La “divina”
audiovisione
È ritrovata? Che cosa? L’Eternità
È il mare che se ne è andato con il sole
Arthur Rimbaud
Cominciamo con una domanda diretta retorica. Cosa sarebbe stata
l’arte, la grande Arte (quella con la A maiuscola) senza
la committenza della Chiesa? Certo il prodotto finale realizzato
doveva saper controbattere abusi censori ed insinuazioni malpensanti
che avrebbero voluto nudità velate da discreti mutandoni
e vere donne pie ad immedesimare madonne e sante varie (e non
“donne di malaffare” come l’intenso vissuto
di un Caravaggio ci insegnerà).
Ma tutto questo si staglia su orizzonte di un tempo dell’arte
davvero lontano dove le tentazioni tra sacro e profano erano
ben presenti, un tempo dell’arte fatto di scoperte ed
attenzioni culturali, creatività e grandi opere.
Ed oggi nel sempre più tellurico (e a nostro giudizio
assolutamente necessario) divenire delle arti contemporanee,
nell’ennesimo termine dei “grandi racconti”
e verso un’idea ed una pratica delle arti sempre più
en travesti da facimenti (e disfacimenti) audiovisivi, carico
di ulteriori “impegni di mercato” la divina committenza
è talmente “sottodimensionata” (almeno apparentemente)
che l’unico suo destino è quello di vedersi riprodotta
nella sua annoiata divinità, dentro il suo sguardo che
altro non guarda che la sua invenzione (l’essere umano,
non si parli di “umanità” mi raccomando)
ridotta ad elettronica marionetta di un devastante reality.
Sembra esser questo uno dei motivi base del nuovo lavoro di
makinef (makina nefastis): God’s Thumb, opera
di potente tensione audio-visiva in cui ritroviamo riccamente
ripensati i tenaci “credo” estetico-tecnologici
cui da tempo ci ha abituato makinef, ne provo ad elencare almeno
7 (consapevole di far riduzione):
1. i sempre intrecciati livelli interni di lettura;
2. gli assalti frontali verso il “gusto del pubblico”;
3. le marcate varianti prospettiche;
4. i montaggi convulsi e le decostruzioni del suono e dell’immagine;
5. la neutralizzazione dell’autorialità e dell’io
creativo (signore e signori, molto prima di Luther Blisset e
storie varie);
6. le mistificazioni del rumore ed i paradigmi della visione;
7. l’ironia.
God’s Thumb ci indica, nel caso specifico, l’idea
di unicità del divino secondo makinef: il pollice (“ovvero
il dito più veloce dell’universo che fa zapping
fra le nostre vite” come recita una didascalia in video)
un’incorporazione metafisica dell’agire divino che
si realizza unicamente dentro uno spazio audiovisivo che controlla
(convulsamente) un mondo (altrettanto convulso) che batte al
ritmo dei 24 fotogrammi al secondo.
Fotogrammi visceralmente sparati a ripetizione sullo schermo.
Quest’opera audiovisiva di makinef, ça va sans
dir, lavora sulla ridondanza e la ripetizione ossessiva
dell’immagine, ma anche sulla disperata velocità
rabbiosa di volerle controllare queste immagini. God’s
Thumb è l’esasperata volontà di conquista
dell’immagine (in particolare nella sua piega televisiva)
ed i dati statistici inseriti da makinef nell’arco dei
suoi 06:38:09, ci indicano gli altri desideri del pollice divino.
Un pollice che aziona un metafisico telecomando “che fa
zapping fra le nostre vite” attraverso schegge, frammenti,
deliri, iconografie della contemporaneità, falle, finzioni.
A tutto questo aggiungete le frasi che scorrono tra le immagini
del video, ulteriori tracce-segni che arricchiscono l’obiettivo
della trama finale che sottende God’s Thumb (“Se
credi che siamo davvero dotati di libero arbitrio, allora sai
che Dio non può controllarci veramente”. “E
dal momento che Dio non può controllarci si limita a
guardare e a cambiare canale quando si annoia”. “Da
qualche parte nei cieli, sei in diretta su un sito di video
web perché Dio ci navighi”. “E potrebbe essere
che noi non siamo altro che la televisione di Dio”) (1).
Logicamente la musica (anche nelle vesti di suono, rumore e
citazione) è grande componente di God’s Thumb.
Ed è proprio nell’opzione sonora che la tensione
sperimentale di makinef respira di ancor più grande invenzione.
Avvezzo alle grandi macchinerie dell’elettronica (dal
rumorismo tardo futurista alla scena industrial, dalle sonorità
anni Ottanta al suono cibernetico più azzardato) makinef
realizza una fondamentale “colonna sonora” che blocca
il respiro e cattura in un perfetto transito sonoro ed immaginifico
(per poi chiudersi con un intelligentissimo disfacimento sonoro
finale assolutamente da non perdere).
Non c’è sosta nel God’s Thumb di
makinef, c’è la pienezza del vortice e del rizoma,
c’è l’esplosione di suono ed immagine, ma
c’è – come sempre – una sottintesa
ed asciutta ironia, un sorriso beffeggiante che mi ha richiamato
il sorriso di Wakefield (dal romanzo di Hawthorne del 1837 primo
emblema di uomo che guarda la folla, primo avanzamento della
“prototelevisione” e soprattutto figura abilmente
catturata nel “presente della prima civiltà
metropolitana”) (2).
