Il primo Stato a
sopprimere, seppur solo formalmente, la tratta degli schiavi
fu il Regno Unito, le cui Camere approvarono nel 1807 l’Abolition
of the Slave Trade Act, seguito nel 1883 dallo Slavery
Abolition Act. In precedenza, nel 1794, solo la Francia
illuminista aveva alzato la voce contro il millenario fenomeno,
considerandolo disumano ed anacronistico, seguita poi dalla
Danimarca nel 1796, dall'Olanda nel 1814 e dalla Svezia nel
1815. Nel 1815 per la prima volta la schiavitù è
condannata in Europa con la Dichiarazione relativa all’abolizione
universale della tratta degli schiavi.
Nei primi anni dell’Ottocento il «The Hartford
Courant», uno dei più antichi quotidiani statunitensi,
pubblicava annunci sulla compravendita degli schiavi, così
come venivano pubblicati per qualsiasi altro bene. Alla metà
dell’Ottocento la compagnia assicurativa Aetna emetteva
ancora polizze sugli schiavi, sebbene l’abolizione del
commercio degli stessi negli USA risaliva al 1808.
L’ultimo Stato del continente americano a liberare gli
schiavi fu il Brasile, nel 1888.
Nel 1926 la Società delle Nazioni elaborava per la
prima volta la definizione giuridica internazionale della
schiavitù.
Nel 1948 la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo,
approvata il 10 dicembre 1948 dall'Assemblea generale dell'ONU,
affermava, nell’articolo 4: “nessuno deve essere
tenuto in schiavitù o servitù; la schiavitù
e il traffico degli schiavi devono essere proibiti in tutte
le loro forme”.
Gli ultimi stati a dichiarare illegale il commercio degli
schiavi sono stati nel 1962 l'Arabia Saudita e nel 1981 la
Mauritania.
Vecchie e nuove schiavitù
Schiavitù ha sempre significato perdita del libero
arbitrio e della libera scelta, con l’aggiunta di violenze
esercitate dal padrone o dai membri dell’apparato di
potere. Con il passare dei secoli, lo schiavismo non è
mai scomparso ma ha trovato sempre nuove realtà su
cui far attecchire le sue radici, riuscendo a porre le basi
su un fenomeno di una vastità e di una gravità
senza precedenti. Nella storia dell’umanità si
sono registrati infiniti casi di sfruttamento pieno e totale
dell’uomo da parte dell’uomo. Nella Grecia e a
Roma gli schiavi potevano essere educatori, artisti e scrittori.
Giuridicamente erano schiavi, ma godevano di un certo rispetto
della popolazione a causa delle loro abilità.
Fino all’età Moderna lo schiavismo si fondava
sulla proprietà dello schiavo da parte del padrone.
Questi deteneva dei contratti di proprietà, che gli
conferivano i diritti di vita, alienazione, trasmissione ereditaria
e morte sullo schiavo e sulla sua famiglia. Tuttavia, il padrone
conosceva dei limiti alla sua brutalità, impostigli
non dalle leggi o dalla coscienza ma dal costo dello schiavo.
Questo, infatti, veniva comprato nel corso di aste al rialzo
e il suo prezzo era generalmente elevato: lo schiavo rappresentava
dunque un investimento. Inoltre, acquistando lo schiavo, il
padrone doveva sobbarcarsene il mantenimento ed il rapporto
che si veniva a creare tra i due era di lungo periodo.
Lo schiavo passava in proprietà all’erede del
padrone, quando questi fosse morto. Il padrone ed i suoi eredi,
pur potendolo vendere o regalare, dovevano occuparsi di lui
anche in vecchiaia e fino alla sua morte.
Questo voleva dire che, a fronte dell’alto investimento
necessario per l’acquisto dello schiavo, il padrone
doveva detrarre dai profitti derivanti dal lavoro schiavistico
le spese necessarie al controllo, al vitto, all’alloggio,
alle cure mediche dello schiavo nei suoi anni migliori; al
vitto e all’alloggio in vecchiaia. Oltre tutto, superato
il picco di produttività garantito da uno schiavo giovane,
il lucro per il padrone tendeva a diminuire, mentre i costi
di mantenimento si incrementavano.
