“Quando sento la parola cultura metto
mano alla pistola”
(H. Goering)
“Te la sei cercata / l’hai avuta”
(Dimenticare Parigi, B. Crystal, USA, 1995)
Ma
le braccia cadono
Spesso, in questi anni di governo Berlusconi, mi son trovato
a raffigurarmi una scenetta su un canovaccio che, in qualche
modo, mi pareva verosimile. Passata la giornata ad assumere
faticosi atteggiamenti democratici, Fini rientra a casa stremato,
si toglie giacca e cravatta e, in maniche di camicia, si siede
a tavola e accende la televisione.
Al telegiornale c’è Berlusconi che, tutto giulivo,
dice a chiare lettere: “Il parlamento è una gran
perdita di tempo. In realtà non conta nulla, tanto
è vero che le decisioni le prendiamo altrove. Poi,
purtroppo, bisogna passare dalle camere dove, per far vedere
che qualcosa fanno per guadagnarsi lo stipendio, tutti i parlamentari
si sentono in dovere di prendere la parola.
Lavorare così, credetemi, è una fatica improba!”.
A Fini cade il cucchiaio nella minestra. Subito squilla il
telefono, Daniela risponde, copre la cornetta e sussurra “Gianfranco,
è Fisichella”; e lui, con la faccia sulla tovaglia:
“Digli che non ci sono...”.
In una sua bella canzone, Francesco Guccini dice che per la
battuta si farebbe spellare. Il problema di Berlusconi, o
meglio dei suoi alleati, pare il medesimo: è che lui
proprio non ce la fa a star zitto, dice tutto quello che gli
passa per il cervello, che evidentemente è pieno zeppo
di pensieri che altri troverebbero irriferibili.
E allora giù con la superiorità della civiltà
occidentale su quella islamica (proprio a fagiolo, con le
torri gemelle ancora fumanti), avanti con le segretarie italiane
gnocche e compiacenti, con le corna in testa a un dignitario
spagnolo e con la proposta di far spupazzare un po’
la moglie da un altro bel ministro estero (“Rasmussen
è il primo ministro più bello d’Europa...
Penso di presentarlo a mia moglie, perché è
molto più bello di Cacciari... Secondo quello che si
dice in giro...”).
E via continuando, tra un kapo e un branco di turisti della
democrazia, fino alla madornale dichiarazione di essere riuscito
a risolvere una controversia a livello di Unione Europea convincendo
la presidentessa danese a favorire l’Italia grazie alle
vecchie armi del playboy, povera donna. La battuta a tutti
i costi, insomma, come quando durante un vertice internazionale
e dopo che il presidente del Togo aveva appena finito di esporre
la disperata situazione del Malawi, dicendosi certo che 13
milioni di persone moriranno di fame nel prossimo futuro,
si rivolge alla platea battendo le dita sull’orologio
e dicendo “Bisogna accorciare gli interventi perché
la nostra non sarà una tragedia, ma anche noi abbiamo
fame”.
Uno così, c’è poco da fare, ti imbarazza.
Tanto più che quando prova a metterci una pezza vien
da rimpiangere il buco: ho detto che i giudici sono dei disturbati
mentali antropologicamente diversi dal resto della razza umana?
Ma via: quando mi intervistavano ero ubriaco! Non fatela lunga
e sentite piuttosto questa bella barzelletta sui finocchi...
In questi anni, dicevo, mi divertivo a immaginare le reazioni
dei compagni di coalizione di fronte a queste sparate.
E li pensavo, di volta in volta, esterrefatti o scoraggiati
nel vedere i loro sforzi per rendere presentabile un governo
che, tra l’altro, ha il ministro dei lavori pubblici
che convive con la mafia, puntualmente frustrati dalle dichiarazioni
e dai comportamenti da mentecatto del loro capo.
Per intenderci, parliamo di uno che dichiara che con l’euro
sentirà un po’ di nostalgia per la lira perché
“ne ha fatta tanta”, o che se le tasse sono troppo
alte è morale evaderle. Roba da farti cadere le braccia,
insomma; tanto più che queste cose non le dice dopo
cena ai suoi amici ricchi, ma le spiattella in faccia a milioni
di persone, molte delle quali di “lira” –
come dice lui – ne hanno sempre fatta poca, e magari
sono lì intenti a far due conti per far tornare il
pranzo con la cena. Costoro, per buon peso, si sentono adesso
dire, anzi ripetere, che se lo voteranno, bene, e se non lo
voteranno sapete che c’è di nuovo? Chi se ne
frega. Lui prende, parte e va a Tahiti in barca. Bisogna ammetterlo:
a modo suo è un grande.
