nuove vie
La politica alla fine della politica
di Giorgio Barberis
A fronte di un decadimento sempre
più palese della politica, tradizionalmente intesa,
emerge sempre più la necessità di trovare altre
coordinate esplicative.
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Di fronte alle insostenibili
cronache quotidiane di orrore e violenza di questo tragico
inizio di millennio, ci chiediamo sempre più disorientati
quale sia il senso di ciò che sta accadendo; ogni giorno
violenza, morte, distruzione, ogni giorno nuove vittime innocenti
e un crescente senso di impotenza e di rassegnato sgomento.
Retoriche fasulle e improbabili crociate hanno ormai perduto
ogni residua credibilità. Opposti fondamentalismi,
del tutto incapaci di porre un limite alla loro ferocia, inscenano
un assurdo scontro di civiltà che riduce sempre più
gli spazi del dialogo e dell’incontro tra persone e
culture diverse, mentre disordine e terrore diffusi in ogni
luogo sbugiardano senza posa le rassicurazioni di un potere
sempre più arrogante e sempre più fragile.
Che fare dunque? A me sembra che sia proprio questo l’interrogativo
più rilevante a fondamento dell’attuale riflessione
politica, e che sia del tutto vano eludere la questione volgendo
lo sguardo altrove o riparandosi entro i confini di un’ortodossia
realista secondo la quale, preso atto dell’immutabilità
della natura umana, la risposta non può che essere
la stessa di sempre: impiego (più o meno) legittimo
della forza, esercizio del male a fin di bene, e conseguente
intervento militare per tutelare o ristabilire l’ordine
perturbato (con annesse torture e brutalità varie).
Quanto sia infondata, miope e anche pericolosa questa scelta
lo mostrano con grande chiarezza il caos globale che caratterizza
l’epoca contemporanea e lo scenario di guerra e terrore
da cui nessuno può sentirsi escluso.
Capacità di controllo smarrita
Il paradigma politico della modernità, fondato sul
monopolio statale della forza e sull’uso legittimo della
violenza per garantire e preservare l’ordine sociale,
pare essere entrato in una crisi irreversibile. La politica
ha smarrito la propria capacità di controllo e direzione,
e sembra anzi moltiplicare disordine e incertezza diffusa.
Le scelte irresponsabili di Governi il cui cinismo va di pari
passo a una sconcertante miopia espongono tutti i cittadini
a minacce sempre più grandi e imprevedibili. Ne sono
esempi paradigmatici la brutale repressione in Cecenia voluta
da Vladimir Putin, nuovo Zar di tutte le Russie, impassibile
anche di fronte al rischio (poi tragicamente concretizzatosi)
di sacrificare centinaia di vite innocenti alla ragion di
Stato (1), o l’avventura irachena
voluta dal governo repubblicano degli Stati Uniti e ritenuta
illegittima da una parte nettamente maggioritaria dell’opinione
pubblica mondiale, fondata su premesse palesemente pretestuose
e destinata nei fatti ad un’amara conclusione che sacrifica
a un interesse economico, peraltro incerto, la vita di migliaia
di innocenti, la speranza di un incontro fraterno tra culture
millenarie e la sicurezza di tutti, in nome della quale, sommo
paradosso, quell’avventura è stata intrapresa.
Di fronte ad uno scenario tanto cupo il disorientamento e
la sfiducia rischiano di prevalere, ma sempre più si
sta diffondendo anche la consapevolezza che occorre reagire,
fare qualcosa, mobilitarsi prima che sia troppo tardi e che
la crisi diventi di fatto irreversibile.
Da un lato, dunque, occorre resistere alle derive autoritarie
e all’esasperazione ignorante e colpevole della logica
amico-nemico, alle tentazioni omologanti e alla criminalizzazione
del dissenso; agire nel proprio spazio quotidiano secondo
logiche e pratiche antagoniste, solidali, connettive. In particolare,
è necessario rompere gli schemi ereditati dal passato
e assumere come presupposto di un agire consapevole una radicale
opzione non violenta; la speranza da concretizzare è
quella di un nuovo modello di vita pubblica, fondato su una
rigorosa critica della potenza e su una rinuncia consapevole
al mito della forza.
La violenza, a qualunque livello, non può che riprodurre
se stessa; opporsi a essa significa dunque rifiutarla in ogni
sua forma.
Dall’altro lato, però, è necessario anche
riflettere, continuare a interrogarsi e moltiplicare le occasioni
di confronto per comprendere compiutamente le dinamiche in
atto e individuare nuovi percorsi che possano condurre ad
un altrove di cui sempre più si avverte il bisogno.
Volendo dare un contributo a questa riflessione, mi propongo
anzitutto di riflettere su alcune parole-chiave particolarmente
utili per descrivere la contemporaneità, consapevole
che il valore euristico di ogni categoria concettuale è
sempre limitato e che una scelta soggettiva di questo genere
è comunque discutibile, ma fiducioso anche nell’opportunità
di moltiplicare quanto più possibile i contributi interpretativi
di un’epoca estremamente complessa e molto difficile
da definire e comprendere in modo esaustivo.
Complessa ridefinizione
La prima parola che mi sembra avere una valenza descrittiva
particolarmente ampia è «crisi»,
che coinvolge molteplici ambiti della società contemporanea,
e che per certi aspetti prefigura una vera e propria fine,
un salto di paradigma determinato dall’esaurimento di
modelli per lungo tempo recepiti e condivisi acriticamente:
lo spazio politico, il mondo del lavoro e della produzione
industriale, la vita sociale e familiare, il sistema educativo
e formativo stanno attraversando in questi anni una fase di
complessa ridefinizione, che apre questioni di portata epocale
e che soprattutto scompagina le tradizionali coordinate interpretative.