Un ultimo aspetto della schiavitù tradizionale era
rappresentato dell’elemento etnico. Lo schiavista tradizionale
era un razzista che non avrebbe mai obbligato in schiavitù
una persona della sua etnia; lo schiavo apparteneva a un’etnia
considerata inferiore.
Dopo l’approvazione dello Slavery Abolition Act
le cose cambiarono; in peggio per gli schiavi liberati.
Coloro che fino a quel momento avevano prosperato grazie al
commercio e allo sfruttamento degli schiavi, e cioè
i detentori del capitale e delle terre, capirono molto facilmente
che solo chi è libero e può lavorare per guadagnarsi
da vivere rappresenta una vera fonte di produzione di ricchezza.
E quindi, in definitiva, sarebbe stato più remunerativo
per il sistema affrancare gli schiavi, riconoscendo loro il
diritto a un lavoro pagato a salario e a un’esistenza
libera.
A conti fatti costava molto meno pagare un salario ad un lavoratore
libero che comprarlo, garantire a lui e alla sua famiglia
vitto, alloggio e indumenti, curarlo in caso di malattia,
sostentarlo in vecchiaia e gestire la macchina del terrore
necessaria a evitarne la fuga.
Da allora ad oggi la schiavitù si è trasformata
e ha svestito le sue sembianze tradizionali. Sono cambiati
i soggetti, sono mutate le modalità della riduzione
in schiavitù, sono cresciute a dismisura le cifre che
ruotano attorno a questo fenomeno, si sono evolute le forme
di violenza, di costrizione, di trasporto, di ricatto, di
acquisto, sfruttamento e vendita delle vittime. Le modalità
relative alla riduzione in schiavitù, alla durata,
alla durezza dello sfruttamento degli schiavi nel mondo contemporaneo
cambiano a seconda di paese in paese. A livello globale tuttavia
si sta assistendo ad una standardizzazione del fenomeno, sempre
più caratterizzato dal possesso e dal controllo piuttosto
che dalla proprietà diretta della vittime, sfruttate
finché sono in grado di garantire adeguati profitti,
per poi essere lasciate al proprio destino con la prospettiva,
nella migliore delle ipotesi, di vivere i restanti anni della
loro vita in condizioni di profonda indigenza, malattia e
vergogna.
In Alabama, nel 1850, uno schiavo agricolo costava 1.500 dollari
(circa 30.000 dollari in valuta corrente). Oggi un lavoratore
equivalente lo si può avere per circa 100 dollari.
Le vittime di questa nuova tragedia sono in larga parte donne
e bambini appartenenti agli strati più indigenti della
popolazione e, a differenza dello schiavismo in auge fino
alla seconda metà dell’Ottocento, le componenti
etniche, culturali e religiose cedono il posto all’appartenenza
di classe e alle domande del mercato.
L’attuale commercio, trasporto illecito e pagamento
di esseri umani, con lo scopo di trarre guadagno economico
da questi traffici, ci obbliga, per poter configurare il fenomeno,
a dover riutilizzare la parola «tratta».
La conseguente perdita del libero arbitrio e della libera
scelta, dello sfruttamento pieno e totale con l’aggiunta
di violenze fisiche e psicologiche, ci impone, per parlare
di queste pratiche, di usare il termine schiavitù e
non sfruttamento.
Senza protezione
Ad esempio, molti dei migranti provenienti dai paesi del
sud del mondo si impegnano a pagare un somma ai trafficanti
che, d’accordo con altri gruppi attivi nel paese di
destinazione, attendono l’arrivo della merce umana.
Le vittime, per disobbligarsi dai debiti contratti per pagare
il viaggio dovranno accettare, a rischio di subire altre violenze,
di entrare nel circuito del lavoro nero o della prostituzione.
Naturalmente lo sfruttato non salderà il debito finché
non sarà lo sfruttatore a deciderlo, il che accadrà
solo quando il valore aggiunto garantito dallo schiavo non
sarà più tale da giustificarne il possesso e
i rischi connessi.
