riflessioni
Sfogliando
gli annuari ovvero cercare di capire il mondo dei numeri
I dati seguenti sono tratti da l’annuario “Il mondo
in cifre 2005” elaborato da The Economist tradotto
e pubblicato in Italia dalla rivista “Internazionale”
ad un prezzo contenuto. Sono quindi dati aggregati, semplici,
che danno un quadro sintetico ma contemporaneamente definiscono
a grandi linee i problemi e sono molto accessibili e comprensibili.
Le considerazioni sono le nostre. Ma, come si vede, non c’è
bisogno di una grande scienza per capire come stanno le cose.
Economia
Considerando il PIL dei singoli paesi: i primi dieci hanno un
PIL di 24.475 miliardi di $; dall’undicesimo al ventesimo
3.643 $; dal ventunesimo al trentesimo di 1.722 $; dal trentunesimo
al quarantesimo 1.062 $; dal quarantunesimo al cinquantesimo
698 $.
I primi cinquanta paesi hanno un PIL complessivo di 31.600 miliardi
di dollari, gli altri 132 paesi considerati hanno un PIL di
700 miliardi di $ corrispondente al 2% del totale.
Gli stati Uniti da soli hanno un PIL pari a 10.383 miliardi
di $ ovvero superiore tre volte a quello del Giappone, secondo
paese in graduatoria, e costituente il 32,2% del totale dei
primi cinquanta paesi.
I paesi del G7 fanno il 65% del PIL mondiale con 11,5% della
popolazione; gli Stati Uniti il 32% con il 3,5 % della popolazione
I paesi del G7 esportano il 45,4% della loro produzione (l’Asia
il 9,9%, l’America latina il 4,5%, l’Africa il 1,9%).
50 paesi hanno un onere sul debito estero pari a più
dell’80% del loro PIL; 50 paesi hanno debiti esteri superiori
a 10 miliardi di dollari (10 superiori a 100 miliardi di dollari);
50 paesi hanno un debito estero superiore al 250% delle loro
esportazioni annuali di beni e servizi (i paesi dei tre elenchi
citati per gran parte non sono gli stessi).
Distribuzione
del PIL mondiale tra i 182 paesi censiti
(i numeri
riportati nel grafico: 1-10, 11-20, 21-30 ecc., sono relativi
alla posizione dei paesi come Prodotto Interno Lordo, PIL)
Agricoltura
Tra i paesi meno dipendenti economicamente dall’agricoltura
gli Stati Uniti sono al dodicesimo posto. In quel paese l’agricoltura
contribuisce al PIL nazionale solo per il 1,9%. Questa condizione
è simile a quella del Regno Unito (che si posizione al
sesto posto solo con il 1,0%) e dell’Italia (al ventitreesimo
posto con la Francia con una incidenza sul PIL del 2,7%).
Il dato indica solo la marginalità del settore rispetto
all’economia del paese ma non la capacità dei produttori
di quel paese di incidere sul mercato agricolo del pianeta.
Se infatti si analizzano le produzioni mondiali dei cereali
gli Stati Uniti sono al 2° posto e la Francia al 5°;
per la carne gli Stati Uniti al 2° posto e la Francia al
4°, per la frutta gli Stati Uniti al 4° e l’Italia
al 5°; per gli ortaggi gli Stati Uniti al 3° e l’Italia
al 5°.
Gli Stati Uniti, inoltre, sono nella condizione per quanto riguarda
il grano e le granaglie, prodotti di base per l’alimentazione
e la politica ad essa connessa, di avere consumi inferiori alla
produzione e quindi ad essere esportatori.
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Consistenza
PIL Stati Uniti |
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Consistenza
popolazione Stati Uniti |
Industria
La produzione industriale dei primi cinquanta paesi produttori
è del valore di 8.017 miliardi di dollari. Il 57% di
questo totale è costituito della produzione dei G7 (4.619
miliardi di $), il 26% dagli Stati Uniti e 12,9% dal Giappone
(insieme circa il 40% della produzione mondiale. Il cinquantesimo
paese produce lo 0,05% del totale.
Combustibili
I paesi maggiormente industrializzati non controllano le fonti
di energia ma sono costretti ad importare combustibili da altri
paesi. In tale maniera chi controlla il mercato di fatto incide
sulle politiche dei paesi industrializzati.
