Rivista Anarchica Online


personaggi

Il filo di Ariandersen
di Giuseppe Pontremoli


– Guardatemi, io vengo col seguito! – disse l’ago da rammendo, e si tirò dietro un filo lungo, che però non aveva nodo (1). Di questo ago Andersen dice subito che aveva sentimenti delicati, e che per questa ragione si sentiva più che altro un ago da ricamo. A me sembra che avrebbe dovuto piuttosto parlare di spocchia, di millanteria, di vanagloria, però non ho alcuna intenzione di infierire su un povero ago, anche perché il fatto di trovarsi in un racconto di Andersen – che era un bravissimo narratore – è di per sé una condizione che assicura una dose robusta di amarezze.
Quel che mi interessa invece è che, anche nella vita di un ago, è decisiva la questione dei nodi; e poi il fatto che, a trascurare i nodi, si può forse finire soltanto col perdere il filo – il che non è senza conseguenze, come tutti ben sanno, soprattutto poi se nei paraggi Arianna non c’è. L’Arianna del mito, beninteso, colei che diede a Teseo il filo che gli consentì di non perdersi nel labirinto, non l’Arianna di una poesia di Pinin Carpi, che invece è soltanto una bambina di panna /che sta in braccio alla sua mamma / e canta tutta tutta tutta / questa bella o brutta canzone (2).
Soltanto una bambina. Che canta.
Soltanto? Come se fosse impresa da poco essere una bambina e cantare. E come se fosse sufficiente avere tra le mani un filo; come se bastasse riuscire a tornare indietro; e come se anche per cantare non fosse necessario un filo.
E allora direi che forse anche il filo di Arianna non basta, e più utile ancora mi sembra senz’altro il filo di Ariandersen. Un filo, questo, che consente sì di ritrovare la strada, ma soprattutto di individuarne una nuova, aperta in parte dalla scoperta della necessità di non trascurare i nodi che emerge da L’ago da rammendo di Andersen, ma soprattutto da quell’altra straordinaria vicenda di sartoria che è I vestiti nuovi dell’imperatore (3) – storia che non Andersen inventò, giacché lui stesso ci dice essere questo un racconto di origine spagnola: tutta la spassosa idea, la dobbiamo al Principe don Manuel, nato nel 1277, morto nel 1347 e che la stessa idea è utilizzata anche dal Cervantes (4), ma che proprio Andersen ci ha lasciato in una magistrale versione.
Quest’idea Cervantes l’ha utilizzata nell’Intermezzo del Teatrino delle Meraviglie, e così ce ne informa Oreste Macrì:

L’idea di base dell’intermezzo può darsi derivi da un racconto del Conde Lucanor, di Juan Manuel, in cui dei burloni fingono di tessere un panno che resterà invisibile ai figli illegittimi. L’allargamento che Cervantes fa del quadro delle esclusioni (il panno è invisibile anche a chi ha sangue ebreo o moro fra gli ascendenti), oltre a arricchire il tema, gli dà una folgorante e coraggiosissima attualità, elevando un topico farsesco a una chiara presa di posizione contro la violenza di stato esercitata contro i non cattolici. Siamo in un’epoca di spietate persecuzioni razziali contro ebrei e mori anche se convertiti; macchinosi processi della purezza della razza tendono a escludere dal più piccolo impiego o lavoro chi non possa dimostrare di avere quattro quarti di cristiano viejo. In tale stato di cose non v’è dubbio che l’intermezzo, coprendo di ridicolo tali pregiudizi, è un’audace denunzia di un’ingiustizia del potere (5).

