Rivista Anarchica Online


Pinelli Piazza Fontana

Il commissario-finestra
di Patrizio Biagi

 

Il commissario Luigi Calabresi non era certamente quello che oggi molti vorrebbero far apparire.


Trentatré anni fa il dott. Luigi Calabresi, commissario della squadra politica della questura di Milano, veniva avvicinato da alcune persone che dichiararono in seguito di averlo fatto nell’intento di “scambiare quattro chiacchiere come si usa tra amici”. Alle contestazioni mossegli da costoro, circa le sue palesi responsabilità nell’assassinio dell’anarchico Giuseppe Pinelli, il commissario negò decisamente ogni addebito. Ma quando, per tendergli un trabocchetto, gli fu detto: “Calabresi confessa, che il tuo amico Allegra ha parlato”, il commissario, dopo essersi sbiancato in volto, mormorò: “È la fine della polizia di stato”, poi con mossa felina (il gesto fu talmente repentino che nessuno riuscì a fermarlo. Solo uno dei presenti riuscì a togliergli la terza delle due pistole che aveva con sé) afferrava una pistola e si sparava un colpo in testa.
Una rapida inchiesta archiviò subito il caso come morte accidentale (non volendo usare il termine suicidio che risultava essere un tantino forte), ma le patriottiche coscienze non potevano accettare una simile tesi e l’inchiesta fu così riaperta, dimostrando che non di morte accidentale (o suicidio) si era trattato, bensì di malore attivo: infatti il Calabresi alla notizia della confessione di Allegra sarebbe dapprima impallidito, poi, colto da malore attivo (malore che invece di provocare un accasciamento nel colpito, provoca in lui un raptus attivo) afferrò, senza rendersene conto, la pistola d’ordinanza e, sempre inconsciamente, si sparò il famoso colpo alla testa.

Il commissario Luigi Calabresi durante un’udienza del processo che lo vide contrapposto a Pio Baldelli,
direttore del giornale “Lotta Continua”

Sotto le finestre della questura

Questa ricostruzione dei fatti è ovviamente fantasiosa e non risponde certo alla realtà dei fatti, come fantasiose e non rispondenti alla realtà dei fatti furono le varie versioni sul “volo” di Pinelli date dalla questura e le due inchieste che ne archiviarono la morte, prima come “morte accidentale” (??!!) e poi come “malore attivo”.
Come non ci convinse allora la tesi del suicidio (troppo spudorate furono le menzogne della questura e di quella magistratura che queste menzogne aveva fatte sue), non ci convincerà in seguito, ne ci convince tuttora, la ridicola tesi del malore attivo, tesi partorita nel clima politico di “compromesso storico” (l’inchiesta fu chiusa nel 1975) che sempre più si stava facendo strada, tra le forze politiche istituzionali, nella seconda metà degli anni ’70.
Pinelli cadde a piombo sotto le finestre della questura. Un malore attivo lo avrebbe dovuto portare (lui alto 1,67) ad oltrepassare con un balzo il davanzale di una finestra che (con l’aggiunta di una piccola ringhiera) misurava ben 94 cm. Salto abbastanza difficile da attuare se si pensa che avrebbe dovuto compierlo da fermo, stando vicino al davanzale e senza prendere nessun tipo di rincorsa. In più il corpo in caduta avrebbe dovuto descrivere una parabola, che avrebbe allontanato il suo corpo di qualche metro dal muro dell’edificio, e non cadere a piombo come un oggetto inerte. Un’altra cosa: in quale paese “democratico” si è mai visto un inquisito che, durante l’interrogatorio, viene lasciato libero di avvicinarsi ad una finestra aperta, senza che venga presa la benché minima precauzione onde evitare tentativi di suicidio derivanti dalla durezza dell’interrogatorio?

