L’ultimo rapporto
annuale (inizio dicembre 2005) del Censis, istituto nazionale
di ricerca socioeconomica, ci fa sapere che per ora è
scongiurato il paventato pericolo del declino economico italiano:
45.000 nuove aziende solo nell’ultimo anno, aumento
del ruolo delle medie imprese di casa nostra sui mercati internazionali,
aumento delle spese di pubblicità, rilancio dei consumi.
Sottolinea in particolare un insolito vigore dell’imprenditoria
italiana, ben aiutata dal boom di iniziative imprenditoriali
di immigrati, gli extracomunitari come sono definiti nazionalisticamente.
Entrambe le tipologie di imprenditori, sia gli aborigeni nostrani
sia gl’immigrati, si dice, portano ricchezza, mentre
in realtà han solo trovato la strada per arricchirsi
personalmente, alzando di conseguenza gl’indici capitalisti
di misurazione della ricchezza.
È la solita storia: il benessere sociale viene misurato
dalle capacità imprenditoriali, dalla quantità
dei consumi, dall’invasione della pubblicità.
Un paese, si dice e si propaganda, sta bene solo se e quando
riesce a far arricchire i più furbi e i più
capaci, se crea posti di lavoro, se induce gli esseri umani
a consumare e ad investire. Allora aumentano gli investimenti
e le speculazioni finanziarie, si dominano, o si tendono a
dominare, i mercati, si gestisce l’economia finanziaria
e capitalista facendo affari e invadendoci di manufatti e
prodotti, per fare i quali aumenta il consumo di energia prodotta
da centrali a combustione o nucleari e che, guarda caso, inevitabilmente
faranno aumentare il volume degli spazi delle discariche o
delle immissioni, sempre nocive, degli inceneritori, pardon!,
dei termovalorizzatori.
Al contempo lo stesso rapporto ci segnala in cifre la distribuzione
della ricchezza nazionale del belpaese. Apprendiamo così
che il 10% delle famiglie più abbienti possiede circa
la metà della ricchezza complessiva, il 45,1%, che
il 12% delle famiglie si trova sotto la soglia della povertà,
mentre un altro 13% ne è appena al di sopra e fa una
gran fatica a tirare avanti. Un buon quarto delle famiglie
italiane è così diventato povero ed ha la prospettiva
di rimanerlo per parecchio. Per completare abbiamo un certo
numero di benestanti che si attesta attorno al 15%, mentre
il resto sembra sia continuamente costretta a far quadrare
i conti pur non rischiando, per ora, di diventare povera.
Riassumendo, un quarto della popolazione di casa nostra sta
bene o addirittura benissimo, mentre i tre quarti è
costretta a vivacchiare, molto controllata, o addirittura
a lottare per sopravvivere.
All’interno di questo bel panorama del nostrano “benessere
diffuso”, chi ha tra i 18 e i 35 anni si trova oppresso
dal maggior disagio lavorativo. In questa fascia d’età
la precarietà occupazionale, ufficialmente secondo
il Censis, è diventata precarietà esistenziale,
dal momento che la permanenza in famiglia è ormai una
condizione indispensabile per non trovarsi irrimediabilmente
esposti all’insicurezza sociale. La penalizzazione delle
donne sul mercato del lavoro resta fortissima, con un tasso
di attività fermo al 37,1%, superiore soltanto al 30,6%
dell’isola di Malta. Da tempo e non da ora sappiamo
come i pensionati convivono con una diffusa indigenza. Infine
per quanto riguarda gli immigrati, se da una parte le imprese
con un titolare straniero sono 190.000, dall’altra si
è formata un’allarmante banlieu e, sempre secondo
il Censis, la mancata integrazione delle seconde generazioni
di immigrati rischia di alimentare un serbatoio di esclusione
sociale e di devianza, facendo intravedere seri rischi per
l’equilibrio sociale.
Scenario
deprimente
Lo scenario complessivo che ne risulta è molto deprimente
per chi ha a cuore l’autentica salute degli esseri umani,
che non può che essere considerata nella sua completezza
fisica, mentale, psichica e interrelazionale. I divari tendono
ad aumentare vistosamente, sul piano economico tra chi ha
di più e chi ha poco o addirittura niente, sul piano
politico e sociale tra chi decide e chi subisce le decisioni.