La stupidità
del potere

Ne I vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen il potere si svela in tutta la sua stupida essenza e nessuno – né chi il potere detiene, né chi al potere è incondizionatamente acquiescente, né chi del potere ha soltanto paura e teme forse di essere più in difficoltà ad essere libero e pensante che sottomesso – nessuno osa dire che quel vestito è fatto di un tessuto che semplicemente non esiste. Nessuno, tranne un bambino: cioè chi con il potere non ha nulla a che fare, essendone nient’altro che la negazione. Un bambino, cioè chi con il potere non può che avere “vincoli puerili” – e il fatto che poi l’infanzia abbia fine e si inneschino con il potere vincoli non più puerili sarà anche qualcosa che porta a sopravvivere e pure a vendicarsi, ma è cosa che si connota come tristezza infinita, perché altro non è che il perpetuarsi di oppressione e calcolo, di cancellazione e silenzio.
Certo, a rapportarsi “puerilmente” rispetto al potere anche in età adulta, forse non può succedere qualcosa di diverso da quello che è successo a Osip Mandel’stam, che in una poesia del 1931 scriveva: Col mondo del potere non ho avuto che vincoli puerili: / temevo le ostriche, e alle guardie lanciavo occhiate di sottecchi; / nemmeno di una briciola d’anima gli sono debitore (6).
E Mandel’stam, proprio per il carattere dei suoi vincoli con il potere, è morto in un gulag staliniano, forse nel 1938, forse di consunzione, giacché pare che puerilmente là dentro non mangiasse più nulla, per il terrore puerile – cioè infinito – di essere avvelenato.
Ma è forse preferibile sopravvivere strisciando? È forse preferibile aderire mollicciamente alle gelide figure delle colonne che reggono e sostanziano il Palazzo? Ognuno può rispondere come vuole; a me qui preme soltanto dire che è un problema di filo, cioè un problema politico e culturale e etico. Seguire il filo di Ariandersen probabilmente porta anche alla consunzione, ma è preferibile un meschino sopravvivere o il perseguimento tenace della dignità? È un problema di filo.
Probabilmente Pinin Carpi apprezza quell’affermazione di Ursula K. Le Guin (7) circa l’inesistenza di culture che non hanno narrato storie a fronte di numerose culture che non hanno mai fatto uso della ruota; probabilmente la apprezza perché le sue storie sono numerosissime, e soprattutto perché ogni suo lavoro è connotato principalmente come una storia: i romanzi, i racconti, le poesie, le ballate, i poemetti, le ninne nanne, le cantilene, le illustrazioni, i lavori di divulgazione. Tutte storie, e storie dentro le storie, con decine e decine di personaggi, seguiti assiduamente o incontrati per caso, in forte evidenziata presenza oppure soltanto evocati; a camminare camminare per il vasto mondo oppure accucciati in un prato tra i rami sui tetti nel mare nell’ovunque; a ridere dormire apparire sparire cantare suonare mangiare guardare riempire il proprio e l’altrui cammina cammina. Non so quanti possano essere, tra umani – soprattutto bambini – , animali – soprattutto gatti – , maghi, fate, folletti e quant’altro. Non lo so e non ha alcuna importanza. E probabilmente il numero dei personaggi delle storie di Carpi è cosa che può interessare teste come quelle dell’uomo d’affari del XIII capitolo del Piccolo principe di Saint-Exupéry (8), che contava le stelle per possederle, e voleva possederle per essere ricco, e voleva essere ricco per comperare altre stelle; oppure a qualcuno che guardando in un caleidoscopio si metta a contarne le immagini.
No, non è il caso; se qui ho sottolineato le tante presenze è solo per dire che potrebbe sembrare un po’ arduo non perdere il filo, o che potrebbe forse sembrare difficile individuarlo. Eppure a me sembra vi sia, e anche più d’uno, e ognuno è un filo di Ariandersen.
E direi anche che non è un caso che mi sia accaduto di pensare alle stelle e al caleidoscopio, evocazioni che forse possono dire qualcosa di significativo rispetto alla luminosità e al profluvio di immagini. Questo è sicuramente un nodo, in Pinin Carpi. Tantissime immagini, in movimento continuo, distribuite a pioggia, senza temere alcuna possibile dissipazione. E così le sue storie si configurano come un dono, come un gesto generoso preoccupato soltanto di non essere inadeguato, di non essere esile, come il darsi gratuito e incondizionato di chi dona soltanto per amore. Perché questo, mi sembra, è il nodo decisivo del lavoro di Carpi, il filo davvero sotteso: il donare – gesto, questo, che presuppone un destinatario nei confronti del quale c’è investimento affettivo, c’è rispetto, c’è desiderio di contribuire a conseguire la soddisfazione del desiderio.
A me sembra che Carpi possa essere definito un autore politico, in quanto ha individuato i bambini come propri interlocutori, soprattutto perché disponibili sempre ad allargare il terreno del possibile e del desiderabile, perché esseri mossi dall’incontenibile voglia di sapere e di fare, di frugare, di continuare a cercare; e però tutto questo, questa carica forte, in esseri completamente privi di potere.

