Rivista Anarchica Online


anarchia/democrazia

Una democrazia non emendabile
di Antonio Cardella

 

Nel pensiero delle origini, la democrazia era la coniugazione sul campo delle idee del liberalismo, niente di più sideralmente distante dalla realtà attuale.


Il pensiero anarchico, per assumere correttamente su di sè l’onere di un progetto alternativo di società, deve in primo luogo decifrare con precisione il contesto nel quale si trova ad operare, innanzitutto per non commettere l’errore di articolare il proprio modello in uno spazio astratto nel quale artificiosamente si eliminano gli esiti dell’esistente; poi per impedire che alcune suggestioni di natura riformistica, messe alla porta in un primo tempo dall’urgenza di una critica puntuale e coerente, si ripresentino poi alla finestra sotto le mentite spoglie dell’apparentemente inedito.
Non si richiede con ciò di ripartire con le solite ed interminabili “analisi sulla fase” che hanno caratterizzato i dibattiti interni al Movimento per tutti gli anni Settanta, certamente utilissimi per alcuni aspetti, ma con picchi grafo-logorroici, dai quali non può chiamarsi fuori nessuno, neppure chi scrive queste note. Si tratta invece di prendere coscienza delle nuove dimensioni dei singoli problemi, contestualizzandoli nella crisi epocale di una transizione di cui si sconoscono gli sbocchi e la durata.
Il fatto è che il modello democratico-capitalistico espresso dall’Occidente è al capolinea. Certo ci vorranno ancora degli anni di passione perchè il tracollo sia evidente in tutta la sua ampiezza, ma già ci sono tutti gli elementi per individuare il processo. Non è una buona notizia, anzi, per molti versi, è una constatazione carica di angoscia, perchè paradossalmente è un modello, quello democratico-capitalistico, in espansione, un corpo malato che si allunga su plaghe ritenute indenni dalle sue suggestioni, un’epidemia contro la quale non esistono vaccini e, quel che è peggio, abbonda di untori. Nessuno, infatti, sino a qualche decennio fa, avrebbe sospettato che popoli emergenti, appena usciti dai furori di strutture di governo fortemente ideologizzate e perciò dirigiste e liberticide, imboccassero percorsi, di cui avevano correttamente avvertito la pericolosità, anche se non erano riusciti a individuare tracciati alternativi percorribili. Voglio dire che Paesi come la Cina, pur rivendicando strategie autonome di sviluppo, al loro interno promuovono modelli di tipo capitalistico che finiscono col riproporre profonde disuguaglianze tra i cittadini e competitività aggressiva, sia tra i propri ceti produttivi, che, all’esterno, nei riguardi soprattutto dell’Occidente, del quale, per altri versi, scimmiotta i comportamenti. O come la mite India, che sconta l’eredità dei Gandhi e dei Nehru sfrattando da alcuni quartieri di Bombay, senza preavviso, alcune centinaia di migliaia di diseredati per dare spazio alla realizzazione del megagalattico progetto di una città densa di grattacieli, invivibile, come invivibili sono ormai Pechino, Shangai e molte altre metropoli del sud-est asiatico. Il virus dell’occidentalismo sperequato e rapinoso dissemina di vittime un continente dal quale molti si aspettavano, anzi, si auguravano un contributo di idee e di progetti per uscire dalle secche di una civiltà dei consumi, priva di etica e di prospettive, che è già agonizzante nel mondo industrializzato.

