Né
suicidio, né omicidio. Pinelli morì per malore.
Questo, in sostanza, il succo della sentenza con cui il giudice
D’Ambrosio scrisse la parola “fine” alle
indagini della magistratura sul caso Pinelli. Era il 1975,
erano passati quasi 6 anni da quella notte del 15 dicembre
’69.
“Un malore per il compromesso storico” titolavamo
su “A” 43 (dicembre ’75/gennaio ’76)
il redazionale di commento a quella sentenza. Una sentenza
importante, perché sancì la “verità
di Stato” sulla morte del nostro compagno.
Qualche mese prima, mentre ancora D’Ambrosio stava valutando
se archiviare il caso (come appunto poi decise) oppure se
procedere contro i presunti responsabili della morte di Pinelli,
sul suo tavolo erano arrivate due memorie, siglate rispettivamente
dagli avvocati Marcello Gentili e Bianca Guidetti Serra (difensori
di Pio Baldelli, direttore responsabile di “Lotta Continua”,
nel processo contro di lui intentato da Calabresi in seguito
alla campagna di stampa portata avanti da quel giornale contro
di lui, indicato appunto come principale responsabile dell’assassinio
di Pinelli) e dall’avvocato Carlo Smuraglia (rappresentante
la vedova Pinelli, costituitasi parte civile contro gli assassini
di suo marito). In queste due memorie si confutavano le “prove”
dei sostenitori della tesi del suicidio di Pinelli e dell’innocenza
dei rappresentanti delle forze dell’ordine presenti
nella stanza dalla cui finestra l’anarchico “volò”.
Un lavoro meticoloso, una ricostruzione il più possibile
precisa, un costrutto logico più che convincente. Ma
del tutto inutile. Lo stato non poteva condannare i suoi fedeli
servitori, non poteva incolpare se stesso. Come previsto,
li assolse in istruttoria, autoassolvendosi.
Giuseppe
Pinelli
Aspetti sconcertanti
Il primo fondamentale aspetto sconcertante, per paradossale
che possa sembrare dopo anni di apparente istruttoria di cui
veniva data qualche esteriore notizia all’opinione pubblica
comprensibilmente ansiosa di conoscere come muore a Milano
nell’ufficio politico della Questura un cittadino onesto
e scagionato da tutti, è che non è stata fatta
tanto l’istruttoria sulla morte di Giuseppe Pinelli
quanto una tenace e quasi univoca indagine sulle sue eventuali
responsabilità.
Questo, a parte la colossale perizia sui poveri resti ormai
scarsamente significativi e alcuni esperimenti grossolanamente
riproducenti i fatti: esperimenti certo importanti e del resto
richiesti dalla difesa della parte civile, ma per loro natura
irreparabilmente insufficienti.
Non è stata fatta, perché si è ignorata
l’esigenza fondamentale di porre sotto inchiesta il
comportamento del dirigente e dei componenti dell’ufficio
politico della Questura di Milano, interrogando in modo analitico
e rigoroso prima di tutto i protagonisti e poi i testimoni,
che nell’istruttoria originale e nel dibattimento del
processo a carico di Baldelli avevano cominciato a indicare
delle vie di indagini (…).
Ebbene, rispetto a tutti questi fatti, è stato accertato
che Giuseppe Pinelli e in genere gli anarchici che avevano
collegamenti politici con lui erano estranei. Per le bombe
del 25 aprile, la cosa è ormai acquisita da tempo;
per quelle sui treni dell’8 e 9 agosto l’estraneità
di Pinelli è stata confermata anche dal rapporto della
Pubblica Sicurezza presso le Ferrovie dello Stato di Milano;
per la strage, la mancanza totale di qualunque elemento di
sospetto, o di dubbio non può certo trovare qualche
limite nella ormai svalutata accusa contro Valpreda, né
nella artificiosa e forzata discussione sull’alibi di
Pinelli né nelle ricerche dei primi mesi dell’istruttoria
sulle quali si faranno alcune osservazioni. (…).
Agosto
1969 – Bombe sui treni
Più in particolare, non si è indagato sulle
minacce fatte a Pinelli alcuni mesi e perfino pochi giorni
prima della strage, attraverso i testi già uditi nel
dibattimento del processo contro Baldelli e gli altri più
volte indicati, e richiesti dallo stesso Procuratore Generale
il 10 gennaio 1973. Si è giunti all’assurdo di
ascoltare due volte come teste Ivan Guarneri: colui che aveva
riferito della minaccia a Giuseppe Pinelli di “incastrarlo
per bene, una volta per sempre”, rivoltagli pochi giorni
prima del 12 dicembre dal dirigente dell’ufficio politico,
quasi che questi fosse a conoscenza di quanto stava avvenendo.
