Il pensiero anarchico,
per assumere correttamente su di sè l’onere di
un progetto alternativo di società, deve in primo luogo
decifrare con precisione il contesto nel quale si trova ad operare,
innanzitutto per non commettere l’errore di articolare
il proprio modello in uno spazio astratto nel quale artificiosamente
si eliminano gli esiti dell’esistente; poi per impedire
che alcune suggestioni di natura riformistica, messe alla porta
in un primo tempo dall’urgenza di una critica puntuale
e coerente, si ripresentino poi alla finestra sotto le mentite
spoglie dell’apparentemente inedito.
Non si richiede con ciò di ripartire con le solite ed
interminabili “analisi sulla fase” che hanno caratterizzato
i dibattiti interni al Movimento per tutti gli anni Settanta,
certamente utilissimi per alcuni aspetti, ma con picchi grafo-logorroici,
dai quali non può chiamarsi fuori nessuno, neppure chi
scrive queste note. Si tratta invece di prendere coscienza delle
nuove dimensioni dei singoli problemi, contestualizzandoli nella
crisi epocale di una transizione di cui si sconoscono gli sbocchi
e la durata.
Il fatto è che il modello democratico-capitalistico espresso
dall’Occidente è al capolinea. Certo ci vorranno
ancora degli anni di passione perchè il tracollo sia
evidente in tutta la sua ampiezza, ma già ci sono tutti
gli elementi per individuare il processo. Non è una buona
notizia, anzi, per molti versi, è una constatazione carica
di angoscia, perchè paradossalmente è un modello,
quello democratico-capitalistico, in espansione, un corpo malato
che si allunga su plaghe ritenute indenni dalle sue suggestioni,
un’epidemia contro la quale non esistono vaccini e, quel
che è peggio, abbonda di untori. Nessuno, infatti, sino
a qualche decennio fa, avrebbe sospettato che popoli emergenti,
appena usciti dai furori di strutture di governo fortemente
ideologizzate e perciò dirigiste e liberticide, imboccassero
percorsi, di cui avevano correttamente avvertito la pericolosità,
anche se non erano riusciti a individuare tracciati alternativi
percorribili. Voglio dire che Paesi come la Cina, pur rivendicando
strategie autonome di sviluppo, al loro interno promuovono modelli
di tipo capitalistico che finiscono col riproporre profonde
disuguaglianze tra i cittadini e competitività aggressiva,
sia tra i propri ceti produttivi, che, all’esterno, nei
riguardi soprattutto dell’Occidente, del quale, per altri
versi, scimmiotta i comportamenti. O come la mite India, che
sconta l’eredità dei Gandhi e dei Nehru sfrattando
da alcuni quartieri di Bombay, senza preavviso, alcune centinaia
di migliaia di diseredati per dare spazio alla realizzazione
del megagalattico progetto di una città densa di grattacieli,
invivibile, come invivibili sono ormai Pechino, Shangai e molte
altre metropoli del sud-est asiatico. Il virus dell’occidentalismo
sperequato e rapinoso dissemina di vittime un continente dal
quale molti si aspettavano, anzi, si auguravano un contributo
di idee e di progetti per uscire dalle secche di una civiltà
dei consumi, priva di etica e di prospettive, che è già
agonizzante nel mondo industrializzato.
Come una cernia boccheggiante
Il collasso del modello democratico-capitalistico, si diceva
all’inizio.
Dal punto di vista giuridico-normativo è ormai sotto
gli occhi di tutti che il vecchio schema statalista non regge
più e tutti i governi che si richiamano a questo schema
boccheggiano come una cernia appena pescata nel tentativo di
regolare una comunità sempre più disgregata. Ovunque
le città esplodono per il continuo affluirvi di diseredati
che sperano di risolvere i loro problemi in contesti più
ampi e apparentemente più accoglienti. Il risultato è
sotto gli occhi di tutti: periferie inospitali, popolate da
uomini e donne che vi dimorano soltanto per avere un tetto,
spesso precario, sotto il quale passare la notte, mentre, di
giorno, percorrono le vie del centro nel tentativo di accedere
comunque a quel consumo di massa tanto esaltato dai mezzi di
comunicazione. Le città, insomma. sono ormai solo percorse,
non più abitate. E sono lo specchio degli Stati che non
reggono più l’urto di emergenze fuori dal loro
controllo.
Dunque il collasso del sistema giuridico-normativo dello Stato
così come si configura nella modernità (e anche
nel post-moderno, se vogliamo accedere alle periodizzazioni
in voga).