Il lavoratore migrante è privato della protezione e
dell’affetto della famiglia, ed è esposto a gravi
rischi, di natura non solo psicologica. La criminalità
organizzata aspetta al varco persone che non conoscono la
lingua e la cultura del paese in cui emigrano e che spesso
non hanno un posto in cui stare o denaro con cui potersi garantire
la sopravvivenza. Ancor più a rischio sono i migranti
irregolari, privi di un visto d’ingresso e di un permesso
di soggiorno e, di conseguenza, della protezione legale dei
paesi di accoglienza e di provenienza.
Nella maggior parte dei casi i migranti irregolari lasciano
le loro case per cercare fortuna altrove senza avere un contatto
sicuro o una speranza di lavoro nel luogo di destinazione.
Spesso non sono in grado di emigrare autonomamente ma devono
affidarsi a gruppi organizzati che forniscono loro assistenza
in cambio di denaro. Non di rado, dietro il viaggio si nasconde
un inganno, una promessa di lavoro fatta dai reclutatori di
professione, individui e gruppi che hanno trasformato il reclutamento
ed il trasporto illegale di esseri umani in un gigantesco
giro d’affari.
Altre volte i reclutatori non chiedono in cambio soldi in
contanti alle vittime, con la prospettiva di essere pagati
dai gruppi criminali nel luogo di destinazione dei migranti.
In altri casi, infine, i reclutatori intascheranno sia il
pagamento per il passaggio da parte del migrante che quanto
pattuito da parte dell’acquisto di schiavi all’atto
della consegna.
Non è raro che il lavoratore migrante entri in questo
circolo dopo aver contratto debiti con il reclutatore. Il
debito può essere rappresentato dalla somma pattuita
per il viaggio. Oppure può essere peggiore, a causa
di precedenti prestiti. Il debito inoltre può passare
di mano in mano, da creditore a creditore, lievitando ad ogni
passaggio e diventando ben presto impossibile da saldare.
Questi debiti strangoleranno sempre di più il lavoratore
che, oltre alla somma iniziale, dovrà restituire interessi
altissimi..
In questo giro il guadagno del mercante di schiavi è
particolarmente remunerativo e i rischi minimi, soprattutto
quando la legge non punisce o fa finta di ignorare i traffici
di esseri umani nei paesi di partenza e quando le agenzie
di controllo nel paese d’arrivo hanno come obbiettivo
gli immigranti clandestini e non le organizzazioni criminali.
A livello globale il “mercato” di esseri umani
destinati al lavoro schiavo coinvolge centinaia di gruppi
mafiosi e frutta miliardi di dollari, i quali vengono subito
“lavati” da istituti bancari e immessi in circolazione
sui mercati finanziari mondiali.
La promessa di un lavoro, di una vita migliore, è dunque
la principale esca che gli schiavisti usano per adescare le
vittime.
Un’altra via molto praticata è quella del debito.
È facile che famiglie povere si indebitino con usurai
implicati nel commercio degli schiavi, i quali, chiedendo
la restituzione del proprio credito (di solito aggravato da
tassi d’interesse elevatissimi) possono in alternativa
decidere di considerare annullato il debito in cambio di una
contropartita umana: un bambino da avviare al lavoro nelle
fabbriche o nelle piantagioni vita natural durante; una bambina
da utilizzare come domestica e da avviare allo sfruttamento
sessuale per poi rivenderla ad altri padroni.
La cessione di un figlio da parte della famiglia può
avere lo scopo di rendere un debito a un creditore oppure,
semplicemente, di guadagnare denaro entrando così direttamente
nel giro perverso dello sfruttamento schiavistico.
In altri casi invece vengono offerte alle famiglie somme di
denaro come anticipo di guadagni di un ipotetico lavoro che,
si dice, si troverà al bambino o alla bambina; sulla
base di tale debito inizierà lo sfruttamento.