Tra i paesi produttori di petrolio gli Stati Uniti sono al secondo
posto e tra i primi quindici c’è solo un altro
paese afferente al G7 (Gran Bretagna). Per quanto attiene i
dieci paesi maggiori produttori di gas naturali vi sono Stati
Uniti (2°) e Gran Bretagna (4°) per il carbone solo
Stati Uniti (2°).
Per il petrolio e il gas naturale gli Stati Uniti consumano
molto di più di quanto producano (petrolio 19.708 di
consumo contro i 7.698 migliaia di barili al giorno di produzione).
È questo l’unico caso in cui il paese non produce
direttamente risorse primarie di cui necessita.
Situazione particolare hanno Russia, che possiede risorse di
petrolio, gas, e carbone molto superiori ai suoi attuali consumi
(da qui l’interesse all’acquisizione da parte di
compagnie internazionali delle società di petrolio ex
nazionali), e Cina, che nonostante sia il maggiore produttore
mondiale di carbone (di cui non consuma tutta la produzione)
attualmente per permettere la crescita in corso importa petrolio
(e non è un caso l’aumento del prezzo del petrolio
a barile finalizzato anche ad affaticare l’economia cinese).
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Consistenza
PIL G7 |
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Consistenza
popolazione G7 |
Energia
I maggiori produttori di energia nel pianeta sono gli Stati
Uniti e la Cina con rispettivamente 1.711 e 1.138 milioni di
tonnellate di petrolio equivalente. Ma mentre la Cina consuma
1.139 milioni di tonnellate di petrolio equivalente gli Stati
Uniti ne consumano 2.281 con un saldo negativo di quasi trecento
milioni di tonnellate. Tranne la Gran Bretagna nessun altro
paese G7 è tra i primi sedici produttori mentre tutti
sono tra i primi sedici consumatori. Il consumo più altro
pro-capite di un paese industrializzato è quello degli
Stati Uniti con 7.990 kg di petrolio equivalente più
del doppio del consumo riscontrabile in Italia.
Aziende
Il fatturato complessivo delle maggiori 44 aziende nel mondo
è pari a 4.078,8 miliardi di dollari (2.269 sono degli
Stati Uniti)
615.8 miliardi di dollari annui è la somma delle tre
maggiori aziende mondiali. Per comprendere meglio il peso di
questi soggetti all’interno dell’economia mondiale
sottolineiamo che esse, in 44, hanno un fatturato pari al 13%
del PIL di 182 paesi del pianeta (il PIL è composto da
tutta la produzione e gli scambi in un anno effettuati da tutti
i 6 miliardi e oltre di abitanti del mondo). Solo 19 paesi al
mondo hanno un PIL superiore al fatturato delle più grande
azienda mondiale (246,5 mld di dollari)
Le aziende tra le 44 che si interessano di petrolio sono 5 (al
3° USA, 4° GB, 5°GB, 14° FR, 15° USA), per
un fatturato complessivo di 729,5 miliardi di dollari. Le aziende
che producono auto sono 8 per un fatturato complessivo di 936.9
miliardi di dollari (petrolio e auto sono il 40% del fatturato
delle prime 44 aziende)
Delle prime 44 aziende nel mondo, 18 sono degli Stati Uniti
(petrolio, auto, apparecchiature elettriche e informatica, aerei),
2 Regno Unito (petrolio), 13 Giappone (auto, apparecchiature
elettriche e informatica, assicurazione), 3 Germania (auto,
apparecchiature elettriche e informatica, assicurazione), 4
Francia (petrolio, assicurazione), 2 Paesi Bassi, 1 Svizzera
(alimentazione), 1 Italia (assicurazione).
Banche
e mercato azionario
2.500 circa sono i miliardi di dollari che costituiscono il
patrimonio (capitale proprio e riserve) delle maggiori 44 banche
del pianeta (8 Stati Uniti, 6 Regno Unito, 6 Francia, 5 Giappone,
5 Cina, 2 Germania, 2 Svizzera, 3 Paesi Bassi, 2 Spagna, 2 Italia
(33° e 43° posto).