Sorriso beffeggiante quello di makinef, che schernendosi crea
distanze o paure; ma chi ama sconfiggere le prime ansie da ricezione,
con graduale attenzione ne comprenderà il desiderio di
complicità e di tensione energetica, ne coglierà
le ridefinizioni del creativo e le progettualità aperte
e tutte da scoprire. God’s Thumb, infatti, rientra
in una larga riflessione sul pensiero mistico cui da qualche
tempo lavora makinef (The Babel series). Una riflessione
audiovisiva dove ritroveremo accensioni di sorprese, sintesi
labirintiche di tensione sincretica, possibilità e premonizioni,
luminescenze visionarie, sfide all’eternità e plasticità
del sogno (soprattutto se doppio, triplo, quadruplo…).
Alfonso Amendola
Alfonso Amendola insegna presso il Dipartimento
di Scienze della Comunicazione dell’Università
di Salerno dove, tra le altre cose, dirige le attività
del Laboratorio “Analisi dell’Opera Audiovisiva”.
Studioso di culture di massa e forme dell’avanguardia,
ha pubblicato diversi saggi e lavori monografici, di recente:
Frammenti d’immagine. Scene, schermi, video per una
sociologia della sperimentazione (Liguori 2005).
Note
1. Chuck
Palahniuk, Invisible monsters, Mondadori, Milano, 2003
2. Alberto Abruzzese, Lo splendore della TV. Origini e destino
del linguaggio audiovisivo, Costa & Nolan, Genova,
1995, p. 64.
Una testa
piena
Frame Produzioni e Officine Cinematografiche hanno
presentato in anteprima al CPA Firenze sud L’uomo
con la testa piena di film un documentario di Massimo
Fallai, 2005.
Il documentario narra attraverso gli aneddoti e le immagini
di Jo La Face (Giovanni Valerio), proiezionista di professione
e per passione, compagno anarchico calabrese trapiantato a Firenze,
“uomo con la testa piena di film”; la storia quasi
trentennale di proiezioni cinematografiche ininterrotte e militanti,
negli spazi liberati dei centri sociali (Ex Emerson, vicolo
del Panico ecc.) e nei luoghi del vero cinema. Il cinema resistente
che si oppone all’omologazione dilagante delle multisala,
fast food dell’immagine, e alla dittatura del video e
digitale, affermando l’esistenza nuda e cruda della pellicola,
quella che per usare le parole di Jo “è una cosa
viva” graffiata e fragile, carnale e vissuta, vulnerabile
e perciò vitale.
Proiettore, pizze, motore. I soliti gesti ripetuti da anni con
capacità certosina, attenzione maniacale, e da sempre
tante incognite. Ma anche tante bellissime sorprese, esaltanti.
Come la visita di qualche illustre personaggio, che esce dal
recinto della notorietà per annusare il mondo.
Massimo Fallai, il regista, è stato colpito da Jo quando
gli ha detto “nella mia testa ci sono 15.000 film”,
e così ha deciso di raccontare questa storia, e lo ha
fatto al meglio, usando una telecamera professionale e una capacità
fantastica nel cogliere particolari, piccole quotidianità,
sensibilità persino quasi femminili (e del resto Jo che
non a caso preferisce chiamarsi con il cognome della madre,
proviene da un mondo matriarcale) che raccontano una storia
grande. Jo è soltanto un cantastorie d’un mondo
immenso, che potrebbe scomparire sommerso dalla tecnologia digitale
e soprattutto dall’invadenza del cinema commerciale “che
macina titoli su titoli continuamente, come una fabbrica che
deve sfornare prodotti”.
Si accalora, Jo, nel ribadire che il cinema vero non sono i
film di cassetta e non è nemmeno arido collezionismo
borghese, ma è sangue, è vita, sono storie di
uomini e donne, degne di uscire alla luce dal buio degli archivi
e di essere proiettate, tutte, perché “dietro ogni
film ci sono delle persone che hanno dato la vita per raccontarsi”.
E che persone, quando si parla di Luis Buñuel, di Orson
Welles, di Pier Paolo Pasolini, di François Truffaut,
di Pietro Germi, dei Fratelli Marx e di tanti altri ai quali
sono state dedicate strabilianti rassegne nei centri sociali
e nei cinema d’essai fiorentini, costruite ogni volta
giocando su felici abbinamenti con cibo, alcool, performance
teatrali, proiezioni di diapo, mostre fotografiche, banchini
di libri e controinformazione.
Ma anche in modo assolutamente imprevedibile, uscendo persino
dallo spazio preposto all’interno di un edificio, e riproponendosi
all’esterno, sui muri dei palazzi o in spiaggia, su un
telone installato in mezzo all’acqua del mare. E così
il cinema autentico, fuori dalle mega multisala dei centri commerciali
e dalla triste consuetudine di vedersi una videocassetta in
solitudine (i due lati dello stesso aspetto), assolve al suo
originario compito di raccontare storie e insieme di riunire
le persone in spazi umanizzati, di farle respirare, parlare
e mangiare insieme. E magari aspettarsi che qualcuno esca fuori
dalla cabina di proiezione dicendo “scusate se la pellicola
si è rotta negli ultimi cinque minuti, non riesco a ripararla,
vi racconto il finale del film”.
“C’è gente che ci schiacciava intere giornate
al cinema” dice Jo a proposito dello Spazio Uno, rammaricato
per non poter più continuare questa esperienza. Negli
ultimi tempi il progetto del cinema al Centro Popolare Autogestito,
ha preso vita con rassegne di altissimo livello, a prezzi super
popolari, a cadenza settimanale.
Il documentario L’uomo con la testa piena di film
potrebbe essere un veicolo fantastico per proporre questo modo
di viversi il cinema.
Spero che sia nelle intenzioni del regista l’idea che
penso io, cioè di proiettarlo in ogni occasione possibile.
Per chi volesse avere ulteriori informazioni: massimofallai@frameproduzioni.it.
Patrizia “Pralina” Diamante
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