Alcuni sostengono che sono saltati gli equilibri di potere,
che, di conseguenza, per garantire la governabilità,
si vada sempre di più verso una dittatura della maggioranza,
che ha i suoi sacerdoti, costruisce le sue chiese, alle quali
può accedere solo chi sia mondo dal sacrilego dissenso.
Questa perversa evoluzione della forma democratica delle origini
– sostengono ancora – è dovuta principalmente
alla progressiva eliminazione di quegli istituti di garanzia
che dovrebbero costituire un argine al potere di chi ottiene
il suffragio della maggioranza dei cittadini. Sono istituti
che dovrebbero sorvegliare sul rispetto dei dettati costituzionali
e, soprattutto, dovrebbero garantire il rispetto e i diritti
delle minoranze. Inoltre – dicono sempre questi critici
così orientati – la stessa maggioranza che esce
dalle urne non è più omogenea e coesa come sarebbe
funzionalmente auspicabile: è, di norma, formata da forze
di diversa ispirazione che, per dare risposte concrete alle
esigenze di governo, debbono gestire una contrattazione permanente
dalla quale, inevitabilmente, alcuni, numericamente prevalenti,
usciranno avvantaggiati, gli altri delusi ed impotenti, in un
processo ripetitivo al termine del quale si troveranno i Silvio
Berlusconi. I quali, incontrando sulla propria strada ostacoli
di amici e nemici, tenderanno sempre a modificare le regole
del gioco, sia agendo sulla legislazione vigente, sia adattando
alle proprie esigenze il sistema elettorale, che, infatti, mutatis
mutandis, è sempre assai instabile anche in contesti
statali meno carnascialeschi del nostro. Anche in America, si
è aperto recentemente un dibattito per modificare il
sistema delle primarie e non solo quello.
Le critiche al sistema democratico sin qui sinteticamente esposte
sono certamente puntuali ed è difficile contestarle.
Ma, a mio giudizio, hanno il limite di affrontare il problema
esclusivamente dal punto di vista tecnico, sottintendono, cioè,
la convertibilità del sistema una volta che si ponga
mano a riformarne opportunamente i singoli meccanismi.
Sottoposti alla tirannia statuale
È mia opinione (e mi ritrovo in buona compagnia) che
il male sia più profondo, che investa, cioè, i
caratteri di fondo della modernità e, per questo, il
bandolo della matassa vada ricercato in un groviglio diverso
del gomitolo. Credo. cioè (ed è qui la grande
intuizione del pensiero anarchico) che bisogna riprendere il
discorso da molto più lontano: da quando il binomio nazione-stato
soffocò le comunità locali e impose loro la fittizia
identità di cittadini di..., sottoponendoli
alla tirannia del potere statuale. Fu in quel momento che si
divaricarono le strade e le sorti dei comuni mortali e quelle
di un potere autoreferente che creava confini, elevando barriere
per separare un dentro da un fuori, così
da snaturare con un atto arbitrario le aggregazioni spontanee
segnate da tradizioni, consuetudini e destini condivisi. Mi
pare già di sentirli gli alti lai dei sostenitori delle
magnifiche sorti e progressive di una storia ad andamento
lineare, che non si può deviare dai binari dei fatali
percorsi senza macchiarsi di antiprogressismo o di nostalgie
passatiste. Ebbene, io credo che a questa fatalità di
una certa storia moltissimi uomini, anche inconsapevolmente,
non credono, anzi, compatibilmente con gli strumenti che posseggono,
continuano ad opporvisi. Nel suo libro: Intervista sull’identità
(Editori Laterza – Bari, 2003 – pagg. 15 e seg.)