Un ambito in cui la crisi si mostra in tutta la sua evidenza
è, come detto, quello della politica, che da un lato
ha subito un processo di progressivo ridimensionamento di
fronte al prevalere dell’ambito economico e finanziario
(con la conseguente limitazione dell’effettiva sovranità
statale), e dall’altro lato ha perso gran parte della
propria legittimità, come attestano la vasta disaffezione
nei confronti dei partiti e delle istituzioni, il crescente
astensionismo elettorale (2) e la
mediocrità della leadership politica globale,
scarsamente innovativa e sostanzialmente incapace di dare
risposte plausibili alle grandi sfide poste dalla società
contemporanea e da un accelerato processo di globalizzazione,
che ha liquidato di fatto il tradizionale ordine territoriale
dello spazio politico (3).
Ma vi sono forse ragioni ancor più profonde di questa
crisi. Nel suo saggio dedicato alla politica perduta
(4), Marco Revelli giunge a teorizzare
esplicitamente la fine del paradigma politico della modernità
e del nesso tra ordine e potere che ne è a fondamento.
Nella sua convincente analisi, egli prende le mosse dalla
descrizione di un’altra svolta epocale, soffermandosi
opportunamente sulla radicale differenza tra antichi e moderni
riguardo alla concezione del male e alla conseguente definizione
dell’ambito del politico.
Nel Libro di Giobbe, giustamente indicato come «il
vero e proprio trattato originario sulla questione del male»,
il dolore dell’innocente, la sofferenza del giusto,
non hanno alcuna giustificazione razionale, non hanno una
misura e non sembrano avere alcun senso; il male è
e rimane un mistero, che ha la sua sublimazione nella
giustizia dell’ordine divino. La modernità,
invece, non accetta il mistero, vuole calcolare le ragioni
del male e giunge ad affermare che da esso, dal suo uso strumentale,
può anzi derivare il bene.
Parallelamente si è affermata la convinzione secondo
cui l’ordine politico è una costruzione integralmente
umana, e la distinzione fondamentale tra ciò che è
giusto e ciò che è ingiusto non può essere
dedotta da un ordine naturale ontologicamente fondato, ma
solo prodotta da un potere artificiale essenzialmente
umano. La teoria hobbesiana della sovranità, come noto,
ha tra i suoi presupposti proprio l’uso razionale e
salvifico del male (inteso quindi come strumento imprescindibile)
per ottenere il bene auspicato (il risultato ottimale della
convivenza pacifica e dell’ordine sociale), e l’idea
secondo cui il Potere viene sempre prima della giustizia,
che in esso trova il suo unico fondamento (5).
La svolta non potrebbe essere più radicale: la politica
da arte del bene comune diviene, in maniera più o meno
esplicita, tecnica di comando, giustificata dall’affermazione
del nesso virtuoso tra il Potere e l’Ordine, che in
effetti è storicamente verificabile, ma che oggi sembra
aver esaurito la sua validità.
L’uso (e a maggior ragione l’abuso) della forza
non è più in grado di governare uno spazio globale
ormai “fuori controllo”, unificato ma per nulla
armonico, tecnicizzato ma non certo neutrale. Il
modello securitario di matrice hobbesiana è travolto
dalla globalizzazione del rischio e dall’avvento di
un mondo unidimensionale e caotico al tempo stesso, sempre
meno capace di dare risposte plausibili alle contraddizioni
esasperate dal processo di mondializzazione in atto.
Un nuovo paradigma
produttivo
La crisi, tuttavia, o se si preferisce il radicale
processo di trasformazione che stiamo vivendo, non chiama
in causa soltanto le forme tradizionali dell’agire politico,
ma coinvolge, come detto, molti altri ambiti della vita sociale,
a partire anzitutto dal mondo del lavoro, con la frantumazione
dei suoi soggetti, la fine delle sue garanzie e l’aumento
delle sue servitù. Il modello industriale novecentesco,
fordista e taylorista, è stato sostanzialmente superato,
e ha lasciato spazio a un nuovo paradigma produttivo.
La profonda ristrutturazione ormai conclusa, basata essenzialmente
sull’uso dell’informatica e dell’elettronica
e sulla rivoluzione delle telecomunicazioni e dei trasporti,
ha determinato l’esternalizzazione di una serie sempre
più ampia di lavorazioni in precedenza fortemente integrate
all’interno delle fabbriche e ha ridotto progressivamente
il peso dell’occupazione nelle grandi unità produttive.
Con l’intensificarsi dei processi di automazione e con
il netto prevalere dell’economia finanziaria sull’economia
reale il mercato del lavoro si è vieppiù
fluidificato, e alla molecolarità del postfordismo
si sono accompagnate una crescente precarizzazione e la richiesta
di una sempre maggiore flessibilità. La trasformazione
del sistema produttivo e il conseguente massiccio esodo dalle
fabbriche hanno aperto un ampio e vivace dibattito sulla fine
del lavoro, di cui non posso dar conto in queste poche
pagine. Quel che però mi preme sottolineare è
come sia possibile dare valutazioni profondamente antitetiche
dell’idea di una fine del lavoro tradizionalmente inteso.
Alla semplice constatazione dei fatti, si possono affiancare
tanto il rimpianto del mondo passato, quanto il timore e le
inquietudini per gli scenari futuri, in cui la disoccupazione,
secondo l’imperativo del crescere dimagrendo
imposto dal nuovo paradigma produttivo, sembra avere un ruolo
determinante.
Ma si possono anche rilevare le potenzialità che il
processo di trasformazione porta con sé, e cercare
di individuare un modo plausibile per realizzarle concretamente.
Una società del non-lavoro può portare al parossismo
l’insostenibile disuguaglianza del mondo contemporaneo,
un mondo, per usare le categorie di Zygmunt Bauman, con sempre
meno parvenus e sempre più paria
(6), o può invece riaprire,
grazie all’adozione di logiche cooperative opposte alla
massimizzazione del profitto, nuovi spazi per una società
più giusta e solidale, finalmente liberata dal bisogno,
dalla scarsità e dal conflitto (7).