Sentendolo non su questo punto, ma sull’alibi di Pinelli.
E così si sono disattese le nostre istanze, da quella
del 2 novembre 1971 all’ultima del 6 dicembre 1974.
(…).
Insomma, di fronte all’“errore” dell’incontrollata
accusa agli anarchici e a Pinelli, i cittadini italiani avevano
e hanno diritto di sapere se si è trattato di incompetenza,
oppure di complicità con gli autori della strage, o
almeno di vedere verificata da parte dell’autorità
giudiziaria la prima delle due ipotesi.
Di fronte alla morte di una persona onesta in Questura alla
fine di 3 giorni di interrogatori, avevano e hanno diritto
di sapere se c’è stata imprudenza e spietata
insensibilità resa più traumatizzante da qualche
pesante espediente poliziesco: oppure se si è giunti
alla conclusione di una lunga e pervicace persecuzione di
lui e dei suoi compagni, che lo avrebbe portato a un gesto
disperato; oppure se altro c’è stato e perfino
un omicidio.
L’indagine, per quanto imposta dalla evidenza dei fatti,
è stata oggettivamente elusa. Prima con la sentenza
di proscioglimento dei dirigenti degli uffici politici di
Milano e di Roma e dell’Ufficio affari riservati del
Ministero dell’Interno senza alcuna specifica indagine
(e con qualche irrilevante rilievo critico, che ha portato
all’applicazione dell’amnistia per una imputazione);
poi, o meglio contestualmente, con l’eliminazione dal
processo per la morte di Giuseppe Pinelli di ogni inchiesta
sui funzionari dell’ufficio dal quale è precipitato,
come se questo fosse avvenuto altrove. (…).
Ma l’aspetto più sconcertante dell’istruttoria
è ancora un altro. Ed è che l’esame critico
delle contraddittorie e inverosimili versioni dei funzionari
di polizia non avviene mai, nonostante le richieste continue
e sempre più allarmanti che noi difensori abbiamo reiterato.
Soltanto nel terzo anno di istruttoria, prima di chiuderla
definitivamente, gli indiziati vengono sentiti. Non viene
fatta loro nessuna contestazione, e ci si limita ad acquisire
la versione dei fatti già data. Ne sono prova i verbali
di questi formali atti, così come quello della generica
deposizione del questore Guida.
Quanto agli avvisi di reato, una posizione privilegiata
ha poi assunto inspiegabilmente il dirigente dell’ufficio
politico Allegra. Questi, pur denunziato come gli altri funzionari
per lo stesso contesto di fatti, ha avuto comunicazione solo
per il reato previsto dall’art. 606 c.p., amnistiabile
e amnistiato, nonché scollegato dalle modalità
specifiche con cui è stato trattato ed è morto
Giuseppe Pinelli. (…).
La requisitoria del Procuratore Generale impone qualche osservazione
specifica, a parte tutto quanto abbiamo scritto o scriveremo
in questa memoria.
La prima osservazione è che questo atto, malgrado le
sue dimensioni e la chiara strutturazione del discorso, esclude
qualunque problema e ogni ricerca di verità su un caso
così inquietante e complesso come la morte dell’anarchico.
Il Procuratore Generale che non solo difende gli imputati
in un modo che meglio si attribuirebbe a un avvocato che ne
tuteli gli interessi e la reputazione, ma scrive come se avesse
personalmente assistito agli interrogatori del fermato e,
non avendo dubbi sulle frasi pronunziate e sugli atteggiamenti
tenuti dai funzionari di polizia, ne constatasse l’assoluta
correttezza. Quando si leggono i giudizi positivi sulle frasi
che gli indiziati hanno riferito di aver detto a Giuseppe
Pinelli e sugli espedienti che hanno raccontato di aver usato,
si ha la netta impressione che il Procuratore generale non
si ponga neppure il problema che i fatti possano essere stati
diversi o anche di poco peggiori. (…).
Milano,
25 aprile 1969 – Bomba alla Fiera campionaria
Le ipotesi astratte di questa precipitazione si sono sempre
limitate alle seguenti:
- Ipotesi del malore e della precipitazione accidentale.