Zygmunt Bauman narra che nel periodo immediatamente precedente
al secondo conflitto mondiale, nella sua Polonia, venne indetto
un censimento della popolazione. La Polonia era caratterizzata
da una forte e complessa multietnicità:
L’obiettivo
di riplasmare questo amalgama con conversioni e assimilazioni
forzate allo scopo di ottenere una nazione omogenea o quasi,
sulla falsariga, diciamo, del modello francese, era forse perseguito
con forza da una parte della élite politica, ma era ben
lontano dall’essere universalmente accettato e dall’essere
ricercato in maniera coerente, un progetto lontanissimo dal
compimento. Come normale in uno Stato moderno, gli addetti al
censimento erano stati tuttavia addestrati a pensare che ad
ogni uomo o donna censiti dovesse corrispondere una nazione
di appartenenza. Furono date loro istruzioni di chiedere ad
ogni suddito dello Stato polacco di dichiarare la propria appartenenza
nazionale (oggi si direbbe: la propria “identità
etnica o nazionale”). In circa un milione di casi i rilevatori
del censimento non riuscirono ad ottenere risposta su questo
punto: la gente da loro interrogata semplicemente non riusciva
ad afferrare il significato di parole come “nazione”
e “avere una nazionalità”. Nonostante la
pressione esercitata (le minacce e uno sforzo davvero titanico
per spiegare il significato di “nazionalità”)
i cittadini censiti continuavano ostinatamente a dare le sole
risposte che per loro avevano un senso: “siamo locali”,
“siamo di questo posto”, “siamo di qui”,
“questa è la nostra terra”. Alla fine i responsabili
del censimento dovettero arrendersi e aggiungere la voce “locali”
alla lista ufficiale della nazionalità... la Polonia
non era certo un caso unico, né sarebbe stato l’ultimo
caso del genere.
Non era il primo, quello della Polonia della fine degli anni
Trenta e bastava aprire un atlante per individuare isole di
pervicace resistenza al potere centrale. C’erano stati
i Balcani, che solo il pugno di ferro di un Tito avrebbe, per
un periodo breve della metà del Novecento, ridotto ad
unità (la Iugoslavia) e poi i molti e diffusi irredentismi
più o meno sedati, pretesto, spesso, per repressioni
violente e indiscriminate.
Quindi una storia, quella del binomio nazione-stato
tutt’altro che scritta una volta e per sempre. Un binomio
che anzi mostra crepe vistose se è vero che gli Stati
nazionali non reggono più il peso di squilibri e conflitti
interni che, di per sé, riducono i già asfittici
spazi di libertà che una democrazia, almeno nella sua
codificazione, dovrebbe assicurare. Si è così
ritenuto di potere risolvere i problemi delle difficili convivenze
statali con il salto della quaglia, prima con la formulazione
di normative internazionali relative a specifici settori produttivi
(la CECA), poi con l’avviare artificiosi processi di unificazione
politica. Il risultato abbastanza scontato è sotto gli
occhi di tutti: rendendo esponenziali le difficoltà che
sono proprie di ciascun paese dell’unione auspicata, non
ci si può ragionevolmente attendere che dall’operazione
sortiscano esiti qualitativamente diversi da quelli già
sperimentati negli ambiti locali. Non occorre scrivere saggi
ponderosi per evidenziare come, allo stato dell’opera,
in sede europea non si riesca a legiferare senza che gli interessi
dominanti non prevalgano sempre e in misura crescente (per la
dilatazione dei confini) sulla comunità dei dominati.
Poi, per la naturale esigenza di tenere coeso un contesto fortemente
caratterizzato da instabilità originarie, si inaspriscono
limitazioni e misure repressive talché crescono esponenzialmente
coloro che ne sono colpiti e diminuiscono altrettanto esponenzialmente,
quanti ne risultano tutelati. Il dissenso, così, è
perseguito non soltanto dal potere della dittatura della maggioranza
espressa in un solo paese, ma dalla convergenza obiettiva degli
interessi della coalizione delle maggioranze che sono espressi
nelle istituzioni comunitarie. Oggi un perseguitato politico,
nel Vecchio Continente, non trova ausilio da nessuna parte perchè,
di fatto, sono state soppresse tutte le garanzie che in una
certa misura lo tutelavano. Il diritto d’asilo
fa parte di un mitico passato.
L’insostenibilità del sistema
Gli spazi di democrazia – da quel che abbiamo accennato
e dal molto che, per ovvie ragioni di spazio, abbiamo omesso
– si sono drasticamente ridotti, e non soltanto per la
consapevole opera di singoli governanti – che pure in
qualche caso possono aver determinato un’accelerazione
al processo – ma per la dinamica stessa delle procedure
messe in atto, che non lasciano spazio ad alternative.