Perché rimpiangere la fine del lavoro manuale, parcellizzato,
ripetitivo? Perché confinare al solo ambito del lavoro
salariato la costruzione di una soggettività rivoluzionaria,
capace di superare le contraddizioni del capitalismo? Perché
non pensare a forme alternative di coesistenza sociale e di
sviluppo economico, che sostengano anzitutto la possibilità
e l’opportunità di liberarsi non attraverso
il lavoro (secondo l’ortodossia di un marxismo ormai
piegato dalle dure repliche della storia), ma dal
lavoro stesso (inteso ovviamente come lavoro salariato ed
alienato) e dalle sue servitù? (8)
Audre Geraldine Lorde, poetessa di grande valore ed esponente
di spicco del femminismo afroamericano, ricordava: «Non
possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi
del padrone» (9).
A me sembra evidente che l’emancipazione umana non possa
scaturire, per una sorta di provvidenziale eterogenesi dei
fini, dalle contraddizioni sempre più esasperate del
lavoro alienato, né che si possa vincere la corruzione
del potere ricercando ed esercitando un potere “diverso”;
una soluzione, invece, potrebbe essere quella di porsi al
di fuori delle logiche distorte che si vogliono contrastare,
di dire unilateralmente basta e ricercare nuove vie, nuovi
linguaggi, nuove pratiche lontane dalle contraddizioni di
un sistema sociale che si tende sempre più a considerare
naturale ed eterno, e che invece dovrebbe essere sottoposto,
in ragione di tutte quelle negatività qui richiamate,
ad una critica radicale (10).
Ricerca ossessiva
e insostenibile
Del resto, pensare a un diverso modello di sviluppo non è
soltanto una scelta etica, ma forse ancor prima una necessità
ecologica. La ricerca ossessiva di una continua crescita
(dei profitti, della produzione, dell’applicazione tecnologica)
appare sempre più insostenibile, in primo luogo per
le emergenze ambientali a essa direttamente connesse, e in
secondo luogo per le profonde iniquità che necessariamente
ne conseguono: il prezzo dello smodato consumo energetico
delle società occidentali è del tutto incompatibile
con un’equa distribuzione delle risorse, ed evidentemente
non è soltanto un luogo comune prefigurare scenari
apocalittici a fronte di un accelerato sviluppo di realtà
geopolitiche finora marginali (11).
Occorrerebbe forse ridiscutere profondamente quell’iperideologia
del progresso che pone una cieca fiducia nelle capacità
intrinseche alla tecnica di superare le proprie contraddizioni,
e che suole misurare il benessere collettivo di una nazione
soltanto in base alla crescita del Prodotto Interno Lordo,
incurante delle disparità nell’accesso alle risorse
tra i diversi Stati e dell’abissale differenza di reddito
e di opportunità all’interno di ogni singolo
Stato.
In effetti, il rischio concreto di un possibile esaurimento
delle risorse si accompagna a una crescente ineguaglianza
ad ogni livello, e il riconoscimento (formale) dei diritti
di tutti sconfina spesso nell’indifferenza per il destino
di centinaia di milioni di uomini e donne, vinti dalla miseria,
deprivati della loro identità e dignità e costretti
a vivere in situazioni di intollerabile degrado.
Nel contempo, le società del benessere diffuso sono
giunte ad uno stadio avanzato di disgregazione: il legame
sociale si allenta e si estingue, e prende forma una massa
di individui isolati, uno sciame, per citare nuovamente
Zygmunt Bauman, in cui ogni singola unità fa la stessa
cosa, ma nulla viene fatto in comune (12).
Nella modernità liquida, caratterizzata da
un incessante movimento e dall’assenza di riferimenti
stabili, l’amore per il prossimo e la fiducia reciproca
sembrano non avere più spazio, rimpiazzati da un’endemica
incertezza, dalla fragilità dei legami e dalla perpetua
volubilità delle regole (13):
«Un’inedita fluidità, un’intrinseca
transitorietà (la famosa “flessibilità”)
caratterizza tutti i tipi di legame sociale che solo fino
a poche decine di anni fa si coagulavano in una duratura,
affidabile cornice entro la quale era possibile tessere con
sicurezza una rete di interazioni umane». Questo vale
sia per i rapporti di tipo lavorativo e professionale, sia
per le relazioni affettive. La «compulsione a sperimentare»
ogni cosa si accompagna alla crescente fragilità delle
interazioni umane, e la velocità con cui si vivono
esperienze e si intrecciano (e si sciolgono) rapporti coesiste
con una fastidiosa incertezza e una confusione opprimente,
alla base di un diffuso senso di impotenza e di spaesamento.
Identità individuali
e collettive
La crisi delle forme tradizionali del lavoro, della famiglia,
del legame comunitario apre poi la questione sempre più
problematica della definizione o ridefinizione delle identità
individuali e collettive. Di fronte alla complessità
globale si contrappongono le tendenze antitetiche ad una crescente
omologazione culturale e ad una condivisione forzata (e per
certi aspetti ridicola) di stili di vita e di consumo, da
un lato, e a un improbabile radicamento al luogo,
a un’identità locale spesso costruita su misura
(basti pensare al rozzo folklore delle camicie verdi padane),
il più delle volte con atteggiamenti di chiusura e
di diffidenza per tutto ciò che è altro,
diverso, nuovo (14).
E il fatto che la crisi coinvolga anche i sistemi formativi,
sempre più orientati a fornire strumenti concreti per
un migliore inserimento nel mondo del lavoro, e a trascurare
inevitabilmente l’importanza decisiva di una solida
cultura generale, contribuisce di sicuro ad aumentare il senso
di incertezza di fronte a quella crescente complessità
del mondo globalizzato richiamata in precedenza.
La specializzazione tecnica (peraltro spesso approssimativa
e incompleta) non può prescindere dallo sviluppo di
un pensiero autonomo e di uno spirito critico, necessari sia
per adattarsi progressivamente al cambiamento (in caso contrario,
la competenza specifica è destinata a diventare rapidamente
obsoleta), sia per continuare a mettere in discussione le
contraddizioni e le iniquità del presente.
Su questo aspetto fondamentale, tuttavia, ci si imbatte in
un ulteriore, decisivo elemento di crisi, ossia nel sostanziale
esaurimento di una credibile alternativa sociale e politica.