Pinelli, sentendosi male durante l’interrogatorio,
chiede e ottiene di recarsi alla finestra per prendere aria
e quivi, colto da malore, è inopinatamente scivolato
fuori dalla ringhiera cadendo nel cortile.
- Ipotesi del suicidio. Pinelli, sconvolto per
quello che ha udito, pur essendo estraneo alla strage, riesce
a scavalcare la ringhiera e a lanciarsi nel cortile.
- Ipotesi dell’omicidio preterintenzionale.
Pinelli colpito violentemente nel vano della finestra, precipita
in modo fortuito.
- Ipotesi dell’omicidio a mezzo della defenestrazione
per occultare precedenti lesioni o perché lo si ritiene
in imminente pericolo di vita. È quanto avviene
all’anarchico Frezzi precipitato durante un interrogatorio
della polizia, in circostanze analoghe a quelle di Pinelli
(si ricorda un precedente lontano, ma è pur vero
che non si ha notizia di vicende analoghe e tanto meno alla
Questura di Milano, dovute a suicidio).
- Ipotesi dell’omicidio mediante defenestrazione.
È questa l’ipotesi più tragica e suggestiva,
che non farebbe che aggiungere un altro morto ai tanti possibili
testi della strage, eliminati anche in modo analogo, talvolta
con apparente precipitazione suicidiaria: Muraro e Ambrosini.
Scartata la prima ipotesi perché poco verosimile ed
esclusa dai periti e dai consulenti tecnici, non resta che
scegliere fra le altre.
Ebbene, contro il suicidio stanno il carattere di Pinelli,
la sua passione politica, le sue convinzioni, il suo amore
per la famiglia e la vita, il suo stato d’animo di quel
giorno, la difficoltà fisica, in una stanza come quella
e in presenza di tanti funzionari, di raggiungere e scavalcare
la ringhiera e parte la sua estraneità a qualunque
fatto delittuoso. Insomma, praticamente tutto quello che si
conosce di Pinelli ed è stato accertato. (…).
Avv. Marcello Gentili
Avv. Bianca Guidetti Serra
L’avvocato
Marcello Gentili
Una menzogna allegra
(…). Ma il fatto è che una serie di considerazioni
del P. G. si distruggono da sole e non hanno bisogno di confutazione.
Ci limiteremo a rilevare come nella requisitoria si segua pedissequamente
l’impostazione difensiva del principale difensore degli
imputati e, talvolta, lo stesso contenuto dei rapporti giudiziari
redatti dal Dott. Allegra. E già questo è rivelatore
di una presa di posizione apodittica, prima ancora che ancorata
a dati obiettivi ed a sicure emergenze processuali.
Né ci soffermeremo sul fatto che per il P. G. le deposizioni
di alcuni testi sono sospette solo perché si tratta di
anarchici, mentre si dà pieno credito a coloro il cui
interesse nel processo – per essere indiziati o imputati
– è più che evidente, tanto che perfino
le loro contraddizioni vengono addotte a prova di spontaneità!
La presa di posizione di partenza del P. G. è tale che
egli ammette che ci sono imprecisioni, discordanze, contraddizioni,
che il rapporto iniziale fu superficiale e leggero (da notare
che c’era di mezzo un morto e in quali circostanze!),
che ci furono errori ed illegalità per quanto riguarda
il fermo di Pinelli, ma da tutto questo che cosa deriva? Neppure
l’ombra del sospetto, neppure un indizio, nulla, anzi
la prova della buona fede dei prevenuti.
Su queste basi, non c’è contraddittorio, non può
esservi confronto e dibattito di idee. C’è solo
una tesi cui si vuol credere a tutti i costi e che da tutti
viene avallata, perfino dagli argomenti decisamente contrari.
Ci sono obiezioni di illustri consulenti di parte? Non se ne
tiene conto, perché si tratta di persone rose dal tarlo
della politica o dedite alle esercitazioni accademiche.
Si parla di minacce al Pinelli? E che rilievo possono avere,
se si tratta solo di – più o meno amichevoli –
“esortazioni”?
Pinelli fu fermato illegalmente? Ma che diamine, c’erano
elementi fortemente indizianti e perfino una notizia confidenziale
che lo dava per implicato in traffici di esplosivi.
Le norme sul fermo non furono applicate rigorosamente? Ma anche
questo si spiega con l’eccezionalità della situazione,
con l’avallo dei superiori e nientemeno – col consenso
delle persone fermate, tutte pronte a collaborare nelle indagini.