Di fronte a dichiarazioni di questo tenore, la prima reazione
è pensare di aver di fronte un completo sprovveduto.
La mia impressione, però, è che questa lettura
non sia del tutto corretta. Berlusconi non è certo
quest’aquila che qualcuno vuol farci credere, ma d’altra
parte non credo sia neppure un salame, come si potrebbe definire
con un giudizio frettoloso; non foss’altro, perché
il presidente del consiglio dispone dell’assistenza
di esperti di comunicazione che sono certamente attenti a
quel che dice e a quel che fa, e che di continuo cercano di
aggiustare il tiro della sua immagine pubblica, con in mente
un obiettivo ben preciso.
Credo, così, che molte delle stupidaggini che Berlusconi
quotidianamente sciorina non siano tutta farina del suo sacco,
ma siano, invece, in larga parte una commedia messa in scena
allo scopo di guadagnare la simpatia di determinate fasce
dell’elettorato di destra, rubacchiando, in altri termini,
i voti dei suoi stessi alleati. È il teatrino dell’impolitica,
cioè lo stesso copione che Berlusconi va recitando
dai tempi della sua “discesa in campo”, quella
recita nella quale il caudillo di Villa San Martino
impersona l’uomo comune che, a disagio con le pastoie
del politichese, spiazza tutti col suo linguaggio semplice
e diretto, anche se un po’ grossolano.
Una specie di Bertoldo in doppiopetto, che magari si pulisce
le unghie con la forchetta, ma che è abituato a dire
pane al pane e vino al vino, senza tutti quei giri di parole
dei quali i “professionisti della politica” sembra
non possano fare a meno.
Tutte
balle, ma intanto…
Certo, un tempo i nostri politici erano anche troppo paludati,
così come lo erano i loro linguaggi. Ma quando sento
il presidente del consiglio presentare un proprio candidato
che di mestiere fa il ginecologo come “uno che ha le
mani in pasta” confesso di sentire nostalgia per le
convergenze parallele. Si potrà obiettare che di stupidaggini
se ne sentivano anche prima, come quando Carlo Donat-Cattin,
ministro della sanità, dichiarava che l’AIDS
è una malattia che riguarda solo chi se la va a cercare.
Ma non si può negare che la situazione complessiva
era radicalmente diversa, tant’è che su Donat-Cattin,
oltre che sulle sue dichiarazioni, veniva spesso calato un
velo pietoso.
Le cadute estetiche – se vogliamo chiamarle così
– nei discorsi di Berlusconi non si contano, e certo
non devono essere salutate con entusiasmo dai suoi alleati,
che immaginano il gradimento del governo diminuire, magari
anche solo un po’ alla volta, in coincidenza di ogni
nuova facezia da avanspettacolo.
L’antico (1988) accostamento di papa Wojtyla al Milan
(“sempre in giro per il mondo a portare un’idea
vincente”), o le boutade sull’essere
l’unto del Signore (cioè il Cristo,
mica meno) per esempio, non faranno piacere a tanti elettori
cattolici, né la barzelletta del medico che propone
a un malato di AIDS le sabbiature (“così si abitua
a stare sottoterra”) avrà rallegrato chi ha un
amico o un familiare sieropositivo, persone che non necessariamente
hanno votato a sinistra.
Accanto a questo, c’è un altro lato dell’atteggiamento
pubblico di Berlusconi che promette di fare ancora più
danno alla coalizione di governo.
L’entusiasmo, l’ottimismo, qualità che
sono benefiche quando trovano un certo grado di corrispondenza
nella realtà, ma che diventano malefiche e deleterie
quando sono, come si dice, fuori dal mondo. Per capirsi, è
cosa buona che se una mattina ci si sveglia con il raffreddore
non gli si dia importanza e si confidi che passi da sé
in un paio di giorni, ma è cosa pessima fare altrettanto
se ci si rompe una gamba.
La propaganda personale del presidente del consiglio, soprattutto
quando si toccano temi economici, sotto questo aspetto è
sconcertante: va tutto bene. Ma non nel senso di complicati
ragionamenti di macroeconomia; no, proprio nel senso che gli
italiani, i singoli italiani, sono ricchi: hanno
tutti due automobili, qualche telefonino (“in classe
di mio figlio, la maggior parte dei bambini ne ha addirittura
due”), vanno in vacanza in luoghi esotici e non usano
i mezzi pubblici.
Se l’economia va male è solo perché gli
italiani non comprano abbastanza, il che mi pare francamente
una contraddizione perché non credo che le due macchine
di prima gliele abbiano regalate.