La capitalizzazione del mercato azionario è di 11.052
miliardi di dollari negli Stati uniti, 2.126 miliardi di dollari
in Giappone, 1.846 mld di dollari in Gran Bretagna, seguono
gli altri paesi in rapida riduzione di importi a partire dalla
Francia (996 al 4° posto fino a Singapore con 101 mld di
dollari al 26° posto)
Consumi
32 sono i paesi (non tutti industrializzati) che hanno un numero
di apparecchi televisivi a colori superiore a 90 per ogni 100
famiglie (il Belgio 99,6 apparecchi su 100 famiglie); 18 sono
i paesi (quasi tutti industrializzati e ricchi) che posseggono
più di 50 lettori cd per 100 famiglie (Danimarca 89,3);18
sono i paesi (quasi tutti ricchi ma non necessariamente industrializzati)
che posseggono più di 40 computer ogni 100 persone (Svizzera
70,9); 30 sono i paesi (non tutti industrializzati non tutti
ricchi) in cui vi sono più di 65 telefoni cellulari per
ogni 100 persone (Taiwan 106,2).
Brevetti
123.978 sono stati i brevetti concessi agli abitanti del Giappone
nel 2000, 83.090 agli abitanti degli Stati Uniti (insieme costituiscono
più del doppio di quelli concessi ai successivi 18 stati
nell’elenco), 9.983 agli abitanti dell’Italia (che
si colloca al 9° posto). Il ventesimo posto è di
Israele con 433 brevetti. Nessuna traccia di paesi non industrializzati,
non ricchi, non occidentali. I casi sono due: o l’intelligenza
non è uniformemente distribuita o il controllo della
produzione è affidato a pochi soggetti.
Malattie
I primi dodici paesi nella graduatoria delle morti per cancro
al seno sono europei (da 26,5 a 20,1 decessi per 100.000 abitanti);
così come i primi sette nella graduatoria delle morti
per cancro ai polmoni (da 79,o a 56,9 decessi per 100.000 abitanti),
poi ci sono Stati Uniti e Canada e poi si continua con altri
paesi europei.
Le morti da cancro ai polmoni è molto difficile connetterle
alla pratica del fumo; il consumo medio pro capite di sigarette
propone una classifica di paesi molto diversa. Appare invece
molto stretta la relazione tra paesi industrializzati ed urbanizzati
e morti di cancro, cosa che risulta palese anche dal 12°
posto per morti di cancro al polmone di Hong Kong.
Di malaria, tubercolosi, Aids si muore, per la stragrande maggioranza,
nei paesi poveri africani ed asiatici.
Nobel
Gli Stati uniti sono il paese che ha vinto il maggior numero
di premi nobel per la fisica 45 (35%) sui 128 assegnati (uniti
a quelli della Gran Bretagna, secondi, il 50%), 39 nella chimica
(35,5%) sui 110 assegnati (uniti a quelli della Gran Bretagna,
secondi, il 55%), 48 (40%) nella medicina sui 118 assegnati
(uniti a quelli della Gran Bretagna, secondi, il 58%) e questo
può essere riferito alla struttura di ricerca di quei
paesi sostenuta dalle grandi aziende.
Gli Stati uniti sono il paese che ha vinto il maggior numero
di premi nobel per l’economia 27 (63%) sui 43 assegnati
(uniti a quelli della Gran Bretagna, secondi, il 81%) e questo
può essere riferito all’attenzione nei confronti
degli interessi privati che gli economisti dei due paesi hanno
posto nel corso degli anni e da cui sono stati premiati.
Gli stati uniti sono il paese che ha vinto il maggior numero
di premi nobel per la pace 17 (26%) sui 66 assegnati (uniti
a quelli della Gran Bretagna, secondi, il 44%) e questo potrebbe
essere capito, essendo questi i paesi che maggiormente hanno
ideato, partecipato, sostenuto guerre, colpi di stato, guerre
civili nel pianeta nel corso degli ultimi trecento anni, solo
se i nobel fossero andati a dei grandi oppositori di tali politiche;
ma essendo Kissinger, noto golpista e guerrafondaio, uno dei
vincitori l’assegnazione di tanti nobel non può
che essere inteso come un atto di inutile sottomissione della
cultura premiante al potere.