Fu fatta un’irregolare e illegittima contestazione al
Pinelli? Sciocchezze, piccoli trucchi di mestiere inammissibili
per un Magistrato, ma spiegabili e pensabili per un funzionario
di pubblica sicurezza. (…).
Avv. Carlo Smuraglia
Le edizioni
francese, tedesca e italiana del libro di Luciano Lanza. È
prevista a breve una edizione inglese
Bombe
e segreti
È
appena uscita, per i tipi di Elèuthera, la ristampa
del volume “Bombe e segreti” di Luciano Lanza.
Compagno di Pinelli nel circolo anarchico “Ponte
della Ghisolfa, Lanza ha partecipato a tutte le fasi della
mobilitazione sulla Strage di Stato. Nel ’71 è
stato tra i fondatori di questa rivista. Attualmente è
direttore della rivista trimestrale “Libertaria”.
Ecco la sua premessa alla seconda edizione del libro. |
La
strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969, segna un punto fondamentale
della storia italiana del dopoguerra. Quel giorno si materializza
la criminalità di una classe politica che, per conservare
il potere di fronte all’avanzata del «comunismo»,
è pronta a tutto. Anche a lasciare morti sul suo percorso
pur di non veder messa in discussione la sua leadership. Quella
strage non è una pagina oscura, non è la «notte
della repubblica», è un capitolo chiaro, preciso:
meglio i morti che un cambiamento. E di morti, negli anni successivi,
ce ne sono stati molti. Per mano soprattutto della destra, ma
anche della sinistra. Un gioco perverso: la destra aveva attaccato,
la sinistra doveva rispondere. Anzi, doveva innalzare il «livello
di scontro».
Una logica assurda che ha messo in crisi quasi tutte le proposte
di cambiamento radicale della società italiana. In questa
ottica la bomba di piazza Fontana ha segnato e scritto la storia.
Che è anche una storia infinita. Dagli anarchici «pazzi
criminali» si passa ai nazisti e fascisti colpevoli. Accomunati
sul banco degli imputati, verranno assolti tutti. E i colpevoli?
Non esistono. Poi rispuntano responsabilità dei nazi-fascisti
quando i principali colpevoli non possono essere più
condannati. Infine altri te processi che un’altra volta
mandano tutti assolti. Una vera commedia all’italiana,
se non fosse una tragedia.
Una tragedia che vede negli attentati del dicembre 1969 il momento
centrale di una strategia che doveva portare, nelle intenzioni
degli esecutori, a un regime autoritario, ma che è stata
gestita dai più alti organi dello Stato per mettere fuori
gioco gli avversari politici e per creare un clima di paura
che perpetuasse la centralità della Democrazia cristiana
e dei suoi alleati. In questo senso la bomba di piazza Fontana
è l’analizzatore della società italiana:
mette a nudo il ruolo di ministri, servizi segreti italiani
ed esteri, magistrati, forze di polizia. Tutti coinvolti in
un progetto criminale. È l’unica definizione possibile.
Ricostruire quell’avvenimento, che vede le sue premesse
nelle bombe del 25 aprile e del 9 agosto 1969, significa dunque
individuare l’essenza nascosta dello Stato italiano. Perché
non si è di fronte a organismi deviati dai loro compiti.
Questa è una grande favola che i mezzi d’informazione
hanno cercato di raccontare quando le responsabilità
dei «servitori dello Stato» non erano più
occultabili. La realtà, infatti, è molto più
semplice e sconcertante: «La presenza di settori degli
apparati dello Stato nello sviluppo del terrorismo di destra,
non può essere considerata ‘deviazione’,
ma normale esercizio di una funzione istituzionale», scrive
il giudice Guido Salvini, titolare dell’ultima indagine
su piazza Fontana. Allora si comprende come il termine «strage
di Stato» assuma una valenza che va al di là dello
slogan politico, perché individua invece una verità
inconfutabile, nonostante le sentenze di assoluzione.
Infine una precisazione. Questo libro è di parte, ma
non partigiano. Nel senso che io, l’autore, ho vissuto
molte di quelle vicende come anarchico del Circolo Ponte della
Ghisolfa. Ho condiviso la mia attività politica (fino
al 15 dicembre 1969, giorno della sua morte) con Giuseppe Pinelli
e ho partecipato attivamente alla campagna per la liberazione
di Pietro Valpreda. Sono quindi coinvolto, anche sul piano emozionale.
Ma ho cercato, grazie anche ai quasi quattro decenni trascorsi,
di pormi un traguardo: raggiungere il massimo di obiettività
possibile.
Luciano Lanza
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