Anarchismo
e società acefale
Gli scrittori anarchici hanno spesso utilizzato nozioni, studi,
esempi antropologici. Vari teorici libertari – dal Kropotkin
de Il mutuo appoggio sino ai meno conosciuti naturiens
francesi della fine del XIX secolo, come Emile Gravelle –
hanno dimostrato un vivo interesse verso quelle che sono state
successivamente definite le società acefale, ovvero
i gruppi umani privi di strutture statali. Dalla costituzione
di homo sapiens sapiens come specie (circa 100.000
anni A.C., nella stima più prudente) fino alla nascita
dei primi villaggi che mostrano i segni di una centralizzazione
politica ormai avanzata (nel Vicino Oriente circa 6.000 anni
fa), tutti i gruppi umani erano organizzati in società
acefale. In questi ultimi diecimila anni, e in particolare
dall’Ottocento, le società prive di stato sono
state sistematicamente assimilate o annientate con campagne
di sterminio di cui ancora non si ammette la gravità.
Piccoli gruppi – spesso in rapporto con società
adiacenti e con gli stati nazionali ma privi di strutture
di potere centralizzato – sono però sopravvissuti
fino alla metà del Novecento e sono stati osservati
e descritti dagli antropologi.
I
raccoglitori-cacciatori
Oltre all’assenza o al rifiuto dello stato, questi
gruppi hanno altre caratteristiche interessanti. Sono tendenzialmente
nomadi, vivono in campi composti di qualche decina di individui
ma possono costituire delle reti che hanno popolato interi
continenti per millenni. Nei rari casi in cui praticano l’agricoltura,
questa tende ad essere un’attività stagionale
che si affianca alla raccolta di prodotti offerti dall’ambiente
e alla caccia. È praticamente assente la proprietà
privata e, conseguentemente, non esiste stratificazione sociale.
I gruppi sono caratterizzati da una sostanziale eguaglianza
tra i membri: l’autorità si accentra in alcune
persone in momenti specifici ma il prestigio è transitorio
e non genera la possibilità di ricorrere alla coercizione.
Anche se raramente esiste un’uguaglianza assoluta tra
i sessi, il dominio maschile è tendenzialmente meno
pronunciato rispetto alle società agricole e industriali.
Questi gruppi – con rare eccezioni – sono stati
massacrati o si sono trasformati. L’alterazione dell’equilibrio
egualitario investe, in genere, diversi aspetti tra loro correlati:
l’intensificazione della densità di popolazione;
la costruzione di abitazioni stanziali; l’adozione di
un sistema agricolo intensivo; l’elaborazione di un
corpus giuridico; la specializzazione produttiva (con conseguente
affermarsi di soldati, clero, burocrati, etc.); l’introduzione
della proprietà privata e della moneta; l’affermarsi
di entità politiche in cui il potere era centralizzato
e l’utilizzo della violenza legittimo.
La presenza di raggruppamenti umani privi di un potere politico
centralizzato ha suscitato l’interesse dei pensatori
anarchici del passato perché questi gruppi permettevano
di sostenere – in un mondo Occidentale che aveva ormai
teorizzato l’inevitabilità dello stato –
la possibilità di un’organizzazione priva di
gerarchia. Si poteva dimostrare che una parte cospicua dell’umanità
aveva vissuto senza essere assoggettata a forme statali: l’anarchia
era quindi un’utopia praticabile. Le società
acefale che stavano scomparendo giustificavano un progetto
per il futuro.
Il
primitivismo
Negli ultimi venti anni si è sviluppata una corrente
di pensiero nel movimento libertario statunitense che si definisce
sostanzialmente con i termini di “primitivismo”
e “Green Anarchy”. In maniera sommaria
si possono distinguere tre varianti del movimento primitivista:
- La corrente proveniente dall’area di Detroit:
vicina alle posizioni del marxismo libertario, attenta alla
critica della domesticazione del pensatore francese Jacques
Camatte; l’autore più interessante di questo
filone è forse Fredy Perlman, autore di Against
His-story, Against Leviathan! La rivista principale
di quest’area è stata a lungo Fifth Estate.
- La corrente anarcoprimitivista vicina a John Zerzan:
probabilmente quello di John Zerzan è il nome più
noto del Green Anarchism; Zerzan ha il merito illustrare
una critica anarchica alla civiltà con una ricca
documentazione sulle popolazioni di raccoglitori-cacciatori;
in tal senso restringe il discorso più generico sui
“selvaggi” già elaborato in Europa da
Clastres e approfondisce la riflessione sulla sostenibilità
ecologica dello stile di vita dei raccoglitori-cacciatori,
utilizzando i nuovi spunti dell’ecologia antropologica
americana (attingendo in particolare dagli studi di Richard
Lee). Al tempo stesso Zerzan ha elaborato una discussa analisi
delle conseguenze della domesticazione, estendendo il proprio
interesse critico verso il linguaggio, il numero, e le categorie
dell’attività simbolica. Rivista di riferimento:
Green Anarchy.
- La corrente di ‘Deep Ecology’: il
filone vicino alla rivista ecologista Earth First! Journal
e al movimento di Deep Ecology è più
variegato, nella pratica e nella teoria, animato in primo
luogo da un ecologismo caratterizzato dall’azione
diretta; in quest’area si possono collocare gli scritti
di Edward Abbey, l’autore di Deserto solitario.