Milano, via Fatebenefratelli, Questura: La freccia indica la finestra su un cortile interno dalla quale è “volato” Giuseppe Pinelli

Vasta montatura

Calabresi, che oggi la stampa ha rivestito degli “abiti nuovi” di poliziotto democratico che fa il suo dovere per il bene della collettività, fu tra gli artefici, insieme al giudice Antonio Amati, all’allora questore di Milano Marcello Guida, al capo dell’ufficio politico della questura Antonino Allegra, al giudice Ernesto Cudillo, al pubblico ministero Vittorio Occorsio, al giornalista del “Corrierone” Giorgio Zicari e ad altri meno noti ma ben più pericolosi, di una vasta montatura tendente a screditare i movimenti di emancipazione e della “nuova sinistra”, nel tentativo di giustificare una involuzione autoritaria del sistema. Montatura che ebbe le sue punte massime nell’addossare, contro ogni evidenza e ragionevolezza, la responsabilità delle bombe del 25 aprile (Fiera Campionaria e Stazione Centrale), dell’8 e 9 agosto (attentati a vari treni) e la strage di stato del 12 dicembre 1969 agli anarchici.
Calabresi fu forse una figura di secondo piano all’interno di questo vasto disegno reazionario, cionondimeno il suo nome sarà di gran lunga il più tristemente famoso di tutti e resterà per sempre e indissolubilmente legato alla morte di Giuseppe Pinelli. Sarà sempre ricordato, nella coscienza di molti che quei momenti hanno vissuto, come uno dei responsabili (assieme ai poliziotti e carabinieri presenti in quella stanza della questura: Panessa, Mucilli, Mainardi, Caracuta, il tenente Lo Grano, …) della morte dell’anarchico.

La vignetta ricostruisce il “lacunoso” riconoscimento di Valpreda da parte del tassista Rolandi.
L’unico a non appartenere alle forze di polizia è l’anarchico al centro

Ma cerchiamo ora, con l’aiuto di alcuni brani di scritti contemporanei alle gesta del nostro eroe, di ridefinire il più nettamente possibile, anche se per sommi capi, un “profilo” che la stampa, a seguito della riapertura delle indagini sulla sua morte, ha contribuito a rendere oltremodo sfumato.
Nel ’69 viene trasferito a Milano giusto in tempo per occuparsi a modo suo delle bombe del 25 aprile. In tandem con il giudice Amati indirizza subito, e a senso unico, le indagini verso gli ambienti anarchici e dopo aver fatto passare molti anarchici al setaccio ne tratterrà alcuni come colpevoli dei due attentati (Braschi, Faccioli, Vincileoni e Corradini, ai quali si uniranno più tardi Pulsinelli, Della Savia, Norscia e Mazzanti).
È curioso notare il metodo, da lui usato nel condurre le indagini e che lo portano spesso a valicare i limiti del suo specifico ruolo di semplice commissario aggiunto della squadra politica.
Difatti (…). È lui che, sostituendosi ai magistrati, va in carcere a far fare perizie calligrafiche ai detenuti ed estrae il Braschi da San Vittore per fargli riconoscere ad ogni costo la cava fatale (1): è lui che notifica i mandati di cattura rabbiosamente emessi da Amati dopo l’ordinanza della Corte d’Appello (2). È lui che insieme ai suoi tre fedelissimi percuote e minaccia Faccioli negli interrogatori, è lui che, secondo le deposizioni e le lettere degli anarchici, non lascia dormire il Faccioli per tre giorni e tre notti e con un pretesto lo porta fuori Milano in macchina per farlo scendere ed ordinargli di correre avanti, mentre lui vien dietro a fari spenti (“Possiamo romperti le ossa come niente, e poi dire che è stato un incidente…”); è lui che, sempre secondo le deposizioni degli imputati, picchia Braschi minacciando di imprigionare sua madre e di infilargli della droga in tasca; è in questo periodo che lo chiamano “il comm. Finestra”; è sempre Calabresi che mette la sua firma alla deposizione della Zublena “dimenticandosi” di farla firmare a lei: la deposizione riguarda le responsabilità dinamitarde degli imputati Corradini che in dibattimento la Zublena dichiarava di non conoscere. (…) (3).
Il movimento anarchico cerca intanto di reagire a questa montatura che non fa presagire nulla di buono. Cominciano le stesure dei comunicati inviati alla stampa e da essa sistematicamente ignorati, la stesura di documenti di analisi sulla situazione, le conferenze, i sit-in davanti a San Vittore e al Palazzo di Giustizia in solidarietà con gli anarchici arrestati, gli scioperi della fame, le manifestazioni, ecc.
Ma se gli anarchici si muovono nemmeno Calabresi e i suoi accoliti stanno fermi. Con ferocia aggrediscono a sberloni gli anarchici che stazionano davanti al Palazzo di Giustizia e distruggono diverso materiale di controinformazione. In quest’opera di repressione sembra che uno dei più attivi sia stato appunto Calabresi.
Il livore antianarchico di Calabresi è talmente palese che durante una manifestazione del settembre, arriverà persino, dopo averlo preso in disparte, a minacciare rabbiosamente Giuseppe Pinelli: (…) a un certo punto a Pinelli si era avvicinato Calabresi chiedendogli di sciogliere la manifestazione. Non poteva scioglierla, dato che non era stato lui ad organizzarla, aveva risposto il Pinelli; in più i manifestanti avevano la sua solidarietà. “Pinelli, stai attento” aveva ribattuto Calabresi, “ché alla prossima occasione te la faccio pagare” (…) (4). Difatti nella notte tra il 15 e il 16 dicembre…