Conclusioni
Che cosa si evince. Il controllo del mercato, della produzione
e dell’economia da parte di pochi soggetti collegati ad
un numero molto ridotto di paesi. Per le risorse e l’energia
esclusivamente gli stati Uniti, la Cina e la Russia sono in
questo momento autonomi. I primi, a differenza degli altri,
sono anche grandi esportatori e controllano alcune risorse al
di fuori dei loro confini, e ciò rende molto forte il
loro peso. Alcuni paesi, sebbene del tutto in disequilibrio
energetico, controllano i mercati delle merci e finanziari (ad
esempio Giappone, Gran Bretagna, Paesi Bassi). All’interno
dei paesi industrializzati la differenza in termini di produzione,
consumo, disponibilità di risorse tra Stati Uniti e gli
altri sette è enorme. Gli Stati Uniti, con un numero
ridottissimo di altri stati (Giappone, Gran Bretagna e pochi
altri), controllano tutta l’economia, la produzione, la
finanza, la ricerca, e promuovono il modello che è fatto
su misura per accrescere queste disparità sulle quali
si costruiscono i loro profitti.
Anche i settori non direttamente produttivi (vedere Nobel) sono
utilizzati strumentalmente al fine di accrescere attraverso
di essi sia il commercio dei prodotti sia la stima verso se
stessi.
Un mondo di Stati profondamente impari al cui interno, come
a tutti noto, corrisponde una ancor più profonda disuguaglianza
sociale.
testimonianze
Civilizzazione
In gran parte dei luoghi dove le comunità
avevano un rapporto di rispetto dell’ambiente la proprietà
privata aveva una peso marginale nella organizzazione sociale.
Nella cosmogonia della Melanesia ad inizio del secolo XX l’uomo
non ha un posto predominante, è all’interno dell’ambiente
e si sforza di rispettare l’armonia e l’equilibrio
naturale. “La civilizzazione canàca – sosteneva
negli anni settanta del secolo scorso un melanesiano –
trae la sua essenza dal rapporto intimo e biologico dell’uomo
con la terra”. Le modalità di coltivare la terra,
di distribuire le risorse sono configurate per la conservazione
dei beni ambientali, beni indivisi, e gran parte dei beni della
società erano anche per questo indivisi.
A metà dell’ottocento R.P. Poumpinel, della missione
marista, scriveva “qui bisogna dividersi tutto…
questa piaga sociale, con le sue orrende e desolanti conseguenze,
tiranneggia le tribù delle nostre isole…”
ed ancora all’inizio del secolo successivo Leenhardt,
giovane missionario a cui si deve poi la raccolta di una consistente
documentazione sulle quelle popolazioni, osservava: “tutto
quello che uno guarda gli è dato in dono, è l’uso
del paese. Che bel comunismo! Ed è per questo che bisogna
proibire a questa gente di regalare quel che si dà loro
e che la maggiore difficoltà per educarli è l’insegnar
loro di possedere” (le due citazioni sono leggibili in
R.Dousser – Leenhardt La grande capanna. Miti e leggende
della Nuova Caledonia, Jaca Book Milano 1974)
Che grande civiltà quella occidentale.
Che con cura ed impegno prima ha destrutturato le società
e poi ha ad esse imposto la distruzione dell’ambiente.
Storie di case: la casa delle
zanzare
Circa cento anni fa un gran numero di coloni francesi in Vietnam
si spostarono dalle pianure sulle montagne di quel paese. Gran
parte di questi morirono di malaria, malattia che non aveva
mai presentato un problema per le popolazioni delle montagne.
La ragione di questa situazione può essere gran parte
attribuita alla configurazione delle abitazioni.
Gli abitanti della montagna avevano abitazioni con al piano
terra le stalle ed al piano superiore la residenza il cui interno
aveva una area preminente e centrale, la cucina, con i suoi
fornelli e senza cappa.
Le zanzare volano in prossimità del terreno e pungono
preferibilmente gli animali, per questo la configurazione della
casa poneva già in condizione di sicurezza gli abitanti
che dormivano e mangiavano al piano superiore; inoltre i fumi
della cucina, nonostante fossero fastidiosi, allontanavano ulteriormente
gli insetti dalla parte alta dell’abitazione.
Quando arrivarono i coloni videro i limiti dell’abitazione
(puzza degli animali e fumi in casa, scomodità dell’accesso
al piano superiore) e non comprendendone le ragioni costruirono
case ad un piano come erano abituati in pianura, dove stalle
e fornelli erano posti fuori dall’abitazione.