Il “partito”
dei bambini

Mi sembra che Carpi abbia scelto senza esitazioni il “partito” dei bambini, del loro essere senza potere, del loro desiderio di desiderare, e abbia impostato il proprio lavoro a far sì che i bambini possano trovarvi ascolto e rispetto e attenzione, e attenzione ai loro desideri, e ricerca di strumenti volti a soddisfarli. È anche per questo, direi, che ha scelto di scrivere usando un linguaggio molto parlato, un linguaggio non banale e non preclusivo di tempi e di luoghi ma in ogni caso rassicurante, familiare, vicino, riconoscibile e vivo. E questo senza esibire nulla, senza volere insegnare alcunché, senza propinare prediche o precetti – ma, dentro, i princípi ci sono, e chi vuole vederli può farlo senza sforzo perché sono semplicemente lì, laicamente, come il respiro; e dentro c’è anche di che imparare, e forse si impara persino di più, per il semplice fatto che ci si diverte.
Sì, senza esibire nulla, ma ben evidenziando percorsi e sviluppi ed esiti: e ben evidenziando che gli esiti sono importanti e positivi, ma tanto per il fatto che portano ad acquisire sicurezza e determinare equilibri quanto per il fatto che da lì si può ripartire. Perché è vero che ogni storia finisce, certo, però è altrettanto vero che

la storia non finisce qui, non solo perché lì intorno cominciarono a crescere tanti alberi che dopo un po’ il lago si trovò in mezzo a un bellissimo bosco, ma anche perché le storie, se si vuole, continuano sempre. Basta pensarci un po’ e ci si accorge che succede proprio così. Questo è quello che conta di più (9).

È quello che sente anche Mauro, il protagonista de Il mago dei labirinti, il quale, dopo aver camminato camminato per mille e un ovunque e per mille e un altrove e avere conosciuto dei folletti e degli gnomi, degli dei e delle silfidi, delle fate e delle streghe, delle sirene e delle ondine, dei maghi e degli spiritelli e poi dei fruncelli e degli strarli, dei custolini e dei trumpelli, delle scorosticontine e delle balzerotte, delle svillere e dei volpitelloni (10) – oltre, naturalmente, a mille e un personaggio di varia umananimalità –, esce dai giardini della notte. E, uscendo da quei giardini il Mauro non era felice solo perché aveva scoperto tante cose nuove, ma anche perché sapeva che avrebbe continuato a esplorare tanti posti mai visti, fra gente mai conosciuta, e avrebbe svelato tanti altri misteri arcani e proibiti, nascosti e occulti, enigmatici e clandestini, inaspettati e incredibili. Si cammina e cammina, e si torna, e si vuole soltanto ripartire e tornare e ripartire e tornare, senza fine. Sempre essendo se stessi ma sempre cambiati, come il sole. Eccoli lì, il Mauro e Ulisse, il bambino e il leone. Sono usciti dai giardini della notte e entrano in un giardino dove il sole è appena spuntato. È lo stesso sole di ieri, però è un sole nuovo, la sua luce è tutta nuova, mai vista. E è una luce bellissima.
Stanno arrivando a casa, Mauro e il leone Ulisse, e davanti a loro c’è un labirinto. Lo supereranno, non possono esserci dubbi, ma non soltanto perché è quello che ha immaginato, inventato, disegnato, costruito lui, il Mauro, e che conduce alla casa più bella di tutte, la sua casa, quella da cui senza farsi vedere da nessuno una mattina era partito con il leone per andare in giro per il mondo. No, non solo per questo, e nemmeno soltanto perché sappiamo da un libro precedente (11) che la sua costellazione preferita è la Corona di Arianna. Lo supereranno soprattutto perché i bambini delle storie di Pinin Carpi tengono stretto, negli occhi e nelle mani, il filo di Ariandersen.