Bambini costretti a fabbricare oggetti o capi di abbigliamento
nelle fabbriche o a tagliare, trasformare e inscatolare frutta,
caffè, cocco nelle piantagioni; giovani ragazze costrette
a prostituirsi dietro la minaccia di ritorsioni fisiche, costrette
a vendersi sette giorni alla settimana per pagare un debito
che non potranno azzerare mai, stuprate dagli stessi padroni
per cancellare in loro qualsiasi spirito di ribellione e idea
di fuga; persone private della propria umanità, trattate
alla stregua di un oggetto, comprato o venduto come fosse
una cosa di proprietà di un altro essere umano che
si è eletto a suo padrone.
Nel mondo sono milioni le persone cadute nelle spirale del
lavoro obbligato. I più colpiti sono i bambini perché
garantiscono molti vantaggi a chi ne sfrutta il lavoro: sono
più permeabili rispetto agli adulti alle minacce di
ritorsioni fisiche e alla violenza psicologica, si accontentano
di una paga bassa, mangiano meno degli adulti, non sapranno
mai rivendicare miglioramenti della loro condizione.
Secondo alcune statistiche un bambino su quattro nei paesi
in via di sviluppo lavora anche più di nove ore al
giorno per sei giorni la settimana. Si tratta purtroppo di
stime ottimistiche che non tengono conto delle piccole schiave
domestiche, che lavorano tutto il giorno per sette giorni
alla settimana nelle case giapponesi e nordamericane e di
milioni di bambini che, nelle piantagioni malesi di caucciù
come nelle imprese manifatturiere clandestine italiane, tedesche,
pakistane o nepalesi e nelle fabbriche di articoli sportivi
indonesiani e cinesi, spesso non sanno neanche che cosa sia
un giorno di riposo alla settimana. Pochi, forse nessuno di
loro da adulto saprà leggere e scrivere e potrà
godere di una salute fisica e mentale stabile.
Sono stati addirittura scoperti villaggi in cui l’intera
popolazione è vincolata da un debito ereditario. Forse
era tutto iniziato al tempo dei loro nonni o dei loro bisnonni
– pochi sono in grado di ricordarlo – fatto sta
che ad un certo momento del loro passato le famiglie avevano
iniziato a lavorare gratuitamente per rifondere un prestito
in denaro. Il debito era passato di generazione in generazione.
Milioni di bambini sono altresì sfruttati sul mercato
della prostituzione e della pornografia. Secondo “Human
Right Watch” bambini sempre più piccoli subiscono
abusi emotivi, vengono stuprati, picchiati, torturati e perfino
uccisi. Questi bambini spesso vengono rapiti in tenera età,
oppure acquistati dalle famiglie di provenienza o raccolti
dalla strada, e sono forzati con violenza e minacce ad entrare
nel mercato del sesso.
L’industria sessuale infantile tocca i massimi picchi
nel sud est asiatico, in particolare in Thailandia, nelle
Filippine, nello Sri Lanka e a Taiwan, e, in maniera più
nascosta, va diffondendosi sempre di più in Occidente.
La cosa drammatica è che i governi nazionali spesso
tendono a favorire, o a non sanzionare, lo sfruttamento sessuale
di bambini, poiché la vendita del corpo dei minori
rappresenta un’insostituibile fonte di ingresso di valuta
estera pregiata. Povertà e sfruttamento sessuale camminano
di pari passo e non conoscono confini geografici: Albania,
Brasile, Cambogia, Indonesia, Malesia, Singapore, Ucraina,
Romania, Israele, Jugoslavia, Stati Uniti, Messico, Russia
e decine di altri paesi sono ormai fiorenti e affermati mercati
del sesso illecito, rubato con violenza ed inganno ai bambini.
Le donne e i bambini
Le donne sono, con i bambini, le persone più vulnerabili
e soggette alle violenze fisiche e psicologiche di individui
più forti di loro o di gruppi criminali locali e transnazionali.
Nei casi più estremi, oltre ad essere gravemente esposte
al lavoro schiavistico, le donne sono i soggetti maggiormente
indifesi rispetto alle piaghe dell’abuso fisico e della
schiavitù sessuale. Molte giovani donne, in particolare
nei paesi poveri, sono entrate, ancora bambine, nel mondo
della prostituzione a causa del circolo perverso nel quale
sono state precipitate da genitori o parenti che ne hanno
abusato sessualmente in tenera età. In altri casi,
sono la povertà e la mancanza di scolarizzazione a
spingerle nella rete dei loro aguzzini.