Le filosofie della storia e i grandi progetti di trasformazione
sociale sembrano essersi arresi alla boria del liberalcapitalismo
e alle derive nichiliste che travolgono ogni ricerca di senso;
il fatto che vi sia una Ragione a governare il mondo secondo
un ordine provvidenziale orientato a un telos, a
una fine necessaria e appagante, ormai sono davvero
in pochi a crederlo.
Con la caduta del comunismo storico, e prima ancora con il
palesarsi dei limiti intrinseci al suo funzionamento, la critica
del sistema capitalista ha perso il riferimento a un modello
sociale capace di rappresentare un’alternativa concreta
(15). Contestualmente, la fiducia
nel corso progressivo della sto ria è stata profondamente
messa in discussione, come anche l’idea stessa di futuro.
Le retoriche della post-histoire descrivono un eterno
presente di consumatori felici in un mondo libero
e democratico, dimenticando le oscene disuguaglianze e le
contraddizioni intrinseche alle stesse liberaldemocrazie occidentali
(16).
Il postmoderno nega ogni senso al processo storico, «additato
ormai o come un turbinio caotico di fatti sconnessi, un pulviscolo
che offusca lo sguardo, o come un romanzo, la cui trama può
essere scritta a piacere», e sentenzia «la fine
delle illusioni emancipatorie e della spinta propulsiva della
modernità» (17).
Anche in questo caso, evidentemente, la perdita di certezze
e di punti di riferimento capaci di dare un senso profondo
alla quotidianità e una direzione sicura all’agire,
contribuisce in modo significativo ad aumentare un disorientamento
diffuso.
Tutti gli ambiti su cui ci siamo rapidamente soffermati, dunque,
sono attraversati da questioni di portata epocale, delle quali
questi nostri pochi cenni non possono certamente rendere ragione
in modo esaustivo, ma che dovranno necessariamente essere
al centro della riflessione filosofica e politica dei prossimi
anni, e che comunque tracciano nel loro insieme un quadro
complessivo pienamente interpretabile a partire dalla categoria
concettuale della crisi o, se si preferisce, dalla
constatazione della fine di un’epoca, in cui
l’estrema fragilità ontologica dell’umanità,
mostratasi in tutta la sua evidenza, lascia già intravedere
le premesse del suo superamento.
Molteplici
contraddizioni
Una seconda parola-chiave che mi sembra descrivere bene la
realtà che stiamo vivendo, e che a quella fragilità
appena chiamata in causa si connette direttamente, è
«contraddizione». L’epoca contemporanea,
infatti, portando con sé tutte le ambivalenze del Novecento,
il secolo del riconoscimento dei diritti umani ma anche del
dilagare dei regimi totalitari, dell’opulenza e del
benessere diffuso ma anche della crescente disuguaglianza
e della fame nel mondo, è percorsa da molteplici contraddizioni,
sempre più preoccupanti e sempre meno risolvibili (18).
Quelle ambivalenze non sono affatto superate: le istituzioni
democratiche e i partiti politici attraversano una profonda
crisi di partecipazione e legittimità, in particolare
se si pensa al contesto geopolitico globale; di fronte all’offensiva
delle multinazionali e di arroganti tecnocrazie non elettive
l’universalismo dei diritti è sempre più
indifeso e il principio della sovranità popolare sempre
più fragile; il fondamentalismo si è imposto
in maniera prepotente, e politica e religione sono
sempre più spesso fuse in maniera impropria e pericolosa;
la disuguaglianza planetaria nella distribuzione e nell’accesso
alle risorse raggiunge livelli spaventosi e sembra non avere
alcun argine, ed è ormai accettata come «normatività
naturale», come un dato di fatto sostanzialmente immodificabile.
Lo sviluppo tecnologico porta ancora con sé la minaccia
almeno potenziale rappresentata dalla distruttività
delle sue applicazioni. L’uso della forza e le retoriche
della sicurezza e dell’ordine globale, in una sorta
di perversa eterogenesi dei fini, moltiplicano la violenza
e riproducono su scala globale caos e disordine, mentre a
ogni affermazione della saldezza del Potere corrisponde un
atto di rivolta più o meno distruttivo.
Lo spazio globale unificato risultante dal compimento del
processo di mondializzazione porta con sé altre evidenti
contraddizioni: la libertà di movimento di merci e
capitali, sostanzialmente illimitata, si accompagna a una
restrizione sempre più forte della libertà di
movimento delle persone; un sistema redistributivo delle risorse
iniquo e irrazionale, che lascia spazio ad abissali divari
di reddito e di opportunità, è vissuto come
una condizione naturale, oggettiva, immodificabile (19);
il mondo è unidimensionale e caotico al tempo stesso,
per molti aspetti unitario ma per altri del tutto fuori
controllo. L’insieme di queste ambivalenze rafforza
la consapevolezza che la strada intrapresa porta a un vicolo
cieco, e che il modello neoliberista perseguito con tenace
ostinazione dall’élite economica planetaria,
con l’avvallo più o meno rassegnato di una politica
fortemente marginalizzata, non è in grado di dare risposte
eque e praticabili per un nuovo modello di sviluppo più
giusto e più sostenibile.
Cercare
vie nuove
Spesso la retorica pubblica afferma che lo stato di cose
attuale, con tutti i suoi limiti e le sue ingiustizie, è
l’unico possibile, e che ogni approccio controfattuale
è di per sé utopico (20);
ed è proprio qui che emerge in tutta la sua evidenza
l’alternativa radicale tra il concetto di «necessità»
e quello di «possibilità», che
propongo come terza ed ultima parola-chiave, strettamente
correlata alle precedenti ma ancor più decisiva per
descrivere nella sua compiutezza l’epoca contemporanea.
A me sembra che la mera constatazione del perdurare indefinito
di una situazione così carica di negatività
non significhi affatto che essa sia immodificabile, necessaria,
e che ogni impulso rivoluzionario non possa che introdurre
ulteriori peggioramenti.