Ciò fu centrale per il decoro e la comodità e
letale per la loro salute.
L’inettitudine dei selvaggi e la furbizia dei
colori
Le Grandi pianure del Nord America erano utilizzate dai nativi
per la loro sopravvivenza.
Il terreno era ricco e profondo ed era coperto da fitte ed alte
erbe perenni che garantivano il mangiare alle mandrie di bisonti.
Le specie vegetali presenti, molto varie, erano in condizione
di mantenere sempre una copertura dei terreni in tutte le stagioni
evitando che i venti e le piogge provocassero erosione ed impoverimento
dei suoli.
L’alimentazione dei nativi era garantita dal bisonte che
veniva cacciato nella quantità necessaria all’approvvigionamento
e solo in alcune stagioni dell’anno, e poi conservato
ed utilizzato tutto, anche le parti non commestibili, per attrezzi,
coperte, tende, contenitori, simboli, etc.
Quando arrivarono i coloni capirono che il sistema poteva essere
molto più produttivo di quanto non lo fosse per i nativi
e, dopo averli massacrati e ridotto la popolazione dei bisonti
da sessanta milioni di capi a poche migliaia, si dedicarono
alla coltivazione delle pianure.
Le culture stagionali approfittarono per anni dei terreni
vegetali che si erano costituiti nel tempo grazie alle modalità
di uso dei nativi: si ridusse il ciclo da quello lungo (erbe
– bisonti – uomo) ad uno più breve (coltivazioni
– uomo) e ciò portò ad una grande produzione
di biomassa; e contemporaneamente si cambiò il sistema
produzione della carne (dalla caccia all’allevamento).
Ma le colture stagionali di mais, foraggi, grano ed altro lasciavano
scoperto il terreno per gran parte dell’anno e gli agenti
meteorologici, che in quei luoghi sono di grande entità,
incominciarono una erosione dei suoli tale che dopo solo 120
anni la produttività di quelle aree si era fortemente
ridotta. Per consentire il mantenimento dei livelli raggiunti
in passato i terreni sono divenuti in parte irrigui (con tutte
le conseguenze per le falde ed i corsi d’acqua) ed hanno
avuto bisogno di una elevata e crescente concimazione chimica.
Nonostante questo le quantità di prodotto per ettaro
sono in calo e lo spessore dei suoli continua a diminuire.
Non è un caso che la ricerca di OGM si sia sviluppata
negli stati uniti e ciò non solo in ragione delle grandi
compagnie chimiche e degli interessi globali di ampliamento
dei mercati ma anche per rispondere ad un problema molto diffuso
quale la desertificazione di suoli che dipende dal costante
impoverimento prodotto da una cattiva utilizzazione.
Ma questi erano e sono coloni e gli altri erano e sono selvaggi.
osservazioni
sulla contemporaneità
La distruzione dei beni comuni
L’immagine è un grafico elaborato da G.G.Marten
in “Ecologia umana. Sviluppo sociale e sistemi naturali”,
Edizioni Ambiente, Milano 2002 (pag.156). In esso viene mostrata
la relazione tra l’intensità della pesca e la quantità
del pesce pescato.
Il problema che si nasconde dietro questo modello è
che ciascun individuo ritiene di poter essere A2 ed in alcuni
casi per alcuni periodi realmente qualcuno può trovarsi
nella condizione di essere avvantaggiato rispetto agli altri.
Ma questo implica, nella maggior parte dei casi, una continua
ricerca a tecniche e modalità produttive e di prelievo
che possano portare ad una situazione di vantaggio rispetto
agli altri.
Il rischio che il desiderio di poter essere A2 divenga un elemento
di alterazione/distruzione dei sistemi naturali è esponenzialmente
maggiore quanto più la società locale è
aperta ai mercati internazionali ed alle “opportunità”
e consuetudini che li regolano.
Sempre per rimanere nell’ambito della pesca, ma questo
ragionamento può essere esteso a tutti i settori di prelievo
e produttivi, la crescita della domanda di pescato è
determinata da mercati che raramente sono locali. Ciò
vuol dire che il pescatore non svolge una attività finalizzata
alle sue necessità dirette o a quelle della comunità
di appartenenza, e che contemporaneamente la comunità
non ha più uno stretto legame con quelle risorse che
non gestisce direttamente e non usa esclusivamente.