La gran parte delle giovani donne straniere costrette a prostituirsi
nei paesi in cui sono emigrate, prima di essere immesse nel
“giro” hanno subito un più o meno lungo
periodo di assoggettamento allo sfruttatore, che ha utilizzato
metodi violenti per vincerne la repulsione. L’unico
modo quindi per restare vive e sfuggire alle bastonate e agli
stupri è assecondare il padrone.
Le vittime spesso appartengono a gruppi di rifugiati, composti
di solito da donne, anziani e bambini, in fuga dalle guerre
fratricide del Ruanda, Afghanistan, ex-Jugoslavia, Kosovo,
Sierra Leone, Liberia, Sudan, Etiopia, Eritrea, Somalia, Cecenia,
ecc. Questi gruppi diventano le prede preferite dei trafficanti
di uomini e sono proprio le giovani donne i bersagli più
a rischio, che vengono comprate, ingannate con la speranza
di un futuro migliore o addirittura rapite. Di pari passo
è andato sviluppandosi un mercato di “servizi”,
per facilitare la migrazione irregolare: fornitura di documenti
di viaggio contraffatti, trasporto, attraversamento clandestino
delle frontiere, sistemazioni temporanee, ecc. ecc., insomma,
tutto l’indispensabile per ampliare attività
e profitti.
Chiunque cerchi scampo da una situazione di grave disagio
sociale può diventare vittima della tratta. Se è
facile che gli uomini possano essere oggetto di traffici illeciti
di esseri umani con lo scopo di acquisire mano d’opera
a bassissimo prezzo, per le donne il destino è finire
a fare le serve in case private oppure in strada. Lo stupro
da parte dei trafficanti è divenuto una costante, seguito
poi da molti altri, che toglieranno ogni resistenza ed il
rispetto per sé stessa ad ogni ragazza, facendola diventare
ottimo strumento di ricchezza che lo sfruttatore potrà
da subito gettare sulla strada.
Il discorso fatto per le donne è attinente anche ai
bambini. Sono la povertà, la fame, la mancanza di scolarizzazione,
l’assenza di una famiglia che badi a lui o a lei, la
violenza, l’arroganza, il turismo sessuale a sfruttare
l’esistenza dei bambini, a tradirne l’infanzia.
Non sono mai i bambini a cominciare; c’è sempre
qualcuno che lo ha “iniziato”, facendogli capire
che quello è l’unico modo che ha per guadagnarsi
di che sopravvivere. Quel qualcuno, turista o locale, ha approfittato
della fame, della povertà, della giovanissima età,
della naturale e ovvia ingenuità di un bambino analfabeta
e privo di genitori che sappiano, vogliano e possano badare
a lui.
Quel qualcuno, tradendo una volta l’infanzia di un bambino
innocente ne ha violato per sempre l’animo e ne ha minato
la possibilità di crescere normalmente e di diventare
serenamente adulto.
Ma, soprattutto, quell’acquirente di sesso ha innescato
un meccanismo perverso che ha gettato per sempre il bambino
tra le spire del mostro chiamato sfruttamento sessuale minorile
Nelle stesse società in cui i bambini e le donne vengono
ridotti a schiavi del sesso, un’altra triste realtà
è quella che queste piccole vittime si trovano a vivere
nel mondo del lavoro. Questo accade quando il lavoro minorile
si sposa con realtà drammatiche (come la restituzione
di un debito contratto dalla famiglia di appartenenza), in
un mondo che sa comprare, vendere e regalare armi ma non medicinali,
tecnologia, cibo; che pensa a produrre milioni di capi di
vestiario a bassissimo costo per aumentare il profitto disinteressandosi
delle piccole mani che tagliano, cuciono, modellano le stoffe;
in cui è sempre più difficile essere bambini,
e al gioco si sostituiscono paura e odio. È da questo
mondo che i mercanti di uomini traggono gli oggetti dei loro
traffici: piccoli schiavi, baby soldati, domestici, estrattori
di caucciù, piccoli minatori in grado di arrivare ovunque
nelle viscere della terra. Sono milioni e indifesi. Sono produttori
di ricchezze di cui non beneficeranno mai. Soprattutto, sono
schiavi.