Ora, questo tipo di propaganda potrà forse, anche se
lo dubito, sembrare verosimile a chi tutte queste cose le
ha davvero. Ma certo non se la beve chi l’automobile
non ce l’ha perché non saprebbe con che soldi
comprarla, né chi in vacanza non può andare
perché ha due figli e uno stipendio, né le centinaia
di migliaia di pendolari che ogni mattina si alzano alle sei
per arrivare, in treno, al lavoro alle otto e mezza.
Tutti questi, come minimo, si sentiranno presi in giro, e
non credo che sia una buona premessa per il momento in cui
la Casa della Libertà tornerà a chiedere il
loro voto. Poi ci ripensa, il Berlusconi, e viene fuori che
sì, è vero, in effetti ci sono tante famiglie
che non arrivano alla fine del mese. Ma questo è perché
le massaie, come dice lui, non sanno fare la spesa. Pronti,
ecco qui che ve lo spiega lui come si fa. Prima di tutto,
le cose non si comprano nei negozi (e così son serviti
i bottegai, che non vedranno l’ora di rivotarlo) ma
al mercato, scegliendo il banco che, a parità di qualità,
pratica i prezzi più bassi, “come fa mia mamma”.
Insomma, se i soldi non ti bastano, è perché
tua moglie non ha criterio.
Nei primi tempi, l’entusiasmo ostentato aveva dato i
suoi frutti. In molti ricorderanno Emilio Fede che annunciava
ogni sera l’apertura di decine di nuove sezioni –
pardon, nuovi club – di Forza Italia nei luoghi
più disparati.
Venne fuori che erano tutte balle, ma nel frattempo il partito
di Berlusconi e dei suoi ragazzi era riuscito a guadagnare
ampia notorietà presso le persone che non si interessano
di politica: proprio quella fascia dell’elettorato che
gli strateghi di Arcore intendevano raggiungere.
Adesso, però, la questione non è più
tanto semplice. Anche chi non si interessa di politica o chi,
con incomprensibile compiacimento, dice che la politica “non
la capisce” non può non essersi accorto che le
cose non vanno bene per niente. Se, infatti, per capire come
funziona una riforma elettorale ci vogliono dieci minuti di
attenzione, accorgersi di non potersi permettere di cambiare,
non dico la macchina, ma le gomme è un lampo.
Chi “non capisce” la politica potrà anche
rimanere impressionato dallo sbandierato record di durata
del governo, ma se la Casa della Libertà ha perso tutte
le elezioni dal 2001 a oggi significa senza ombra di dubbio
che in molti, anche tra costoro, non l’hanno più
votata, e forse vedono questo record non come un motivo di
giubilo ma di doglianza.
Mamma,
li comunisti!
Sarebbe semplice, quindi, leggere gli atteggiamenti di Berlusconi
come puri e semplici sintomi di inossidabili manie di grandezza
e di protagonismo a oltranza. Sospetto che l’uomo –
lui dico – sia proprio così: un traffichino di
bassa o punta cultura che, come scriveva Luigi Pintor, conosce
come unico modello di successo il “cumènda”
brianzolo che, infagottato nel doppiopetto, va fiero dei propri
denari e della propria ignoranza; del resto, lo stesso Berlusconi
si è pubblicamente vantato di non aver letto un libro
da più di vent’anni perché “troppo
impegnato con il lavoro”.
Sarebbe semplice, certo, ma probabilmente sarebbe sbagliato:
sebbene Berlusconi ci metta spesso e volentieri del suo, credo
che in generale il modo in cui si presenta e il tenore delle
sue esternazioni non siano soltanto frutto di abissale dabbenaggine,
ma siano invece ritagliati su di uno schema attentamente messo
a punto dai suoi consigliori, un modello che rappresenta
una declinazione inedita del populismo e che mira a fidelizzare
o a convincere determinate categorie di elettori o di potenziali
tali.
Se presentare la presidentessa uscente della provincia di
Milano Ombretta Colli – giusto per fare un altro esempio
– come “una bela tùsa” che “ha
ancora una bella voce e presto, mi dicono, tornerà
a cantare” (tra parentesi: ci è tornata) è
chiaramente farina del suo sacco, il canovaccio delle tante
esternazioni e dei tanti atteggiamenti del presidente del
consiglio è però costruito a tavolino, scientemente
e ponderando i pro e i contro.