Penso al contrario che, proprio mentre la politica va in frantumi
e la pura forza non fa altro che alimentare e riprodurre se
stessa, occorra rompere gli schemi tradizionali e cercare
vie nuove con coraggio e passione, destinando risorse e intelligenze
a pensare un altro mondo possibile (21),
finalmente liberato da ogni forma di coercizione e violenza
e in grado di consentire, coerentemente con l’idea marxiana
di un regno post-storico della libertà, il pieno dispiegarsi
di tutte le facoltà umane.
Nella Critica al programma di Gotha, Marx afferma
che la società della compiuta emancipazione avrà
scritto sulle proprie bandiere: «Da ciascuno secondo
le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni»;
e questa, nella sua brevità, è sicuramente una
delle rappresentazioni più efficaci di un modello di
società giusta e solidale, che riconosce e valorizza
il contributo di tutti, contrapponendo l’idea di una
cooperazione armoniosa e pacifica alla logica economicista
della massimizzazione del profitto e alla logica politica
della lotta per l’egemonia e del governo dell’uomo
sull’uomo.
Si delinea qui l’utopia concreta di un comunismo libertario,
capace di coniugare il pieno riconoscimento dell’individualità
e della singolarità con il bisogno di interconnessione
e di ricostruzione di un saldo legame sociale (senza alcuna
delimitazione spazio-temporale) (22),
e secondo il quale il fine del processo storico (forse anche
la sua fine) non può che essere realizzato da un modello
sociale in cui ciascuno sia finalmente libero di fare ciò
che vuole in qualunque momento.
Una società non anomica, ma autenticamente anarchica,
che annulla lo spazio di un agire arbitrario ed egoistico,
ma che allo stesso tempo rifiuta radicalmente ogni forma di
potere, in quanto espressione di coercizione e delimitazione
impropria delle potenzialità di ciascuno, e che vincendo
finalmente pregiudizi barbari e privilegi iniqui, rimuove
le preoccupazioni contingenti (23)
e consente di dedicare tempo e risorse alla ricerca di risposte
adeguate alle domande di senso, che connotano la condizione
umana nella sua forma più compiuta.
Certo, questa può sembrare un’idea del tutto
fuori luogo, radicalmente inattuale e utopica, ma ad una valutazione
più approfondita e scevra da chiusure pregiudiziali,
essa potrebbe anche prefigurare l’unico modo possibile
e auspicabile per ridare un futuro e una speranza a un mondo
senza cuore di nuda vita che riproduce semplicemente se stessa,
soggiogata al dominio di un sistema economico che si autorappresenta
come assoluto ed eterno e di un sistema politico sempre più
fragile, instabile e delegittimato.
La convinzione di fondo è che la crisi in atto in tutti
i diversi ambiti sopra richiamati prepari un vero e proprio
salto di paradigma, una chiusura ingloriosa della modernità
e l’apertura di una fase politico-sociale ancora tutta
da costruire e da comprendere.
In tal senso, queste poche pagine devono intendersi come una
prima traccia per un successivo approfondimento dedicato specificamente
alla ricerca di una via di uscita plausibile, capace di andare
oltre agli orrori smisurati del secolo scorso e dell’inizio
del nuovo millennio.
Anzitutto, dopo aver preso atto della perdita dell’efficacia
e del significato stesso della politica tradizionalmente intesa,
occorre da subito porsi il problema di ricostruire, di impegnarsi
nella ricerca di una politica del futuro, caratterizzata principalmente
dal necessario ridimensionamento dell’enfasi sui mezzi
di potenza e sui rapporti di potere, o meglio, per citare
ancora le parole di Revelli, da una «critica esplicita
alla categoria stessa della Potenza (fonte dei mali più
che strumento delle soluzioni), a favore invece di logiche
“altre”: cooperative, connettive, relazionali»
(24).
L’eccesso di male e le troppe teodicee spezzate del
Novecento hanno mutato radicalmente la prospettiva: oggi la
questione centrale non è più quella di governare
su qualcuno, di far riconoscere un’autorità,
di esercitare un potere, quanto piuttosto quella di istituire
relazioni, condividere esperienze e responsabilità,
ricercare e praticare nuove vie, rispettose dell’individualità
di ciascuno ma al tempo stesso reticolari, compartecipate
e solidali.
Si pensi ad esempio alla subpolitics teorizzata da Ulrich
Beck (25), l’idea di una forma
politica della seconda modernità, orientata alla costruzione
dal basso di una cittadinanza globale, fondata sulle categorie
della relazionalità e dell’orizzontalità,
e su logiche autorganizzative e libertarie, di cui si inizia
a cogliere l’incidenza attraverso una crescente consapevolezza
e una significativa mobilitazione, largamente pacifista, contro
le ingiustizie globali e contro l’arroganza bellicista
sostenuta dalle retoriche del terrore.
Nuova
soggettività polifonica
La sfida consiste nel riuscire a costruire una nuova soggettività
polifonica, in grado di «coniugare le diversità
– anziché aggregare le omogeneità (ideologiche,
sociali, culturali) come avveniva nella old politics
–, connettendo interessi materiali, sensibilità
culturali, identità politiche diverse» (26),
e di passare finalmente, per richiamare la mirabile «antropologia
prescrittiva» di padre Ernesto Balducci, dal mondo delle
tribù, cioè dalla logica ristretta dell’appartenenza
esclusiva e del potenziale antagonismo con qualunque forma
di diversità, alla città planetaria,
totalmente immune da ogni volontà di potenza e nella
quale ciascuno ha imparato a guardare se stesso con gli occhi
dell’Altro, a educarsi alla reciprocità e a rifiutare
guerre e violenza, senza se e senza ma (27).
Si tratta evidentemente di un passaggio complicato, incerto,
che la politica tradizionale, «nella chiusura gelosa
entro i propri confini e nella sua feroce autoreferenzialità»,
non può accettare né comprendere. Le potenzialità
di questo salto antropologico sono del tutto imprevedibili;
ma occorre anche domandarsi se esista una qualche alternativa
plausibile.