È il mercato globale, quello che permette di mangiare
il pesce fresco giapponese in Italia o il pesce dell’adriatico
in Finlandia, che impone quantità e prezzi e quindi sottopone
ad un continuo stress gli operatori all’inseguimento di
tecniche che gli consentano di aumentare le quantità
e di ridurre i costi.
E questo avviene anche quando il 70% del pesce azzurro pescato
in Italia diviene farina di pesce, anche quando il prelievo
supera di gran lunga la capacità di rigenerarsi del sistema
(si vedano le dimensioni sempre minori dei pesci e la riduzione
delle specie).
La
distruzione dei beni comuni:
l'esempio della pesca
A. Tutti i pescatori usano un numero
minore di reti per raggiungere la sostenibilità
della pesca
B. Tutti i pescatori usano un numero
maggiore di reti: il pescato procapite è inferiore
perché il sovrasfruttamento riduce il popolamento
ittico
A2. Un pescatore raddoppia le sue reti
mentre tutti gli altri ne usano poche per una pesca
sostenibile
B1. Un pescatore usa poche reti mentre
tutti gli altri ne usano molte, esercitando un sovrasfruttamento
B2. Un pescatore usa il doppio delle
reti rispetto agli altri pescatori che già stanno
esercitando sovrasfruttamento
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Recessione
In questi ultimi periodi più volte è stata nominata
questa parola come richiamasse uno spettro impronunciabile.
Recessione, ovvero riduzione o stallo continuo nel PIL. Ovvero
non crescita del prodotto interno lordo, il valore complessivo
della produzione di un paese escludendo il dato dei valori ambientali
(ed umani) alterati, compromessi, distrutti per produrre.
L’incubo di un modello economico che per stare bene (esso
e non la popolazione che lo pratica) non può che crescere
continuativamente.
Un modello che già solo a descriverlo appare del tutto
impraticabile in tempi lunghi. Come si può crescere sempre
in un sistema (il pianeta) che è limitato nello spazio
e nella quantità di risorse disponibili?
Alla riduzione del PIL è connessa la riduzione della
produzione. Ma come è possibile prevedere che si possa
continuare a crescere nella produzione senza limiti, ed in particolare
in un sistema economico come quello globale?
In sintesi, il sistema economico globale è stato fondato
sul fatto che i paesi ricchi (industrializzati e possessori
di finanze) potessero liberamente vendere le proprie merci o
acquisire attività in qualunque parte del mondo. In questi
ultimi venti anni il modello si è articolato su tre importanti
capisaldi: l’aver posto come valore universale di scambio
non più l’oro ma il dollaro, il che, come è
chiaro, pone alcuni paesi in grande vantaggio rispetto ad altri
(l’oro lo possono avere in parecchi ma la fabbrica dei
dollari ce l’ha uno solo); aver posto in essere delle
regolamentazioni nazionali che hanno ridotto il peso delle comunità
e hanno aumentato la capacità di movimento dei capitali
e delle merci dei ricchi (e questo è avvenuto attraverso
il sostegno a governi, movimenti, partiti amici del modello
a livello locale); aver emarginato e poi destrutturato ogni
tipo di economia locale che non fosse simile al modello.
Questo modello è pensato in una sola direzione di scambio:
dai ricchi verso i poveri, ed in tutti i paesi tranne uno tutte
le regole che tendevano alla difesa del lavoro, dei prodotti
locali sono state eliminate. Tranne uno, appunto, gli Stati
uniti che conservano una legislazione a tutela delle proprie
produzioni.
Questo modello ha prodotto degli utili spaventosi per decine
di anni ai paesi ricchi ma oggi il flusso delle merci si sta
invertendo anche e proprio perché i produttori dei paesi
ricchi vanno a produrre nei paesi poveri dove costa di meno.
Costa di meno il lavoro, vi sono più risorse da sfruttare,
più comunità da schiavizzare, meno normative da
infrangere.
Qual è allora il sistema per difendersi da questa degradazione
del modello. I paesi ricchi tra i ricchi l’hanno già
capito ed hanno attuato la nuova strategia: occupare militarmente
i luoghi con le risorse, tenere sotto controllo i paesi politicamente
in modo tale che entrino nel mercato globale danneggiando tutti
tranne coloro i quali li sostengono militarmente ed economicamente.