Come una cernia boccheggiante

Il collasso del modello democratico-capitalistico, si diceva all’inizio.
Dal punto di vista giuridico-normativo è ormai sotto gli occhi di tutti che il vecchio schema statalista non regge più e tutti i governi che si richiamano a questo schema boccheggiano come una cernia appena pescata nel tentativo di regolare una comunità sempre più disgregata. Ovunque le città esplodono per il continuo affluirvi di diseredati che sperano di risolvere i loro problemi in contesti più ampi e apparentemente più accoglienti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: periferie inospitali, popolate da uomini e donne che vi dimorano soltanto per avere un tetto, spesso precario, sotto il quale passare la notte, mentre, di giorno, percorrono le vie del centro nel tentativo di accedere comunque a quel consumo di massa tanto esaltato dai mezzi di comunicazione. Le città, insomma. sono ormai solo percorse, non più abitate. E sono lo specchio degli Stati che non reggono più l’urto di emergenze fuori dal loro controllo.
Dunque il collasso del sistema giuridico-normativo dello Stato così come si configura nella modernità (e anche nel post-moderno, se vogliamo accedere alle periodizzazioni in voga).
Alcuni sostengono che sono saltati gli equilibri di potere, che, di conseguenza, per garantire la governabilità, si vada sempre di più verso una dittatura della maggioranza, che ha i suoi sacerdoti, costruisce le sue chiese, alle quali può accedere solo chi sia mondo dal sacrilego dissenso.
Questa perversa evoluzione della forma democratica delle origini – sostengono ancora – è dovuta principalmente alla progressiva eliminazione di quegli istituti di garanzia che dovrebbero costituire un argine al potere di chi ottiene il suffragio della maggioranza dei cittadini. Sono istituti che dovrebbero sorvegliare sul rispetto dei dettati costituzionali e, soprattutto, dovrebbero garantire il rispetto e i diritti delle minoranze. Inoltre – dicono sempre questi critici così orientati – la stessa maggioranza che esce dalle urne non è più omogenea e coesa come sarebbe funzionalmente auspicabile: è, di norma, formata da forze di diversa ispirazione che, per dare risposte concrete alle esigenze di governo, debbono gestire una contrattazione permanente dalla quale, inevitabilmente, alcuni, numericamente prevalenti, usciranno avvantaggiati, gli altri delusi ed impotenti, in un processo ripetitivo al termine del quale si troveranno i Silvio Berlusconi. I quali, incontrando sulla propria strada ostacoli di amici e nemici, tenderanno sempre a modificare le regole del gioco, sia agendo sulla legislazione vigente, sia adattando alle proprie esigenze il sistema elettorale, che, infatti, mutatis mutandis, è sempre assai instabile anche in contesti statali meno carnascialeschi del nostro. Anche in America, si è aperto recentemente un dibattito per modificare il sistema delle primarie e non solo quello.
Le critiche al sistema democratico sin qui sinteticamente esposte sono certamente puntuali ed è difficile contestarle. Ma, a mio giudizio, hanno il limite di affrontare il problema esclusivamente dal punto di vista tecnico, sottintendono, cioè, la convertibilità del sistema una volta che si ponga mano a riformarne opportunamente i singoli meccanismi.

Sottoposti alla tirannia statuale

È mia opinione (e mi ritrovo in buona compagnia) che il male sia più profondo, che investa, cioè, i caratteri di fondo della modernità e, per questo, il bandolo della matassa vada ricercato in un groviglio diverso del gomitolo. Credo. cioè (ed è qui la grande intuizione del pensiero anarchico) che bisogna riprendere il discorso da molto più lontano: da quando il binomio nazione-stato soffocò le comunità locali e impose loro la fittizia identità di cittadini di..., sottoponendoli alla tirannia del potere statuale. Fu in quel momento che si divaricarono le strade e le sorti dei comuni mortali e quelle di un potere autoreferente che creava confini, elevando barriere per separare un dentro da un fuori, così da snaturare con un atto arbitrario le aggregazioni spontanee segnate da tradizioni, consuetudini e destini condivisi. Mi pare già di sentirli gli alti lai dei sostenitori delle magnifiche sorti e progressive di una storia ad andamento lineare, che non si può deviare dai binari dei fatali percorsi senza macchiarsi di antiprogressismo o di nostalgie passatiste. Ebbene, io credo che a questa fatalità di una certa storia moltissimi uomini, anche inconsapevolmente, non credono, anzi, compatibilmente con gli strumenti che posseggono, continuano ad opporvisi. Nel suo libro: Intervista sull’identità (Editori Laterza – Bari, 2003 – pagg. 15 e seg.) Zygmunt Bauman narra che nel periodo immediatamente precedente al secondo conflitto mondiale, nella sua Polonia, venne indetto un censimento della popolazione. La Polonia era caratterizzata da una forte e complessa multietnicità:

L’obiettivo di riplasmare questo amalgama con conversioni e assimilazioni forzate allo scopo di ottenere una nazione omogenea o quasi, sulla falsariga, diciamo, del modello francese, era forse perseguito con forza da una parte della élite politica, ma era ben lontano dall’essere universalmente accettato e dall’essere ricercato in maniera coerente, un progetto lontanissimo dal compimento. Come normale in uno Stato moderno, gli addetti al censimento erano stati tuttavia addestrati a pensare che ad ogni uomo o donna censiti dovesse corrispondere una nazione di appartenenza. Furono date loro istruzioni di chiedere ad ogni suddito dello Stato polacco di dichiarare la propria appartenenza nazionale (oggi si direbbe: la propria “identità etnica o nazionale”). In circa un milione di casi i rilevatori del censimento non riuscirono ad ottenere risposta su questo punto: la gente da loro interrogata semplicemente non riusciva ad afferrare il significato di parole come “nazione” e “avere una nazionalità”. Nonostante la pressione esercitata (le minacce e uno sforzo davvero titanico per spiegare il significato di “nazionalità”) i cittadini censiti continuavano ostinatamente a dare le sole risposte che per loro avevano un senso: “siamo locali”, “siamo di questo posto”, “siamo di qui”, “questa è la nostra terra”. Alla fine i responsabili del censimento dovettero arrendersi e aggiungere la voce “locali” alla lista ufficiale della nazionalità... la Polonia non era certo un caso unico, né sarebbe stato l’ultimo caso del genere.

Non era il primo, quello della Polonia della fine degli anni Trenta e bastava aprire un atlante per individuare isole di pervicace resistenza al potere centrale. C’erano stati i Balcani, che solo il pugno di ferro di un Tito avrebbe, per un periodo breve della metà del Novecento, ridotto ad unità (la Iugoslavia) e poi i molti e diffusi irredentismi più o meno sedati, pretesto, spesso, per repressioni violente e indiscriminate.
Quindi una storia, quella del binomio nazione-stato tutt’altro che scritta una volta e per sempre. Un binomio che anzi mostra crepe vistose se è vero che gli Stati nazionali non reggono più il peso di squilibri e conflitti interni che, di per sé, riducono i già asfittici spazi di libertà che una democrazia, almeno nella sua codificazione, dovrebbe assicurare. Si è così ritenuto di potere risolvere i problemi delle difficili convivenze statali con il salto della quaglia, prima con la formulazione di normative internazionali relative a specifici settori produttivi (la CECA), poi con l’avviare artificiosi processi di unificazione politica. Il risultato abbastanza scontato è sotto gli occhi di tutti: rendendo esponenziali le difficoltà che sono proprie di ciascun paese dell’unione auspicata, non ci si può ragionevolmente attendere che dall’operazione sortiscano esiti qualitativamente diversi da quelli già sperimentati negli ambiti locali. Non occorre scrivere saggi ponderosi per evidenziare come, allo stato dell’opera, in sede europea non si riesca a legiferare senza che gli interessi dominanti non prevalgano sempre e in misura crescente (per la dilatazione dei confini) sulla comunità dei dominati. Poi, per la naturale esigenza di tenere coeso un contesto fortemente caratterizzato da instabilità originarie, si inaspriscono limitazioni e misure repressive talché crescono esponenzialmente coloro che ne sono colpiti e diminuiscono altrettanto esponenzialmente, quanti ne risultano tutelati. Il dissenso, così, è perseguito non soltanto dal potere della dittatura della maggioranza espressa in un solo paese, ma dalla convergenza obiettiva degli interessi della coalizione delle maggioranze che sono espressi nelle istituzioni comunitarie. Oggi un perseguitato politico, nel Vecchio Continente, non trova ausilio da nessuna parte perchè, di fatto, sono state soppresse tutte le garanzie che in una certa misura lo tutelavano. Il diritto d’asilo fa parte di un mitico passato.