In che modo, verificata compiutamente la radicale distruttività
dei suoi mezzi tradizionali, la politica può sopravvivere
a se stessa, se non recuperando il suo significato originario
di arte dell’interconnessione e della relazione e rinunciando
alla logica verticale della potenza? Non si tratta di un semplice
ideale regolativo: «Decine, forse centinaia di migliaia
di donne e di uomini sono al lavoro, negli interstizi del
disordine globale, per riannodare i nodi, ricucire le lacerazioni,
elaborare il male» (28).
A costoro, a chi rifiuta di rinchiudersi entro confini e barriere,
a chi non crede più nell’onnipotenza della tecnica
e ha deciso di opporsi in qualche modo allo spettacolo osceno
dell’ingiustizia globale, a quanti levano quotidianamente
il loro grido di angoscia e si adoperano per cambiare
il mondo senza prendere il potere, per richiamare il
titolo del bellissimo volume di John Holloway (29),
a tutti costoro è affidata la speranza di costruire
un mondo diverso, che sia al contempo più libero, più
giusto, più vero.
In questa fase storica, di fronte alle radicali trasformazioni
in atto, non basta più limitarsi a guardare ciò
che esiste; occorre anche dedicare tempo e risorse a immaginare
ciò che potrebbe esistere. Il pensiero di un altro
mondo possibile sembra ormai essere l’unica vera
possibilità.
Giorgio Barberis
Alessandriacolori
Le
riflessioni proposte da Barberis sono state discusse
e condivise in un primo momento all’interno del
Collettivo Alessandriacolori, di cui l’autore
è stato uno dei promotori alla fine degli Anni
Novanta.
Nato come gruppo di studio, il Collettivo si è
impegnato da subito in modo serrato contro le politiche
razziste della giunta leghista della città piemontese,
e negli anni successivi ha proposto diverse occasioni
di incontro in favore della cultura dell’accoglienza
e della difesa delle libertà individuali e collettive.
Tra le ultime iniziative un incontro informativo sui
diritti (negati) delle unioni di fatto e la proposta
di intitolare a Fabrizio De André, il poeta degli
ultimi, una piazza o una via cittadina, come primo atto
simbolico di una rinnovata attenzione nei confronti
di tutti gli esclusi. Per chi volesse saperne di più,
rimandiamo al sito www.alessandriacolori.it.
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Note
- Sul caso ceceno, che rappresenta certamente una delle
questioni più complesse dell’attuale quadro
geopolitico, e che per molti aspetti è davvero paradigmatico
di quella crisi della politica di cui stiamo trattando,
rimandiamo al volume collettaneo Cecenia. Nella morsa
dell’impero, Guerini e Associati, Milano 2003
e al saggio di Anna Politkovskaia, Cecenia, il disonore
russo, Fandango, Roma 2003.
- Certamente, le elezioni presidenziali statunitensi che
hanno sancito (questa volta senza il bisogno di brogli)
la rielezione di George W. Bush pongono alla Scienza politica
una serie di elementi innovativi su cui riflettere, tra
cui un sensibile incremento dei votanti (che contrariamente
alle previsioni non ha premiato il candidato progressista,
ma il sostenitore della cosiddetta moral majority).
Rimane il fatto che anche in clima di eccezionale mobilitazione
(con l’aperto schieramento delle personalità
più varie, anche del tutto eccentriche rispetto alle
dinamiche politiche, quali ad esempio gli artisti esibitisi
a sostegno di John Kerry), hanno partecipato al voto poco
più della metà degli aventi diritto, e si
è assistito nel corso della campagna elettorale a
una fortissima personalizzazione dello scontro, secondo
logiche che non mi sembrano essere particolarmente congruenti
con una democrazia compiuta (qualunque valutazione si dia
di questo specifico regime politico).
- In riferimento a quest’aspetto decisivo un noto
studioso francese, Bernard Badie, ha parlato esplicitamente
di fin des territoires [Fayard, Paris 1995]. Di
fatto, la classica formula schmittiana dell’Ortung
und Ordnung non può più essere valida
di fronte alla crescente deteritorializzazione di un campo
sempre più ampio di relazioni umane e alla sostanziale
impossibilità dei singoli Stati nazionali di gestire
e governare gli incontenibili flussi di capitali, di informazioni
e di persone che caratterizzano l’epoca della globalizzazione
compiuta.
- M. Revelli, La politica perduta, Einaudi, Torino
2003.
- Nel Leviathan la tesi è netta: laddove
non vi sia uno Stato non ci può essere neppure nulla
di ingiusto; il concetto stesso di ingiustizia richiede
necessariamente un’autorità legittima che lo
riconosca. Ben diversa la teoria degli antichi, mirabilmente
sintetizzata da una nota citazione tratta dal quarto libro
del De civitate Dei di Agostino di Ippona: «Remota
itaque iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?»;
in che cosa gli Stati e i loro governanti si differenzierebbero
da una banda di ladroni se non vi fosse l’idea, essenzialmente
pre-politica, della giustizia?
- Z. Bauman, Il disagio della postmodernità,
Bruno Mondatori, Milano 2002 (2000).
- Questa declinazione specifica, e largamente utopica, della
fine del lavoro deve essere ancora pensata nel complesso
delle sue implicazioni e delle sue potenzialità,
in particolare in connessione con una radicale ridefinizione
delle categorie del politico, ma se ne possono già
individuare alcune significative premesse. Fondamentali
in tal senso le opere di André Gorz, in particolare
Adieux au prolétariat. Au-delà du socialisme,
Galilée, Paris 1980, trad. it., Addio al proletariato.
Oltre il socialismo, e Métamorphoses du
travail. Quête de sens, Galilée, Paris
1991, trad. it., Metamorfosi del lavoro. Critica della
ragione economica, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
- «Di non lavoro non ce n’è troppo, ma
troppo poco». Questa convinzione, come ci ricorda
Paolo Virno, si diffonde già alla fine degli anni
Settanta, pur rimanendo sostanzialmente marginale. In particolare,
riflettendo sulle lotte «dell’anno di grazia
1977», Virno sottolinea come quel movimento composito
e variegato abbia per primo segnalato «il carattere
socialmente parassitario del lavoro sotto padrone»
e abbia rappresentato «l’unica rivendicazione
di una via alternativa nel gestire la fine del “pieno
impiego”»; P. Virno, Il futuro alle spalle,
in AA.VV, Millonovecento Settanta Sette, manifestolibri,
Roma 1997. Per molti aspetti il movimento del ’77,
pur con le sue contraddizioni e le sue ambiguità
(o forse proprio grazie ad esse), rappresenta uno straordinario
laboratorio di idee e sembra aver anticipato di trent’anni
la dimensione esistenziale dell’epoca contemporanea,
che esaspera la precarietà ma che nello stesso tempo
pone il problema della ricerca di nuove vie di fuga.