Irrimediabilmente i più deboli sono sempre più
deboli ed i più forti sempre più forti. Chi
ha le spalle già sicure e riparate rafforza e rimpingua
il proprio status, con l’aumento della ricchezza personale
disponibile e del potere d’influenza e di decisione.
Chi non è coperto e protetto è invece costretto
ad aumentare lo stato della propria insicurezza e ad entrare
in una sorta di permanenza della condizione precaria della
propria esistenza.
È il consolidamento ulteriore di uno stato diffuso
di costante ingiustizia, supportata da un’ineguaglianza
endemica che si sorregge su un regime di privilegi per pochi
e di umiliazione per tutti gli altri. A questo si accompagna
una continua diminuzione delle possibilità individuali
sia di movimento sia di libertà, dal momento che l’uno
e l’altra possono esercitarsi concretamente soltanto
se si determinano delle condizioni di vita che le permettano.
In definitiva siamo sempre più all’interno di
una prigione sociale, dove per ragioni superiori di sicurezza
siamo sempre più controllabili e controllati e dove
il ricatto economico del sistema vigente restringe sempre
di più le possibilità e le speranze di una vita
dignitosa per la maggioranza delle persone.
Questa situazione generalizzata senz’altro continua
a sussistere perché ci sono responsabilità contingenti
che ne confermano e ne aggravano l’esistenza, ma soprattutto
perché ha delle cause di fondo che la sottendono e
la fanno essere quella che effettivamente è.
Grandi responsabilità risiedono in primis e senza dubbio
nel modo di governare. Attualmente in Italia il governo di
centro-destra, in particolare il “premier” Berlusconi,
sono responsabili del costante aggravio dello stato di cose
per le scelte scellerate senza sosta che li hanno distinti:
continue gerarchizzazioni degli apparati istituzionali come
strategia di rinnovamento degli stessi, preferenze dichiarate
ed evidenti per chi persegue interessi capitalistici e personali,
spostamento di ogni scelta verso la logica dei profitti e
degli utili privati, totale convinta subordinazione alla filosofia
del mercato capitalista globale, visione di una giustizia
asservita alle istanze liberiste e privatistiche, la quale
non può che favorire i rampanti protagonisti degli
interessi personalistici a scapito dei più deboli e
degli oppressi in generale.
Ma al di là delle indiscutibili responsabilità
contingenti in loco, è la stessa struttura portante
di questo sistema ad essere la causa principale e fondamentale
del fallimento sociale di cui stiamo parlando. Sono innanzitutto
la filosofia e la logica dell’impianto su cui si sorregge
a determinare l’inevitabile dissesto di principi e di
valori, di conseguenza delle condizioni esistenziali e materiali,
cui stiamo assistendo e che stiamo vivendo. Tutto ruota ormai
inevitabilmente attorno alle capacità competitive e
alla conquista dei mercati. Si parla di crescita dello sviluppo
come spinta, voluta e propagandata, ad un agire, un pensare
e un progettare strettamente connessi alla realizzazione senza
freni di speculazioni e profitti finanziari. Tutta la classe
dirigente, istituzionale e politica, invoca continuamente
un’idea di benessere sociale come realizzazione della
competitività e dello sviluppo economici, ignorando
bellamente e consapevolmente che sono fondati sulle disuguaglianze,
sulla corruzione, sui privilegi, sullo sfruttamento e sulla
precarietà lavorativa. Siamo circuiti da un’idea
di progresso aggiornata che, fra l’altro, come un rullo
compressore s’impone con supponenza, devasta l’ambiente
e non dimostra il minimo rispetto per esseri umani, animali,
cose e natura.
Purtroppo non è una caratteristica solo nostrana. È
così in tutto il mondo. In qualsiasi parte del globo
i poteri costituiti, siano di destra o di sinistra, illuminati
o oscurantisti, teocratici o liberali o laici, sono tutti
impegnati ad inseguire questa folle corsa.