Certo – a parte le resistenze cui abbiamo accennato –
non è che i cittadini delle democrazie realizzate, non
abbiano concorso e tuttavia non concorrano, per scelta o per
necessità, ad accrescere l’insostenibilità
del sistema. Per interagire con processi ritenuti, a torto o
a ragione, fatali o difficilmente arginabili, con azioni o comportamenti
individuali, hanno almeno reso indolori per i governanti di
turno misure che avrebbero dovuto essere contestate. La corsa
indiscriminata ai consumi, ad esempio, ha alterato i comportamenti
di una saggia gestione delle risorse, avvantaggiando i monopoli
della grande distribuzione e depauperando i redditi familiari
che altrimenti avrebbero potuto essere impiegati più
oculatamente. È una propensione, quella al consumo, che
non ha solo effetti di natura economica: ci rende passivi ai
richiami di imponenti interessi economici e complici di un modello
di sviluppo che ci vede perdenti; allenta i nostri freni inibitori
non solo nei riguardi della dinamica economica capitalistica,
ma, alla lunga, della filosofia socio-politica che ne costituisce
il retroterra; ci rende disponibili a suggestioni che compromettono
le nostre capacità di decifrare ciò che è
compatibile con i nostri reali interessi e ciò che non
lo è; ci isola dai nostri simili nell’atto egoistico
del possesso individuale o nella propensione ad esso.
Ma, soprattutto, ci condanna alla solitudine. Antropologi, etnologi
e sociologi si sono occupati della funzione straniante che assumono
i nonluoghi, (la definizione costituisce il titolo
di un libro di Marc Augé, pubblicato da Elèuthera
nel settembre del 2002), sorta di tunnel nei quali si accede
soltanto depositando i tratti della nostra identità,
e che si è costretti a percorrere a capo chino, obbedienti
alle sollecitazioni, sino alla cassa che conclude il percorso,
alla quale pagheremo il tributo della nostra complicità.
Il moltiplicarsi di spazi simili, anonimi, apparentemente disponibili
ad esaudire ogni nostro desiderio, ma nei quali, al contrario,
tutto è preordinato per condizionare persino i nostri
normali movimenti sono il segno tangibile di un ideologia che
tende ad annullare gli spazi di libertà che dovrebbero
caratterizzare una società almeno nominalmente democratica.
Per non implodere nel proprio vortice
Naturalmente nel moltiplicarsi dei nonluoghi nel sabotaggio
puntuale della vita di relazioni libere all’interno delle
singole comunità, nel tentativo di rendere plausibile
la repressione del dissenso con la speciosa motivazione che
non ci si può opporre al procedere lineare del progresso,
c’è molto di più che la quotidiana opera
dei singoli governi di condizionare la volontà dei propri
cittadini. C’è la necessità di fondo dell’intero
sistema di eliminare ogni ostacolo alla sempre più difficoltosa
correzione dei meccanismi che, con sempre maggiore affanno,
sostengono il ritmo della macchina che convenzionalmente chiamiamo,
in Occidente, democrazia compiuta. Da questa esigenza pressante
del sistema nasce l’imperativo categorico di ridurre il
numero dei centri decisionali, di omologare alle finalità
del capitalismo maturo i destini di popoli diversi, spesso irriducibili
ai richiami di una civiltà lontana e incomprensibile
e tuttavia chiamati a mobilitarsi per condurre guerre insostenibili,
generate da una dinamica socio-economica condannata ad un’espansione
continua per non implodere nel suo stesso vortice.
È ovvio che quanto abbiamo sin qui scritto è ben
lungi dall’esaurire un argomento così complesso
come quello dello stato della democrazia in Occidente. Invito
quindi i lettori a considerare questo mio contributo come un
insieme di appunti per una riflessione individuale e collettiva
che superi i vecchi schemi e che non si lasci irretire dalle
suggestioni di una democrazia emendabile e da protagonismi inesistenti
(la classe, il proletariato delle fabbriche, il sindacato e
via dicendo).
Nel pensiero delle origini, la democrazia era la coniugazione
sul campo delle idee del liberalismo: avrebbe dovuto trasformare
i principi formali della libertà e dell’eguaglianza
in assetti sociali che tali principi attuassero nel concreto
vivere degli uomini. Era certamente un processo che tenesse
conto, per attuarsi, delle diverse condizioni di partenza dei
singoli popoli. Ma la condizione ineludibile era che mai, nei
singoli percorsi, fossero messi in discussione i cardini del
pensiero liberale: l’attuazione di un governo dei popoli,
l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l’equa
ripartizione delle risorse, la riduzione drastica dei conflitti,
interni ed esterni, in virtù di una pratica negoziale
che escludesse dai suoi strumenti la guerra. La realtà
attuale è sideralmente distante da assetti di questo
tipo e il moltiplicarsi delle guerre regionali, dei tentativi
di egemonia e il riproporsi di nuovi colonialismi sono, sotto
ogni latitudine, del tutto espliciti a dimostrarlo.
Antonio Cardella
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