- La citazione è posta ad esergo del volume curato
da Monica Lanfranco e Maria Di Rienzo, Donne disarmanti.
Nonviolenza e femminismo, Intra Moenia, Napoli 2003.
- Raoul Vaneigem, nel suo saggio dedicato all’incondizionata
difesa della libertà di espressione, Rien n’est
sacré, tout peut se dire [La Découverte,
Paris 2003, trad. it., Niente è sacro, tutto
si può dire, Ponte alle Grazie, Milano 2004],
scrive: «Il modo per chiudere con un mondo che si
distrugge da sé non è quello di condannarlo
ma di sgomberarne le macerie e di costruire una nuova civiltà»
(p. 32). Si badi, non che qui si invochi un astratto costruttivismo
in base al quale un qualche sapiente (o un qualche valido
tecnocrate) indichi la via da seguire o il
progetto da realizzare; si tratta semmai, come meglio
vedremo nei paragrafi conclusivi, di moltiplicare le relazione,
di coniugare le diversità e ricercare insieme,
ammettendo e confrontando tutti i diversi punti di vista,
senza mai dare nulla per scontato e definitivamente acquisito.
- Il caso solitamente citato è la stupefacente crescita
dell’economia cinese, che pone rilevanti questioni,
non solo sulla brusca modificazione degli equilibri del commercio
internazionale, ma anche, e forse soprattutto, riguardo alla
tenuta ecologica del pianeta. Che il tema sia di prioritaria
importanza lo attestano poi le discussioni (e divisioni),
talora piuttosto approssimative, sulla ratifica da parte degli
Stati nazionali del protocollo di Kyoto per la riduzione delle
emissioni di gas a effetto serra nell’atmosfera, o l’ampio
confronto sull’utilizzo di fonti energetiche alternative,
sulla gestione delle risorse idriche e sull’applicazione,
più o meno illimitata, delle biotecnologie.
- Z. Bauman, Liquid love. On the frailty of Human Bonds,
Polity Press, Cambridge, e Blackwell, Oxford 2003, trad.
it., Amore liquido, Laterza, Roma-Bari 2004.
- Molto opportunamente il sociologo polacco osserva: «Il
crescente divario tra ciò di cui siamo resi (indirettamente)
coscienti – grazie all’offerta sovrabbondante
di informazioni che scandisce la nostra quotidianità
– e ciò che possiamo (direttamente) influenzare
porta l’incertezza che accompagna tutte le scelte
morali a vette senza precedenti alle quali il nostro bagaglio
etico non è abituato a operare e forse non è
neanche in grado di farlo», Z. Bauman, Amore liquido,
cit., p. 134.
- Tra i numerosi studi che nell’ultimo decennio hanno
approfondito la questione dell’identità e della
sua crisi vorremmo ricordare in particolare il bel saggio
di Francesco Remotti, Contro l’identità,
Laterza, Roma-Bari 1996. L’antropologo torinese osserva
opportunamente che ogni affermazione identitaria è
di per sé una finzione, un artificio che
porta sempre con sé «il sospetto della sua
arbitrarietà»; ma «si può vivere
anche al di fuori della cappa dell’identità,
riducendo semmai gli espedienti di identità a poca
cosa, a strutture filiformi (…) che permettano di
imbarcare senza troppi problemi una buona dose di flusso
e di mutamento. È un vivere più libero (…)
che è anche un con-vivere con gli altri» [p.
98 e 103].
- Conserva, ovviamente, tutta la sua validità la
radicale alternativa sociale e politica rappresentata dal
pensiero anarchico e libertario, le cui potenzialità,
tuttavia, non si sono ancora concretizzate in modo compiuto
e diffuso.
- Come noto, Francis Fukuyama, in un articolo pubblicato
in «The National Interest» nell’estate
del 1989, The End of History?, avanzava l’ipotesi
che con la fine del comunismo, il trionfo della liberaldemocrazia
e la globalizzazione dei mercati la Storia si fosse conclusa.
Tre anni dopo, lo studioso nippo-americano ha sviluppato
la propria tesi in un libro che ha avuto molta fortuna,
The End of History and the last Man, The Free Press,
New York 1992, trad. it., La fine della storia e l’ultimo
uomo, Rizzoli, Milano 1996. Il testo, discusso e discutibile
(soprattutto nel suo riferimento improprio al pensiero di
Alexandre Kojève), ha dato vita ad un ampio e vivace
dibattito,che si è sviluppato soprattutto in Francia
e in Germania. Una ricostruzione efficace del concetto di
fine della storia si trova in P. Anderson, A Zone of
Engagement, Verso, London – New York 1992, The
Ends of History, pp.279-375, e in L. Niethammer, Posthistoire.
Ist die Geschichte zu Ende?, Rowohlts Enzyklopädie,
Reinbek bei Hamburg 1989. Per ciò che riguarda il
riferimento alla felicità del consumatore,
non è certamente improprio un accostamento a quella
felicità cinese di cui parla Friedrich Nietzsche
in La gaia scienza: il cittadino soddisfatto dalla
sua sicurezza e dal suo benessere, non disposto più
a mutare la propria condizione di vita, è in realtà
completamente abbrutito.
- Remo Bodei, Se la storia ha un senso, Moretti
& Vitali, Bergamo 1997, p.17 e p.76.