Tutti, in una maniera o nell’altra, sentono il bisogno
di non rimanere indietro, di superare l’arretratezza
economica inserendosi nei mercati, di costruire opere faraoniche
di sicuro devastante impatto ambientale, di essere parte più
o meno consistente della torta dei profitti finanziari, ovviamente
creando sacche di povertà, arricchimenti personali
di elite d’affari, imponendosi quando sono in grado
con la forza di armi ad alto potere distruttivo, creando deserti,
disboscamenti, cumuli d’immondizia e rompendo gli equilibri
ecologici creatisi naturalmente in milioni di anni.
Esempio lampante ed estremamente calzante: la Cina. Ha conservato
la struttura politica tecno-burocratica che il bolscevismo
creò per imporre la ferrea dittatura del partito-stato
sull’intera società sottoposta. Contemporaneamente
si è liberata della fallimentare economia di piano,
anch’essa tipica del bolscevismo, per abbracciare in
toto l’economia del mercato capitalista. Ha così
messo in piedi un capolavoro: la struttura dittatoriale di
un potentissimo apparato tecno-burocratico che permette la
dinamicità di un forsennato e devastante sviluppo economico,
divenuto riferimento del capitalismo internazionale invece
di tendere ad affossarlo com’era nelle finalità
d’origine.
Il risultato, invidiato dal resto del mondo, è la messa
in opera di una mostruosa macchina di oppressione e sfruttamento,
dove non sono garantiti i più elementari diritti umani,
dove frequentemente la repressione è sanguinaria e
brutale, dove chi lavora riceve, quando li riceve, salari
da fame, dove si è arricchita solo un’esigua
minoranza e dove i livelli d’inquinamento prodotti sono
allucinanti.
Problema
non risolvibile
È una tendenza mondiale ed investe tutte le classi
dirigenti, indipendentemente dall’estrazione politica
di appartenenza, perché è insita nella logica
stessa del dirigere e governare il presente stato di cose.
Per questo anche in casa nostra il problema non sarà
risolto, perché appunto non è risolvibile con
le vigenti logiche di governo, neanche se a prendere il timone
sarà il centro sinistra ulivista, com’è
probabile secondo i sondaggi relativi alle prossime elezioni
di aprile 2006.
I D’Alema, i Fassino, i Prodi, ecc., ce la metteranno
senz’altro tutta. Ma per fare che cosa? Per risollevare,
almeno nelle loro dichiarate buone intenzioni, le sorti di
questo sistema che, dicono, rischia di andare in sfacelo.
Non lo mettono in discussione, ce l’hanno detto e ribadito
molte volte, bensì lo vogliono far funzionare al meglio.
Se non erro, erano queste le stesse identiche intenzioni dichiarate
dell’attuale “premier” Berlusconi.
Vogliono far ridiventare competitiva l’azienda Italia,
in grado di essere sui mercati in modo efficiente e concorrenziale,
cosicché gli affari tornino a funzionare a vele spiegate
e possiamo finalmente diventare un “paese normale”
(affermazione dalemiana). Forse tenteranno di togliere qualche
tassa perché ne siamo oberati (anche questo non faceva
forse parte del programma berlusconiano?), di rabberciare
il mercato del lavoro per ridare più tranquillità
e sicurezza ai cittadini, di favorire gl’investimenti
e, per farci tutti felici e contenti, di farci consumare di
più e far circolare più denaro. Chiedo soltanto
in cosa queste intenzioni si distinguono da un qualsiasi altro
programma di conduzione capitalista e liberista, se non in
una dichiarata intenzione di un maggiore welfare (magari alla
Blair, che in fondo appartiene all’internazionale socialista,
anche se è facile dimenticarlo)?
Il fatto è che il sistema non va né migliorato
né fatto funzionare, perché è proprio
il suo funzionamento la causa prima dei disastri di cui stiamo
parlando. Se veramente si vuole imboccare la strada per un
benessere vero, il sistema vigente, imperante a livello globale,
dovrebbe essere sovvertito.