Per rendersi conto di questo, basta riflettere sul fatto che,
sebbene forse con minor frequenza, cose del genere Berlusconi
le diceva e le faceva anche in campagna elettorale quando,
cioè, i voti non doveva conservarli ma, soprattutto,
doveva guadagnarli. È quindi interessante capire dove
questi voti sono stati cercati allora, per capire quale sia
la funzione degli atteggiamenti di adesso.
Il semplicistico messaggio che, fin dalla sua comparsa sulla
scena politica, la propaganda di Forza Italia è andata
martellando è che esiste un’entità sommamente
malvagia chiamata “i comunisti”, nella quale rientra
l’intera porzione dell’arco costituzionale non
alleata con Berlusconi, da Bertinotti a Mastella (per quest’ultimo,
almeno mentre sto scrivendo).
Con ciò, a mio parere, si può escludere che
Berlusconi abbia mai cercato di sottrarre voti al centrosinistra;
piuttosto, la campagna elettorale di Forza Italia è
invece stata orientata fin dal principio a raccogliere le
preferenze di persone che avevano già deciso di votare
a destra, o che non avevano ancora deciso se votare o no ma
che, in caso affermativo, avrebbero votato senz’altro
a destra.
In occasione delle ultime elezioni politiche, si è
cercato di raggiungere questo obiettivo scuotendo i potenziali
elettori dormienti, quelle persone, cioè,
che pur condividendo una generica preferenza per la destra
(o un’avversione per la sinistra) non sarebbero andate
a votare.
Sebbene l’astensionismo sia in Italia un fenomeno piuttosto
diffuso tanto a destra che a sinistra (almeno per gli standard
europei), questo è più marcato tra i potenziali
elettori di destra, presso i quali è più frequente
un considerevole grado di disaffezione politica che finisce
per far loro percepire l’esercizio del diritto di voto
come un fastidio.
Il populismo di Berlusconi è ritagliato su misura del
qualunquismo caratteristico di questi elettori potenziali
che, indifferenti verso la comunicazione politica tradizionale
sono proprio per questo attratti da una propaganda elementare
che evita fino al dettaglio ogni riferimento a temi politici
ma che, in compenso, sfrutta in abbondanza il vocabolario
del discorso da bar e da scompartimento ferroviario.
Non ci sarebbe nulla da dire se manifesti sui quali si legge
“Un buon lavoro anche per te”, “Città
più sicure”, e, più di recente, “Voto
Forza Italia perché non leggo ‘Repubblica’
e me ne vanto” oppure “Voto Forza Italia perché
è guidata da un uomo che per me è un esempio:
Silvio Berlusconi”, pubblicizzassero, per esempio, un’agenzia
di collocamento, un antifurto o un quotidiano, ma se sono
strumenti di propaganda politica diventano ipso facto grevi
e volgari, perché elevano la mancanza di contenuto
a contenuto in sé, pretendendo il diritto della vacuità
di farsi sostanza.
Strizzate
d’occhio e gomitatine
Queste considerazioni valgono sia per la fase della campagna
elettorale vera e propria sia per quella in cui il partito
di Berlusconi ha governato. In effetti, non sembra che dal
punto di vista del tenore dei messaggi né da quello
del loro contenuto (o meglio, della sua assenza) si possano
registrare dei significativi cambiamenti tra prima e dopo
l’insediamento del governo. Come si dice, la campagna
elettorale, per Berlusconi, non è mai terminata; semmai,
ha guadagnato mezzi, soprattutto come conseguenza del controllo
sulle reti televisive statali, che ha consentito alla maggioranza
di governo in generale – e a Forza Italia in particolare
– di imprimere forza soverchiante alla propaganda attraverso
una radicale modifica del palinsesto.
Da un lato, infatti, sono state rimosse tutte le voci critiche:
i casi di Santoro, Biagi e Luttazzi sono i più noti,
ma lo stesso discorso vale anche per il bel RaiOt
di Sabina Guzzanti e per la soppressione dell’Elmo
di Scipio di Enrico Deaglio, un programma di approfondimento
che andava in onda in seconda serata su Rai 3, chiuso senza
colpo ferire (e nel disinteresse quasi totale dell’opposizione)
dopo una puntata dedicata alle infami giornate del G8 genovese.
Dall’altro lato, l’offerta culturale delle reti
Rai è andata progressivamente assottigliandosi, fino
a scomparire pressoché del tutto in favore di fiction,
reality show, varietà e film d’azione, oltretutto
di un livello spesso così infimo che alla nostalgia
per le convergenze parallele si aggiunge quella per Alberto
Lupo, per La Cittadella e per A come Andromeda.
I due aspetti, si badi, non sono indipendenti; sono anzi legati
con nodo stretto ed entrambi funzionali alla propaganda di
governo.