- Un’analisi acuta e rigorosa di quelle contraddizioni
si ritrova nelle pagine del precedente saggio di Revelli,
Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie
del lavoro [Einaudi, Torino 2001], nel quale, partendo
da un bilancio fallimentare che accomuna la parabola del
comunismo, travolto dalla sua ambivalenza e dal rovesciamento
della volontà prometeica dell’homo faber
in un mondo reificato e asservito ad una logica rigidamente
produttivistica, e il modello industrialista sbriciolatosi
nella molecolarità del postfordismo, già si
affaccia con forza l’idea di un salto di paradigma,
di una chiusura ingloriosa della modernità e dell’apertura
di una fase politico-sociale ancor tutta da costruire e
da comprendere. Riflettendo in particolare sulla concreta
evoluzione storica del comunismo novecentesco, Revelli scrive:
«È ormai evidente che tutto ciò contro
cui quel movimento aveva identificato se stesso fino a fare
della sua abolizione parte costitutiva del proprio fine
– l’oppressione, la costrizione, il dominio
poliziesco, l’uso incondizionato della forza, del
carcere, della delazione, … – è divenuto,
sostitutivamente, mezzo normale della sua realtà
storica. È stato assunto come pratica legittima,
strumentalmente giustificata, storicamente necessitata.
E, per questa via, lentamente ma inesorabilmente, ne ha
divorato il fine. Ne ha annientato ragioni e fondamenti;
soprattutto ne ha inconsapevolmente ma irrimediabilmente
consumato ogni credibilità. Caso esemplare di “eterogenesi
dei fini”, in cui, appunto, l’intollerabilità
dei mezzi, ritenuti razionalmente adeguati alla grandezza
del risultato voluto e dunque storicamente inevitabili (per
la realizzazione del “bene assoluto” ogni prezzo
da pagare poteva apparire adeguato), ha finito per retroagire
e per devastare, cancellare e distruggere la nobiltà
degli obiettivi stessi.
- Riferendosi a questo aspetto specifico, che ho già
avuto occasione di richiamare, Revelli parla opportunamente
di una nuova ontologia «che fa del disordine
economico del mondo il modello insuperabile di una nuova,
bizzarra idea dell’ordine sociale, come in un nuovo
Medioevo, in cui la volontà imperscrutabile dei mercati
prende il posto dell’antica imperscrutabile volontà
divina. E l’ingiustizia sancita dall’iperpotenza
dei flussi finanziari assume il ruolo dell’antica
idea di Giustizia radicata nell’ordine cosmico»;
M. Revelli, La politica perduta, cit., p. 93.
- «Da un lato – ha giustamente osservato Giorgio
Cremaschi in un interessante dialogo sulle contraddizione
del neoliberismo imperante – cresce la consapevolezza
che così non si può andare avanti, ma dall’altro
c’è la consolidata convinzione che non si può
andare avanti che così»; G. Cremaschi –
M. Revelli, Liberismo o libertà. Dialogo su capitalismo
globale e crisi sociale, Editori Riuniti, Roma 1998,
p. 17.
- Scriveva Jean-Jacques Rousseau che «i limiti del
possibile, nelle cose morali, sono meno ristretti di quanto
pensiamo: sono le nostre debolezze, i nostri vizi, i nostri
pregiudizi che li restringono» [Du contrat social,
livre III, chapitre XII].
- L’idea di una società giusta, armonica e
solidale, fondata sul riconoscimento universale della dignità
di ciascuno e sul soddisfacimento di tutti i bisogni non può
per definizione ammettere alcun confine, ma deve nel contempo
sapersi assumere le proprie responsabilità nei confronti
delle generazioni future.
- Tenendo conto di quest’aspetto decisivo, assume
un significato politico centrale la rivendicazione di un
reddito minimo di cittadinanza, ossia del riconoscimento
indistinto di un adeguato contributo economico corrisposto
a ciascun cittadino, in grado di assicurare almeno un livello
minimo di sussistenza, e garantire quindi a tutti una certa
libertà di compiere le proprie scelte autonomamente.
L’introduzione del reddito minimo di cittadinanza,
incondizionato e cumulabile, è una delle proposte
incluse nell’Appello alla discussione sulle vie
di uscita dalla crisi e dalla disoccupazione, firmato
da trentacinque intellettuali francesi e pubblicato con
grande clamore sulle pagine di «Le Monde» nel
giugno del 1995. Le altre due proposte sono la riduzione
del tempo di lavoro, ripartito in modo più equo [e
su questo aspetto un riferimento obbligato è il saggio
di Guy Aznar, Travailler moins pour travailler tous,
Syros, Paris 1993, trad. it., Lavorare meno per lavorare
tutti, Bollati Boringhieri, Torino 1994], e l’ampliamento
degli spazi dell’economia plurale e solidale.
- M. Revelli, La politica perduta, cit., p. 121.
- U. Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere
Moderne, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986, trad. it.,
La società del rischio. Verso una seconda modernità,
Carocci, Roma 2000.
- M. Revelli, La politica perduta, cit., p. 124.
- Si veda in particolare E. Balducci, L’uomo planetario,
Camunia, Milano 1985. Quando nel suo saggio intitolato La
morale dell’uomo planetario [scritto nel 1986
e ripubblicato nel numero monografico di «Testimonianze»
del gennaio-aprile 2002, XLV, nn. 421-22, curato da Maurizio
Bassetti e Severino Saccaridi], Padre Balducci afferma che
occorre frantumare il panottico intende appunto
sostenere la necessità di superare l’idea che
vi sia un unico modo, esclusivo, totalizzante, egocentrico,
di leggere e interpretare la realtà, e che occorra
invece riabilitare e valorizzare tutti i punti di vista,
internalizzando lo sguardo dell’altro e rifiutando
la logica autoreferenziale di una politica che sottolinea
maggiormente ciò che divide rispetto a ciò
che unisce (secondo la contrapposizione schmittiana di amico-nemico)
e che intende imporre il proprio punto di vista egemonico.
- M. Revelli, La politica perduta, cit., p.136.
- J. Holloway, Cambiar el mundo sin tomar el poder.
El significado de la revolución hoy, Puebla
2002, trad. it., Cambiare il mondo senza prendere il
potere. Il significato della rivoluzione oggi, Intra
Moenia, Napoli 2004.
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