Intendo una sovversione culturale, intellettuale, morale,
artistica, poetica e politica, del funzionamento insomma delle
società nel loro complesso. Non intendo necessariamente
le barricate e lo scontro violento col bagno di sangue tradizionale,
anche se diversi fatti, ultimi in ordine di tempo quelli della
Val di Susa, fanno supporre che non sarà facile evitarlo.
O perlomeno non bisognerebbe farsi prendere dal pallino di
dover abbattere per forza il sistema con la violenza. Lo scontro
che avverrà, se e quando avverrà, dovrà
avvenire perché i poteri vigenti non demordono, non
perché li attacchiamo militarmente.
Bisogna sovvertire i sistemi decisionali, non delegando più
ai politici di professione il potere di decidere per tutti
e prendendo direttamente in mano le sorti dei nostri destini
con forme istituite di autogoverno.
Bisogna sovvertire il primato dell’economia intesa come
ricerca spasmodica di profitti a qualsiasi costo, relegando
la questione economica ad una questione che è indispensabile
assieme ad altre, non prima e sopra tutte le altre com’è
ora, per la conduzione regolata dell’esistenza collettiva.
Bisogna sovvertire la condizione strutturale del lavoro sottoposto
agli interessi capitalisti delle elite economiche, ricreando
situazioni in cui lavorare voglia dire innanzitutto contribuire
al bene e al benessere collettivo, secondo una logica fondata
sulla solidarietà e la reciprocità.
Bisogna sovvertire i metodi e le logiche dell’attuale
sviluppo industriale, sostituendoli con scelte produttive
e interventi che si integrino con l’ambiente e non alterino
gli equilibri ecologici.
Bisogna sovvertire le strutture vigenti della convivenza,
delle relazioni e delle interrelazioni sociali, per fare in
modo che lo stare insieme sia regolato da presupposti di libertà,
di solidarietà, di eguaglianza e di rispetto reciproco,
non affrontando più i conflitti, che sempre sorgeranno,
con esclusive logiche di vendetta, punizione e repressione,
motivate dall’autoreferente uso legittimo della forza,
ma col confronto e la comprensione per il recupero interno
alla collettività, che di volta in volta dovrà
essere in grado di gestire il da farsi.
Vien da chiedersi: «È possibile una tale sovversione?».
Non solo è possibile, è addirittura auspicabile.
La sua possibilità comincia dalla convinzione e dal
desiderio di ritenerla possibile. Ma per una simile convinzione
bisogna rifiutare l’immagine del mondo come si presenta
e ridefinire un immaginario completamente nuovo, dove le istanze
alternative cominciano a prendere forma e ad essere ipotizzate
nel concreto.
Nulla nasce a caso né immediatamente e perfettamente
fruibile. Ogni realtà prende forma attraverso l’esperienza
e la sperimentazione. Così bisognerebbe cominciare
a mettersi in gioco e a provare, mettendo in piedi e attivando
luoghi e processi di autogestione e sperimentazione libertaria,
in grado di far vivere l’alternativa fin da ora.
Costruire
una nuova società
Senza dubbio questa è materia prediletta per gli anarchici,
che a mio avviso dovrebbero farne il loro campo di battaglia
privilegiato, in modo da riuscire a dare una coscienza di
costruzione di una nuova società alle tante esperienze
che spontaneamente continuano a sorgere, spinte e motivate
dall’insoddisfazione del presente stato di cose.
Gli anarchici dovrebbero smettere di pensarsi e rappresentarsi
soprattutto come movimento anarchico, quasi fosse un partito,
mentre dovrebbero cominciare a sentirsi e ad essere anarchici
in movimento, inseriti a pieno titolo in modo dinamico nei
processi spontanei della trasformazione sociale.
Non dovrebbero più preoccuparsi di essere soprattutto
riferimento della protesta e della contrapposizione antipotere,
mentre dovrebbero diventarlo della costruzione e della sperimentazione
del nuovo che si desidera avvenga. Proposte e proposte di
soluzioni, non scontri e contrapposizioni, che fra l’altro,
se le proposte avanzate sono effettivamente sovversive, portano
poi di conseguenza sempre anche allo scontro. Le persone vogliono
sapere innanzitutto cosa fare e come farlo prima di decidere
di abbattere ciò che, nonostante tutto, già
c’è.