Milano, via Fatebenefratelli, Questura: Due momenti della ricostruzione dell’episodio con il famoso manichino

Oltre il normale fermo di legge

12 dicembre ’69: scoppia una bomba in piazza Fontana ed è strage. Calabresi intervenuto subito dichiarerà ai giornalisti presenti che per lui la strage è opera degli anarchici.
In giornata vengono fermati 588 anarchici e militanti della sinistra extraparlamentare e 12 fascisti (che saranno rilasciati subito dopo). Il fermo dei fascisti è solo per fare un po’ di polverone, per far vedere che si indaga in ogni direzione senza alcuna prevenzione, ma la coppia Amati-Calabresi ha già in mente su chi scaricare le responsabilità di questa feroce carneficina.
Tra coloro che vengono fermati vi è anche Giuseppe Pinelli, il quale sarà trattenuto oltre il normale fermo di legge, senza che la magistratura venga informata di questo prolungamento del fermo, diventando a tutti gli effetti (se visto in un’ottica di formalità legale) un vero e proprio sequestro di persona degno dei più biechi stati di polizia che, negli anni ’60/’70, costellavano il continente sudamericano e non solo. Pinelli entrò in questura il pomeriggio del 12 dicembre e ne uscì (passando per la finestra) a mezzanotte circa del 15 e in questi tre giorni fu sottoposto a pesanti interrogatori nei quali non mancarono, sicuramente, pestaggi, minacce e violenze morali.
(…) Verso sera un funzionario si è arrabbiato perché parlavo con gli altri e mi ha fatto mettere nella segreteria che è adiacente all’ufficio del Pagnozzi: ho avuto occasione di cogliere alcuni brani degli ordini che Pagnozzi lanciava ai suoi inferiori per la notte. Dai brani colti posso affermare che ha detto di riservare al Pinelli un trattamento speciale, di non farlo dormire e di tenerlo sotto pressione tutta la notte. Di notte Pinelli è stato portato in un’altra stanza e la mattina mi ha detto di essere molto stanco, che non lo avevano fatto dormire e che continuavano a ripetergli che il suo alibi era falso. Mi è parso molto amareggiato. (…). Io gli ho detto: “Pino perché ce l’hanno con noi?” e lui molto amareggiato mi ha detto: “Sì, ce l’hanno con me”. (…). Verso le otto è stato portato via e quando ho chiesto ad una guardia dove fosse mi ha risposto che era andato a casa. (…).
Dopo un po’, verso le 11,30, ho sentito dei rumori sospetti come di una rissa e ho pensato che Pinelli fosse ancora lì e che lo stessero picchiando. Dopo un po’ di tempo c’è stato il cambio di guardia, cioè la sostituzione del piantone di turno fino a mezzanotte. Poco dopo ho sentito come delle sedie smosse ed ho visto gente che correva nel corridoio verso l’uscita, gridando “si è gettato”. Alle mie domande hanno risposto che si era gettato il Pinelli: mi hanno anche detto che hanno cercato di trattenerlo ma non vi sono riusciti. Calabresi mi ha detto che stavano parlando scherzosamente del Pietro Valpreda, facendomi chiaramente capire che era nella stanza nel momento in cui Pinelli cascò. Inoltre mi hanno detto che Pinelli era un delinquente, aveva le mani in pasta dappertutto e sapeva molte cose degli attentati del 25 aprile. Queste cose mi sono state dette da Panessa e Calabresi mentre altri poliziotti mi tenevano fermo su una sedia pochi minuti dopo il fatto di Pinelli (…)
(5).