Così questo sistema non ha recessione: è colonialismo
democratico (ovvero modelli democratici di sudditanza alla speculazione).
E l’Italia? L’Italia è l’esempio tra
i più tragicomici di questa vicenda. È, per quanto
riguarda il PIL, tra i sette maggiori paesi del mondo e ha uno
tra gli uomini più ricchi del mondo, che si è
arricchito non producendo nulla ma facendo soldi sulla pubblicità
e la “comunicazione”; tra i maggiori gruppi vi sono
banche, aziende di telefonia (Telecom), di produzione energetica
(Enel, Eni). La più grande azienda del paese è
una banca (Banca intesa). Aziende dunque che fanno soldi sulle
necessità degli altri, non producono benessere anzi taglieggiano
il benessere degli altri.
Le altre grandi aziende sono poche ed in crisi. Questo è
grave ma potrebbe essere irrilevante se queste aziende non avessero
eliminato ogni concorrenza acquisendo al loro interno ogni soggetto
che produceva le stesse merci e costituendo enormi monopoli
(tipico il caso della Fiat che ha acquisito nel tempo: Autobianchi,
OM, Alfa romeo, Lancia, Ferrari, Maserati, Abarth, etc per le
macchine, e per un certo periodo anche Piaggio, Gilera etc per
le moto).
Il settore alimentare (uno dei settori di primaria importanza
e di maggiore fatturato: si mangia, seppur poco, anche quando
si è in bolletta) è stato prima oggetto delle
maggiori azioni di aggregazione e cessione da parte dello stato
e poi, e non è un caso, quello dei maggiori fallimenti
(Cirio, Parmalat), lasciando così spazio a ingressi di
merci e di capitale di altre multinazionali.
Il paese non produce quello che gli necessita con l’agricoltura,
con la trasformazione agroalimentare, con l’industria
e consuma molto di più di quanto le sue risorse ambientali
consentano.
Un paese che non solo ha un debito economico tra i primi nel
mondo ma ha un debito verso l’ambiente e verso la sua
società spaventoso.
Ed allora, perché non pensare ad un modello diverso in
cui alle grandi aziende (o alle piccole che fanno componenti
per le grandi o selvaggiamente producono sull’onda di
situazioni di favore come il ridotto costo di lavoro, gli immigrati,
il non pagare le tasse, la mobilità e il disinteresse
verso l’ambiente) si favorisce chi produce per reali necessità
e non per il mercato, chi produce collegato al suo territorio,
alle esigenze vere e per il benessere delle persone, chi produce
in maniera corretta verso l’ambiente e la società,
chi ricerca profitti equi (ovvero ridotti), chi ha attività
stabili continuative nel tempo e non alteranti?
E, in sintesi, perché non pensare ad un modello che non
cresce in quanto è collegato ad esigenze effettive e
non del mercato, che non cresce in quanto risponde alla domanda
di benessere e non di profitto?
Privatizzazione dei beni comuni tecnica e sviluppo
La corsa alla privatizzazione dei beni comuni è stata
interpretata come la colonizzazione di terre “selvagge”,
fisicamente esterne al modello occidentale. Al termine di questo
inglobamento la società occidentale ha iniziato ad operare
al proprio interno anche in quelle piccole sacche di autonomia
e di indivisibilità dei beni che nel passato avevano
supportato la vita delle piccole comunità locali.
In questo ha attuato una concentrazione di beni nelle mani di
pochi di tali dimensioni che in passato non era mai stata riscontrata,
una concentrazione che ha al suo fondamento la divisione e commercializzazione
dei beni comuni che è stato il principale strumento di
sviluppo economico degli ultimi decenni. Una razzia completa
nei confronti di società diverse e degli ecosistemi.
La nascita della privatizzazione delle risorse è attribuibile
alla modificazione dei rapporti con l’ambiente naturale,
e le tecnologie si modificano proprio in ragione di questo cambiamento.
Sono tecniche che tendono ad aumentare la produttività
delle risorse o a utilizzare al massimo le risorse stesse.
Le tecniche divengono strumenti di disequilibrio finalizzate
all’aumento del prodotti indipendentemente dalla produttività.