Nell’Ottocento dunque era la scarsità a rendere
gli schiavi preziosi. Oggi, abbattuto il muro della differenza
etnica come elemento rilevante nelle riduzione in schiavitù,
non ha più importanza che lo schiavo sia “diverso”
dal trafficante o dal padrone. L’etnia dei due è
spesso la stessa. La differenza la fa la posizione sociale.
Gli effetti della globalizzazione e il nuovo colonialismo
spietato e disumano portano con essi lo sradicamento, l’aumento
della povertà e la devastazione ambientale, provocando
quotidianamente la dilatazione dell’offerta di schiavi
sul mercato.
Che senso avrebbe, dunque, acquistare degli schiavi a vita,
quando con una spesa molto minore e con meno rischio è
possibile, attraverso la morsa del debito, costringere milioni
di persone a prostituirsi e lavorare gratuitamente? Questo
è il principale elemento che distingue lo “schiavismo
tradizionale” da quello contemporaneo. Lo schiavista,
oggi, rifugge la proprietà e preferisce il possesso.
Ciò vuol dire che minimizzerà le spese, che
potrà rubare gli anni migliori della vita del suo schiavo
massimizzando il profitto, e poi potrà gettare via
la sua vittima ormai malata e sfruttata, reclutare nuovi essere
umani e ripetere lo stesso meccanismo.
Ecco allora il senso dei cosiddetti “schiavi usa e getta”:
persone che hanno un bassissimo costo d’acquisto, che
rendono agli schiavisti elevati profitti nel corso di rapporti
di dipendenza brevi o brevissimi. Questo nuovo schiavismo
evita risolutamente la proprietà dello schiavo, si
disinteressa delle differenze etniche come dei trattati internazionali
e può pescare le sue vittime in un enorme serbatoio
di potenziali schiavi, grande come tutto il mondo.
I nuovi schiavi sanno benissimo che la loro schiavitù
è illegale. La forza, la violenza e la coercizione
psicologica li hanno spinti ad accettarla. Quando gli schiavi
iniziano ad accettare il ruolo e a identificarsi con il padrone,
non è più necessario un costante vincolo fisso.
Arrivano a percepire la propria situazione non come il frutto
di un’azione deliberata volta a colpirli individualmente,
ma come parte di uno stato di cose normale. La psicologia
dello schiavo è altresì riflessa in quella dello
schiavista: è un insidiosa mutua dipendenza difficile
da rompere per lo schiavista non meno che per lo schiavo.
Nonostante la violenza e le condizioni di vita e di lavoro,
le persone in schiavitù hanno una loro integrità
mentale e i loro meccanismi per la sopravvivenza. Alcune possono
apprezzare davvero certi aspetti della loro vita, magari la
sicurezza che viene dal capire esattamente come vanno le cose.
Quando si turba questo ordine, improvvisamente tutto diventa
confuso. Alcune donne liberate hanno tentato addirittura il
suicidio. Sarebbe facile pensare che ciò sia avvenuto
per gli abusi attraverso i quali sono passate. Ma per alcune
di queste donne la schiavitù aveva costituito il principale
punto fermo della loro vita. Quando questo riferimento viene
meno, il senso della loro vita diventa come carta straccia.
Cifre in crescita
Per sua stessa natura il fenomeno è già difficile
da individuare. Nel dicembre del 2000, l’ONU dichiarava
che nel mondo almeno 200 milioni di persone vivono in condizioni
di schiavitù; 100 milioni di queste sono bambini.
Dagli anni sessanta ad oggi la sola compravendita di donne
e bambini destinate all’asservimento sessuale in Asia
è stimata ammontare di circa 30 milioni di individui.