Ragionando per sommi capi, si può sostenere che, rispetto
alle precedenti riflessioni anarchiche sull’antropologia,
il primitivismo propone due innovazioni teoriche di rilievo:
- Le società acefale non erano solo egualitarie ma erano
società che vivevano nell’abbondanza e godevano
di uno stato di salute invidiabile. Sono, inoltre, le uniche
società che hanno vissuto in un totale equilibrio di
lungo periodo con il loro ambiente circostante. Questo rende
il primitivismo particolarmente interessante per le sue implicazioni
ecologiste.
- Con l’introduzione dell’agricoltura, viene meno
l’equilibrio demografico, ambientale, economico e l’autogestione.
Inizia un lungo percorso di degradazione di cui abbiamo il dubbio
privilegio di assistere al collasso finale.
Inoltre, rispetto al pensiero libertario ‘classico’,
con il primitivismo si possono individuare due assunti evidenti.
- Alla critica dello stato si affianca la messa in discussione
della tecnologia, che è vista di per sé come
negativa.
- La preoccupazione critica, più che sul potere o
sull’oppressione, si sposta sulla stessa sopravvivenza
del genere umano, strozzato da un ‘progresso’
che ormai compromette l’ambiente e la possibilità
stessa dell’esistenza.
- La soluzione non è più (solo?) la rivoluzione
ma l’abbattimento della tecnologia. Solo il regresso
tecnologico può ripristinare l’eguaglianza
e garantire un futuro di lungo periodo alla specie umana.
Un
problema controverso: che fare della tecnologia?
Quello della tecnologia è uno dei punti su cui si
concentra spesso il dibattito nel corso dell’esposizione
delle tesi primitiviste. Secondo un’analisi comune a
molta letteratura primitivista, la rottura degli equilibri
iniziata con l’avvento dell’agricoltura, si è
amplificata drammaticamente negli ultimi due secoli. L’inquinamento
elettromagnetico, il riscaldamento terrestre, la desertificazione,
l’estinzione di un numero senza precedenti di specie
vegetali ed animali, l’inquinamento progressivo e irreversibile
delle falde acquifere, l’introduzione di organismi geneticamente
modificati la cui nocività è difficilmente immaginabile,
l’utilizzo di risorse non rinnovabili o rinnovabili
solo dopo lunghi periodi, la distruzione delle foreste pluviali
e la compromissione della fertilità del suolo in molte
zone della terra sono diversi indicatori di un collasso immanente.
In questo senso il rifiuto della tecnologia viene visto come
un’ipotesi praticabile per la società del futuro.
Altri interlocutori approvano la criticità di questo
scenario ma suggeriscono ipotesi alternative sul problema
della tecnologia e ipotizzano una distinzione tra una tecnologia
conviviale e una tecnologia distruttiva. In tal senso propongono
la possibilità di inventarsi un futuro a partire dall’autogestione,
eliminando una buona parte di quella che è la fabbrica
del superfluo in cui sembra essersi specializzato il mondo
contemporaneo, conservando però quelle macchine, quegli
apparecchi il cui impatto ambientale è realmente sostenibile
e i cui benefici sono evidenti. Il dibattito rimane aperto,
e le stesse posizioni degli estensori di questo articolo sono
divergenti al riguardo.
Famiglia
di etnia Hazda
Anarchismo
e indigenismo
Un altro punto interessante è quello della possibilità
di una confluenza, attraverso il primitivismo, tra anarchismo
e movimenti indigeni. Negli ultimi anni in più parti
del pianeta i popoli indigeni – siano gli ultimi rappresentanti
dei decimati raccoglitori-cacciatori, o i gruppi di agricoltori
ormai stanziali – hanno sollevato il problema della
propria esistenza, della propria identità e della necessità
di riappropriarsi dei territori ancestrali di cui sono stati
spogliati. La realtà dei movimenti indigeni è
molto variegata, e ci sono tendenze diverse: dall’etno-nazionalismo
di alcuni settori del movimento Mapuche ai gruppi di nativi
australiani che si oppongono al domicilio coatto nelle bidonville
sforzandosi di vivere secondo lo stile di vita di caccia e
raccolta almeno per alcuni mesi dell’anno; dalle lotte
degli aborigeni di West Papua fino alle traiettorie di resistenza
alla subalternità dei nativi nordamericani. Anche qui
non mancano risposte facili e risposte complesse; una risposta
semplice potrebbe essere quella della costruzione ad hoc dell’identità
attraverso il semplice richiamo all’etnia e al sangue;
di certo nel campo della resistenza indigena, oltre a pratiche
di resistenza (occupazione di campi, azione diretta) non mancano
spunti teorici interessanti, come quelli della rivista Mapuche
“AzkintuWE” o la produzione indigenista del nordamericano
Ward Churchill. In definitiva il problema resta sempre il
solito: scegliere se costruire un mondo dove i capi ci assomigliano
(perché sono del nostro stesso partito o hanno il colore
della nostra stessa pelle), o immaginarsi un mondo senza servi
né padroni. Come da sempre sostengono gli anarchici;
come da sempre sanno gli Hazda della Tanzania, i !Kung del
Kalahari e gli Ache del Paraguay.