Questo non accade ovunque e sempre alla stessa maniera: vi sono
società che hanno mantenuto negli anni dei rapporti congrui
con le risorse, o per un profondo senso di appartenenza alla
natura o in ragione di una grande consapevolezza della produttività
naturale dell’ecosistema nel quale erano insediate (e
quindi piegavano le tecniche ai caratteri del sistema naturale
tentando di utilizzare le risorse senza alterarle).
Solo prescindendo dalla relazione delle tecniche con i sistemi
naturali si può individuare un progressivo “sviluppo”
della tecnica (uno sviluppo interno alla disciplina) che, non
ponendosi limiti né obiettivi, continua ad evolversi
ed innovarsi.
Altro sono quelle società che misurano la tecnica con
l’ambiente e che tendenzialmente non si “sviluppano”
oltre un equilibrio con i sistemi naturali in cui vivono.
“I popoli “primitivi” non vivono dunque (come
è stato teorizzato da molti antropologi) in uno stato
di sviluppo simile a quello dei popoli primordiali….Il.
modello evolutivo basato su stadi di sviluppo che ci è
sembrato tanto semplice applicare – età della pietra,
del ferro, del bronzo è così via – è
basato soltanto sulle tecnologie, e nella maggior parte dei
casi è talmente rozzo da risultare errato” (Magli
I., Saggio introduttivo in Onorate il grande spirito,
Bompiani, Milano 1999.
Il rapporto con la natura in molte popolazioni è strettissimo
e diretto. Molti, tra i popoli nativi del Nord America o dell’Oceania,
vivevano in totale simbiosi con la natura e ad essa riferivano
la loro esistenza ed il giudizio delle loro azioni.
I Cherokee ad esempio “immaginano che la maggior parte
del male esistente sia il risultato di una disarmonia umana
con la natura” (Witt S.H., Steiner S. (1992) Scritti
e racconti degli indiani americani, Jaca Book, Milano)
e rimandando ad una naturalità dei comportamenti si preoccupavano
delle possibili aberrazioni dei singoli tanto che “nutrire
sentimenti malvagi è indicato nella religione-stregoneria
cherokee con il termine perifrastico di “pensare””
(ibidem).
Ma al di là di queste sottomissioni sociali alla religione
“la mente degli indiani si rivolgeva continuamente all’ambiente
naturale con uno strettissimo senso di identificazione nella
natura (Washburn W.G. (2000) Gli indiani d’America,
Editori Riuniti, Roma).
I caratteri propri della cultura delle popolazioni native del
Pacifico si trovano nella Melanesia: “essa si basa su
una cosmogonia dove l’uomo occupa un posto ma non preponderante.
L’uomo ha il suo ruolo nel cosmo, si sforza di rispettarne
l’armonia e l’equilibrio ma non lo domina. La competizione,
nella società di una volta, non ha un carattere individualista
perché non c’è opposizione tra me e gli
altri” Il pensiero melanesiano non si basa sulla nozione
di opposizione (bello-brutto, ricco-povero etc) ma su nozioni
di complementarietà (uomo e natura, maschile e femminile,
etc) e “questa complementarità si ritrova nell’habitat,
nelle colture, nella società intera” R. Dousset-Leenhardt
(1974) I canachi della Melanesia in R. Dousset-Leenhardt,
La grande capanna, Jaca Book, Milano.
Nelle coltivazioni si manifesta questa comunione tra uomo e
natura: non si tratta di un asservimento ma di una rispettosa
collaborazione.
È evidente che le tecniche utilizzate non possono ignorare
tale relazione e che esse non potessero non ispirarsi a tali
sentimenti/ragionamenti.
Adriano Paolella
antiglo@mclink.it
La prima puntata di questa rubrica, dedicata
a “Energia e comunità”,
è stata pubblicata sul n. 295 di “A” (dicembre
2003-04). La seconda, dedicata a “Governi,
comunità, mutamenti climatici”, è stata
pubblicata nel n. 296 (febbraio 2004). La terza, “Deindustrializzarsi”,
è stata pubblicata nel n. 298 (aprile 2004). La quarta
puntata, “Fuori”, è
stata pubblicata sul n. 301 (estate 2004). La quinta, Acqua
e potere, si trova nel n. 303 (novembre 2004).
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