,
un risultato che si può raggiungere controllando i consumi,
con uno stile di vita sobrio. Al leader politico non chiederei
di darsi fuoco in piazza Montecitorio, di fare il monaco buddista.
Gli chiedo però di mettere in atto politiche compatibili”.
Revelli fa qualche esempio: “La politica può ridurre
il danno della politica. Non pretendiamo di dettare il profilo
di una nuova identità. Non siamo integralisti. Si chiede
una percentuale minima delle risorse: non di abolire l’esercito,
ma il 5% del suo bilancio, non la scuola come la vorremmo noi,
ma un 10% destinato a ricerche non vincolate a criteri di efficienza
di mercato…”
Le “politiche compatibili” sui diritti civili non
sono una chimera, se non per l’insipienza di un ceto politico
distratto e conformista. In questi anni, nonostante il vento
contrario, non sono mancati i progetti di riforma, le scelte
concrete di alcuni enti locali, le pragmatiche proposte di gruppi
e associazioni. Esiste già, sotto traccia, un “programma
minimo” sui diritti civili che una coalizione democratica
dotata di coraggio potrebbe fare proprio per impegnarsi in una
lotta politica e culturale alla seduzione autoritaria.
Prendiamo la guerra e il militarismo. In questi anni in Italia
sono cresciute le spese belliche, è rifiorita la cultura
militare e c’è stata un’ondata di patriottismo
e nazionalismo sull’onda degli “eroi di Nassiriya”,
o dei “morti nelle foibe vittime della barbarie slavo-comunista
contro gli italiani”, in un crescendo di retorica e semplificazione
storica. Ma nello stesso tempo si è radicata una forte
opposizione alle imprese belliche, con una grande partecipazione
popolare, mentre campagne come Sbilanciamoci! e il movimento
della cooperazione internazionale hanno messo a fuoco le alternative
possibili, ossia una politica estera che non passi per gli eserciti
e la minaccia militare, ma s’impegni per la collaborazione
internazionale, allargando i progetti di cooperazione e la diplomazia
dal basso per un’autentica prevenzione dei conflitti.
La lotta agli squilibri di potere fra Nord e Sud del mondo,
l’insistenza per una giustizia economica e sociale che
abbia una scala planetaria, non sono più i sogni di piccole
minoranze, ma progetti politici da perseguire attraverso scelte
concrete, come l’abolizione del debito estero dei paesi
più poveri, la tassazione delle transazioni finanziarie
speculative, la democratizzazione dell’ONU, la riforma
degli organismi sovrannazionali, il riconoscimento dei diritti
dei migranti…
Che fare
Chi di recente ha scoperto la nonviolenza, tanto per fare un
esempio, potrebbe dare un seguito concreto alla sua svolta,
battendosi per obiettivi possibili, o come direbbe Revelli “compatibili”:
la riduzione del bilancio della difesa, magari con la rinuncia
a qualche aereo da guerra in costruzione, a favore della cooperazione
internazionale (quasi azzerata dai tagli decisi dal governo
Berlusconi); l’istituzione, almeno a livello sperimentale,
dei “corpi civili di pace”, ossia di quelle strutture
d’intermediazione nonviolenta che il parlamento europeo
ha caldeggiato con una risoluzione rimasta lettera morta; la
definitiva cancellazione dei crediti vantati dall’Italia
verso paesi del Sud del mondo. Non si tratterebbe, per i nostri
politici, di “darsi fuoco in piazza Montecitorio”,
ma di portare sul proscenio alcune idee finora relegate dietro
le quinte.
Si potrebbe anche fare di più: ad esempio sostenere gli
sforzi solitari del presidente sardo Renato Soru, un imprenditore
prestato alla politica e subìto, più che scelto,
come leader del centrosinistra nell’isola. Soru è
stato il primo uomo politico ad avere il coraggio di sfidare
– su sollecitazione di comitati e gruppi di base –
lo strapotere dell’esercito statunitense, che gestisce
la sua base militare alla Maddalena con arroganza pari al servilismo
mostrato da tutti i governi italiani del dopo guerra. Nel paese
che ha subìto l’umiliazione della sentenza d’assoluzione
per gli aviatori statunitensi “giocherelloni” responsabili
della strage sul Cermis (venti morti nel febbraio 1998 per un
cavo della funivia tranciato da un aereo militare), Soru si
è opposto all’estensione della base utilizzata
dai sottomarini nucleari e ha rivendicato il diritto ad avere
informazioni dettagliate su un misterioso incidente avvenuto
davanti alla Maddalena.
Lorenzo Guadagnucci
(Firenze)
I
nostri fondi neri
|
Sottoscrizioni.
Silvio Gori (Bergamo) in ricordo di Egisto e Maria
Gori, 30,00; Aurora e Paolo (Milano) in ricordo di
Alfonso Failla, 500,00; Fabio Rosana (Fossano) 10,00;
Associazione culturale libertaria “A. Bortolotti”,
3.195,70; Gianni Pasqualotto (Crespano del Grappa)
100,00; a/m Massimo Ortalli, Antonio La Gioia (Roma)
40,00; Francesco Lupis (Aspra) 8,00; Marcella Caravaglios
(Messina) 20,00; Riccardo Allegrini (Colleferro) 5,00;
Antonio Tarasconi (Montescudo) 50,00; Salvatore Pappalardo
(Venezia-Mestre) 10,00; Marco della Libreria Voltapagina
(Genova-Sampierdarena) 54,00; Paolo Mauri (Milano)
10,00; AB (Milano) 16,00. Totale euro 4.058,70.
Totale euro 4.058,70.
Abbonamenti sostenitori.
Maurizio Guastini (Carrara), 250,00.
Totale euro 250,00.
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