Copertina del libro curato dalla Crocenera edito da La Fiaccola

L’arresto degli ex militanti di Lotta Continua (Sofri, Pietrostefani e Bompressi) fa pensare che sia in atto qualcosa di più della semplice ricerca della verità sulla morte di Calabresi, fa pensare che qualcuno intenda cancellare e riscrivere la storia di un periodo, che culturalmente e politicamente ha significato molto per l’acquisizione di sempre più ampi spazi di libertà, riconducendolo ad un semplice scontro violento e militare tra lo stato e i suoi antagonisti, dove questi ultimi rappresentavano le forze disgregatrici della “democrazia”. Parola sempre pronta ad uscire fuori, e molto spesso a sproposito, come il classico coniglio dal cilindro del prestigiatore. Non solo. Nel frattempo si tenta di “riabilitare”, di fronte a chi ha la memoria corta e non possiede memoria storica, un personaggio che non potrà mai essere riabilitato.
Non vorremmo passare per gente che si è costruita la sua bella “verità” preconcetta, ma pensiamo che la verità sulla fine di Pinelli sia ancora presente sui muri, e che basterebbe scrostare qualche strato di vernice per trovarvi scritto sotto a caratteri cubitali: Pinelli è stato assassinato!

Patrizio Biagi

Milano 1970. Scritte in via De Amicis


Note

  1. Cava dove Paolo Braschi, assieme a Piero Angelo Della Savia, si sarebbe procurato secondo l’accusa, l’esplosivo per confezionare le bombe, e in cui, sarebbe risultato in seguito, non si verificò alcun furto di esplosivo.
  2. Dopo oltre sette mesi di carcerazione, la Corte d’Appello concesse la libertà provvisoria a cinque degli anarchici arrestati, ma mentre Eliane Vincileoni e Giovanni Corradini poterono uscire, per gli altri tre (Braschi, Faccioli e Pulsinelli) il giudice Amati spiccò nuovi mandati di cattura evitando così la loro scarcerazione e giustificando questo provvedimento con il fatto di avere acquisito una preziosa supertestimone. La supertestimone di Amati sarà Rosemma Zublena, una psicolabile che al processo crollerà dimostrando di essere stata strumentalizzata dallo stesso Amati e dal commissario Calabresi.
  3. Camilla Cederna, Pinelli una finestra sulla strage, Feltrinelli, Milano, 1971. Il libro è stato ripubblicato nel novembre 2004 dalla Casa editrice Net.
  4. Id.
  5. Stralci della testimonianza di Pasquale Valitutti riportata in: Crocenera Anarchica, Le bombe dei padroni, Biblioteca delle collane Anteo e La Rivolta, Catania, 1970

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Famosa striscia di Anarchik, disegnata da Roberto Ambrosoli, e da cui l’autore dell’articolo prese spunto
per l’attacco iniziale del pezzo