Ogni anno almeno 100.000 donne immigrate negli USA sono costrette
a prostituirsi; nel solo Giappone se ne contano 50.000. Stiamo
parlando di due dei paesi più ricchi del globo, in
cui una donna asiatica viene venduta per 20 dollari. In Germania
i protettori di prostitute russe hanno un giro di affari enorme:
ogni ragazza, in media, guadagna 7.500 dollari al mese. Di
questi, circa 7.000 vengono incassati dagli sfruttatori della
ragazza; il resto rimane alla giovane per sopravvivere.
Nessun angolo del mondo è immune dal dramma della schiavitù
sessuale; oggigiorno, circa 2 milioni di donne, in tutto il
mondo sono oggetto di traffici illegali.
Di queste tra le 200.000 e le 500.000 lavorano illegalmente
come prostitute nella sola Unione Europea.
In Italia, nel 1996, si calcolava che ci fossero tra le 19.000
e le 25.000 prostitute straniere, 2.000 delle quali erano
state oggetto di traffico di esseri umani.
All’inizio del 2001 le prostitute straniere in Italia
erano circa 35.000, 3.500 della quali considerabili schiave.
Nel novembre del 1998 la sezione taiwanese dell’Ecpat
(End Child Prostitution, Pornography and Trafficking) avvertiva
che a Taiwan, tra il gennaio e il novembre 1998, erano stati
arrestati 762 clienti che avevano avuto rapporti sessuali
con bambini e 468 sfruttatori e trafficanti che gestivano
fette del mercato nazionale della prostituzione minorile.
Contestualmente la libertà era stata restituita a 1.110
bambini.
Sempre a Taiwan, nello stesso periodo, la polizia aveva sgominato
una banda di trafficanti di minori che avevano già
venduto oltre 100 bambini cinesi per tramite di una clinica
di Taipei. I piccoli venivano collocati in casse dopo essere
stati storditi con sonniferi e trasportati di nascosto a Taiwan
a bordo di pescherecci. Una volta sull’isola, i piccoli
venivano portati alla clinica di Taipei, dove si provvedeva
a redigere falsi certificati di nascita. Comprati in Cina
per 1.000 dollari statunitensi, i piccoli venivano rivenduti
a Taiwan per quasi 9.000 dollari.
L’Italia non è immune dal dramma dello sfruttamento
sessuale dei minori. Secondo Telefono Azzurro ogni giorno
due minori sono oggetto di violenze sessuali; il Censis segnala
un caso di abuso sessuale su ogni 400 bambini, un caso ogni
4 scuole, uno ogni 500 famiglie. Nel 1998 i procedimenti per
violenza sui minori sono aumentati del 17%. Circa 8.200 bambini
chiamano ogni giorno Telefono Azzurro. Gli operatori riescono
a rispondere a circa 1.800 chiamate per un totale di circa
55.000 casi mensili. Di questi circa il 4% riguarda abusi
sessuali.
Secondo “Human Right Watch”, il 10% dei 900.000
bambini nepalesi che lavorano nell’industria dei tappeti
sono stati sequestrati, un altro 50% (450.000 bambini) è
stato invece direttamente venduto dai genitori. Alcuni lavorano
nelle fabbriche di giorno e nel mercato del sesso la notte.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale, il denaro proveniente
dalle attività di organizzazioni criminali, tra le
quali spiccano il commercio di droga, la vendita di armi e
la tratta degli esseri umani e la loro riduzione in schiavitù,
si aggira ogni anno intorno ai 600 miliardi di dollari, tra
il 2 e il 5 per cento del prodotto interno lordo di tutto
il mondo messo insieme. Questo denaro viene “ripulito”
attraverso istituti di credito e reimmesso nel circuito internazionale,
dove è reinvestito dalla criminalità organizzata
in attività lecite.
Il 5 maggio 1998 il Dipartimento di Giustizia degli Stati
Uniti d’America rende pubblico un dossier realizzato
dalla CIA intitolato Global Trafficking in Women and Children
(traffico mondiale del donne e bambini). Secondo tali stime
a tutto il 1998 erano globalmente 700.000 le persone oggetto
del traffico di schiavi del sesso. Di queste, 40 o 45 mila
erano destinate al “mercato” statunitense. L’Asia
sud-orientale (Cina, Filippine e Thailandia) è la regione
che fornisce ogni anno il maggior numero di esseri umani al
traffico del sesso, più di 200.000 donne e bambini.