Giuseppe Pontremoli

Note

  1. L’ago da rammendo, in Hans Christian Andersen, Fiabe, tr. di Alda Manghi e Marcella Rinaldi, Einaudi, Torino 1974, p. 233.
  2. Pinin Carpi, Nel bosco del mistero, Einaudi, Torino 1986, p. 13.
  3. I vestiti nuovi dell’imperatore, in Andersen, Fiabe, cit., p. 73.
  4. Ibid., p. 640 n.
  5. Miguel de Cervantes, Intermezzi, tr. di Vittorio Bodini, a cura di Oreste Macrì, Einaudi, Torino 1989, p. 125.
  6. Osip Mandel’stam, Poesie, a cura di Serena Vitale, Garzanti, Milano 1972, p. 87.
  7. Ursula K. Le Guin, Il linguaggio della notte, cit., p. 27.
  8. Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, cit., p. 63.
  9. Pinin Carpi, La banda del Cane Randagio, Nuove Edizioni Romane 1989, p. 93.
  10. Pinin Carpi, Il mago dei labirinti, Giunti 1990, p. 76.
  11. Pinin Carpi, Mauro e il leone sulla cima del mondo, Vallardi, Milano 1994, p. 134.

Scheda bibliositografica

Sul bel sito http://www.giuseppepontremoli.it, curato dall’amico Alberto Melis, è possibile trovare la bibliografia dei testi di Giuseppe oltre ad alcuni dei suoi testi in formato digitale.


Roberto Denti / Perché non essere allegri?

Nel mese dell’inverno,
quando c’è freddo e gelo
vogliamo intorno al fuoco
far risate e canzoni
parlare con gli amici
e dipingere il cielo
dedicarci all’amore
non avere padroni.
(1)

Comincia un anno nuovo: anche se ci sono cambiamenti nel passaggio dalle stagioni, gennaio rimane un mese freddo e in molte zone del nostro Paese la neve imbianca non soltanto le montagne ma anche le pianure e le case. Con il primo giorno – che ci distacca dai mesi trascorsi, da un recente passato con esperienze liete o tristi – si possono fare i propositi di vita che ci accompagneranno per lunghi giorni. Il tempo passa in fretta ma sentiamo il bisogno di condizionarlo, di non essere soggetti passivi rispetto a ciò che accade intorno a noi.
Perché innanzitutto non essere allegri?
Allora abbiamo bisogno di amici con i quali parlare e ridere, perché la solitudine può portarci tristezza senza conforto e nessuno che ci aiuti a superarla. In compagnia di altre persone è più bello guardare il cielo e provare a cambiare il colore dell’azzurro dai toni più tenui a quelli più profondi. O saper accettare nuvole grigie pesanti di pioggia. Se non restiamo soli, oltre all’amicizia possiamo trovare l’amore di chi entra in sintonia con i nostri pensieri e le nostre emozioni: possiamo affrontare il mondo che ci circonda e non ci piace e lottare per modificarlo. Un mondo dove chi detiene il potere si guarda bene dal capire e soddisfare i nostri bisogni e le nostre esigenze.
Allora, tutti uniti, siamo in grado di opporci “a chi ci comanda, a chi ci punisce, a chi ci ammaestra, a chi ci insulta, a chi ci deride, a chi ci lusinga, a chi ci inganna, a chi ci disprezza” (Marcello Bernardi). In un mondo nuovo e diverso non è utopia la sicurezza di essere uomini liberi.
Queste considerazioni sono suggerite dalle otto righe della poesia di Giuseppe Pontremoli, le cui capacità di sintesi erano una delle caratteristiche della sua profonda cultura e della sua meravigliosa fantasia creativa.

Roberto Denti

1. Giuseppe Pontremoli: Ballate per tutto l’anno e altri canti, Nuove Edizioni Romane, 2004.