L’insostenibilità del sistema

Gli spazi di democrazia – da quel che abbiamo accennato e dal molto che, per ovvie ragioni di spazio, abbiamo omesso – si sono drasticamente ridotti, e non soltanto per la consapevole opera di singoli governanti – che pure in qualche caso possono aver determinato un’accelerazione al processo – ma per la dinamica stessa delle procedure messe in atto, che non lasciano spazio ad alternative.
Certo – a parte le resistenze cui abbiamo accennato – non è che i cittadini delle democrazie realizzate, non abbiano concorso e tuttavia non concorrano, per scelta o per necessità, ad accrescere l’insostenibilità del sistema. Per interagire con processi ritenuti, a torto o a ragione, fatali o difficilmente arginabili, con azioni o comportamenti individuali, hanno almeno reso indolori per i governanti di turno misure che avrebbero dovuto essere contestate. La corsa indiscriminata ai consumi, ad esempio, ha alterato i comportamenti di una saggia gestione delle risorse, avvantaggiando i monopoli della grande distribuzione e depauperando i redditi familiari che altrimenti avrebbero potuto essere impiegati più oculatamente. È una propensione, quella al consumo, che non ha solo effetti di natura economica: ci rende passivi ai richiami di imponenti interessi economici e complici di un modello di sviluppo che ci vede perdenti; allenta i nostri freni inibitori non solo nei riguardi della dinamica economica capitalistica, ma, alla lunga, della filosofia socio-politica che ne costituisce il retroterra; ci rende disponibili a suggestioni che compromettono le nostre capacità di decifrare ciò che è compatibile con i nostri reali interessi e ciò che non lo è; ci isola dai nostri simili nell’atto egoistico del possesso individuale o nella propensione ad esso. Ma, soprattutto, ci condanna alla solitudine. Antropologi, etnologi e sociologi si sono occupati della funzione straniante che assumono i nonluoghi, (la definizione costituisce il titolo di un libro di Marc Augé, pubblicato da Elèuthera nel settembre del 2002), sorta di tunnel nei quali si accede soltanto depositando i tratti della nostra identità, e che si è costretti a percorrere a capo chino, obbedienti alle sollecitazioni, sino alla cassa che conclude il percorso, alla quale pagheremo il tributo della nostra complicità. Il moltiplicarsi di spazi simili, anonimi, apparentemente disponibili ad esaudire ogni nostro desiderio, ma nei quali, al contrario, tutto è preordinato per condizionare persino i nostri normali movimenti sono il segno tangibile di un ideologia che tende ad annullare gli spazi di libertà che dovrebbero caratterizzare una società almeno nominalmente democratica.

Per non implodere nel proprio vortice

Naturalmente nel moltiplicarsi dei nonluoghi nel sabotaggio puntuale della vita di relazioni libere all’interno delle singole comunità, nel tentativo di rendere plausibile la repressione del dissenso con la speciosa motivazione che non ci si può opporre al procedere lineare del progresso, c’è molto di più che la quotidiana opera dei singoli governi di condizionare la volontà dei propri cittadini. C’è la necessità di fondo dell’intero sistema di eliminare ogni ostacolo alla sempre più difficoltosa correzione dei meccanismi che, con sempre maggiore affanno, sostengono il ritmo della macchina che convenzionalmente chiamiamo, in Occidente, democrazia compiuta. Da questa esigenza pressante del sistema nasce l’imperativo categorico di ridurre il numero dei centri decisionali, di omologare alle finalità del capitalismo maturo i destini di popoli diversi, spesso irriducibili ai richiami di una civiltà lontana e incomprensibile e tuttavia chiamati a mobilitarsi per condurre guerre insostenibili, generate da una dinamica socio-economica condannata ad un’espansione continua per non implodere nel suo stesso vortice.
È ovvio che quanto abbiamo sin qui scritto è ben lungi dall’esaurire un argomento così complesso come quello dello stato della democrazia in Occidente. Invito quindi i lettori a considerare questo mio contributo come un insieme di appunti per una riflessione individuale e collettiva che superi i vecchi schemi e che non si lasci irretire dalle suggestioni di una democrazia emendabile e da protagonismi inesistenti (la classe, il proletariato delle fabbriche, il sindacato e via dicendo).
Nel pensiero delle origini, la democrazia era la coniugazione sul campo delle idee del liberalismo: avrebbe dovuto trasformare i principi formali della libertà e dell’eguaglianza in assetti sociali che tali principi attuassero nel concreto vivere degli uomini. Era certamente un processo che tenesse conto, per attuarsi, delle diverse condizioni di partenza dei singoli popoli. Ma la condizione ineludibile era che mai, nei singoli percorsi, fossero messi in discussione i cardini del pensiero liberale: l’attuazione di un governo dei popoli, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l’equa ripartizione delle risorse, la riduzione drastica dei conflitti, interni ed esterni, in virtù di una pratica negoziale che escludesse dai suoi strumenti la guerra. La realtà attuale è sideralmente distante da assetti di questo tipo e il moltiplicarsi delle guerre regionali, dei tentativi di egemonia e il riproporsi di nuovi colonialismi sono, sotto ogni latitudine, del tutto espliciti a dimostrarlo.

Antonio Cardella