Il 60% di questi finisce nel “giro” delle città
della stessa Asia sud-orientale. Il rimanente 40% è
trasportato in Nord-America, Medio Oriente, Europa Occidentale,
Giappone e Australia; 30.000 finiscono annualmente negli Stati
Uniti.
Dai trafficanti dell’ex-Unione Sovietica vengono trasportate
circa 100.000 persone l’anno. Nel 1997, 3.000 schiave
del sesso sono state trasportate in Nord-America e altrettante
in Asia meridionale e in Giappone; 65.000 donne e bambini
sono finiti nell’Europa Occidentale; 15.000 in quella
orientale; 10.000 in Medio Oriente; 1.000 in Africa, che a
sua volta vede partire almeno 60.000 donne e bambine, destinati
al mercato del sesso. Dal 1997, in ogni caso, il numero della
giovani donne e dei bambini trafficati dalle ex repubbliche
dell’Unione Sovietica è ulteriormente cresciuto,
e per il 1998 la CIA avvalorava l’ipotesi che le vittime
potessero essere diventate 175.000 l’anno.
Dall’Europa orientale invece, nel 1998 sono partite
circa 75.000 schiave. Duemila sono finite negli Stati Uniti,
56.000 in Europa Occidentale, 5.000 in Medio Oriente e 1.000
in Asia.
Sempre stando ai dati del 1998, 150.000 donne e bambini sono
ogni anno rapiti o comprati in Asia Meridionale e vengono
dirottati sui mercati del sesso nordamericani, medio orientali,
europei occidentali, giapponesi e del sud est asiatico, mentre
100.000 schiavi centro e latino americani finiscono in nord
America, Asia ed Europa Occidentale.
Queste cifre oggi sono in crescita.
Nella migliore delle ipotesi, ciò a cui vanno incontro
le vittime del traffico è lo stupro. Così comincia
un viaggio che porterà queste persone a essere comprate,
sfruttate e vendute più volte prima di essere gettate
via come un oggetto inservibile. È sempre più
pratica comune, infatti, che le donne e i bambini malati siano
venduti a giri di criminalità minori; chi non aveva
contratto malattie prima ha la certezza di ammalarsi. In ogni
caso, poche di queste donne, probabilmente nessuno di questi
bambini, riescono a riscattare la libertà.
Secondo Kevin Bales, sociologo inglese (che ha iniziato a
studiare il fenomeno della schiavitù nei primi anni
Novanta), il numero degli schiavi è inferiore alla
cifra denunciata dall’ONU (più di 200 milioni
di individui). Escludendo i casi in cui i soggetti vengono
sfruttati 12 ore al giorno, o giorno e notte, ricevono un
miserabile salario, e tornano a dormire nelle proprie case,
Bales indica che circa 27 milioni di individui in tutto il
mondo sono schiavi a tutti gli effetti.
Solo in India se ne stimano tra i 18 e i 22 milioni; nel Pakistan
tra i 2.500 e i 3.500 milioni; negli Stati Uniti tra i 100
e i 150 mila; in Giappone tra i 5 e i 10 mila.
In Italia ce ne sono tra i 30 e i 40 mila: il numero più
elevato tra i paesi dell’Europa Occidentale.
Seguono: Francia 10.000-20.000; Spagna 10.000-15.000; Germania
5.000-9.000; Belgio 5.000-7.000; Portogallo 5.000-6.000; Regno
Unito 4.000-5.000; Paesi Bassi 3.000-5.000; Austria 1.000-2.000;
Danimarca 1.000-2.000; Svizzera 1.000-1.500.
La documentazione e i dati sull’argomento
utilizzati in questa sede sono raccolti in La schiavitù
del XXI secolo, autoproduzione a cura dell’Organizzazione
Anarco Comunista Napoletana – Federazione Anarchica Italiana,
23 settembre 2003; contiene articoli apparsi in «Le Scienze»,
n. 405, maggio 2002 ed il saggio di L. Leone, Infanzia negata.