Tanto la critica quanto la cultura sono rimosse perché,
sia l’una che l’altra, presentano modelli alternativi
a quello che i consigliori di Berlusconi vanno pazientemente
imponendo. Se una trasmissione sulle violenze di Bolzaneto
stride con gli attestati di stima incondizionata che Buttiglione,
Fini, Castelli e Scajola (detto Sciaboletta) indirizzano alle
forze dell’ordine nei giorni immediatamente successivi
ai massacri, un documentario sulla musica barocca, per esempio,
fa addirittura a pugni con un servizio del telegiornale dove
il presidente del consiglio incita a gran voce una belloccia
candidata alle amministrative con un impagabile: “Dài,
Viviana: fagliela vedere!”, con tanto di strizzate d’occhio
e gomitatine a destra e a manca per chiarire che non c’è
doppio senso, ma soltanto uno. Il deserto di argomenti e la
profonda incultura, non solo politica, sui quali Forza Italia
si fonda – una caratteristica comune a ogni esperimento
populista – diventerebbero eclatanti se le stesse persone
alle quali la propaganda di Berlusconi si rivolge avessero
a disposizione un’offerta culturale, non dico variegata
e profonda ma perlomeno sufficiente.
Si potrà obiettare che ci sono le librerie e le edicole
(oltre che le biblioteche), dove l’offerta culturale
indubbiamente esiste, e dove è anche possibile incontrare
numerose voci critiche rispetto al mainstream governativo.
Questa obiezione, però, non tiene conto di quale sia
l’idealtipo di elettorato che la propaganda berlusconista
prende realmente di mira, cioè quello formato da persone
con la capacità critica di “bambini di seconda
media” che “per di più non siedono nemmeno
nei primi banchi”, come lo stesso “premier”
ebbe a dichiarare durante vari incontri con i suoi candidati.
Come ragazzini un po’ somari che siedono in terza o
quarta fila a leggere l’Intrepido mentre la professoressa
spiega il Leopardi, questi elettori che Berlusconi assume
come obiettivi da raggiungere si informano esclusivamente
dalla televisione, magari se nelle pause pubblicitarie dell’Isola
dei famosi incappano in qualche telegiornale, sono entrati
in libreria solo per fare un regalo per la comunione del figlio
di qualche conoscente (per quelli degli amici, il libro è
surclassato dalla racchetta da tennis o dal videogioco) e
in edicola ci vanno, tutti i giorni, per comprare il giornale
locale e la Gazzetta dello sport. Sembra, questo,
un punto chiaro nella strategia di Berlusconi, come in più
occasioni egli stesso puntualizzò: bisogna stare sempre
attenti a parlar semplice, dato che l’elettore ha l’intelligenza
media di un bambino di anni undici.
Ora, non è vero che tutti quelli che hanno votato Berlusconi
sono così, ma è vero però che il messaggio
pubblicitario del partito del “premier” è
orientato per catturare l’attenzione e le simpatie di
persone che corrispondono proprio a questo modello.
Dato il ruolo preponderante svolto dalla televisione nella
formazione della coscienza critica di queste persone, l’abbattimento
dell’offerta culturale televisiva svolge nei loro riguardi
la stessa funzione della censura delle voci dissenzienti:
se non vi sono argomenti, appare rassicurante chi non ne propone,
e barboso, inconcludente e sospetto diviene chi mostra di
averne. Viene così data voce al risentimento che il
tifoso del bar sport nutre verso l’avventore che prende
il caffè leggendo il giornale e non associandosi alla
diatriba su Del Piero, al muto disprezzo del rissoso per chi
non accetta la provocazione e mette a tacere il prossimo senza
parole grevi: questo modello, questo comportamento, sono diventati
fuori dal mondo.
“Se
solo avessi il 51% dei voti…”
Se, in passato, vittime di questa strategia a lungo termine
sono stati soprattutto gli avversari del centrosinistra, in
questi ultimi tempi anche gli alleati di governo ne fanno
le spese, e rischiano di vedersi azzannare dalla stessa tigre
che hanno cavalcato e nutrito per un decennio. Follini avanza
pesanti critiche alla leadership della coalizione? Bene, prima
Berlusconi lo definisce “una metastasi”, poi rilascia
un’intervista dove racconta una vecchia barzelletta
sui democristiani mangiatutto. Lega e AN litigano sulla c.d.
devolution? Lui lascia passare qualche giorno e, quando le
acque si sono calmate, dichiara ai giornali di aver lasciato
“che i ragazzi si sfogassero un po’”, così
che gli argomenti politici vengono zittiti dal vuoto argomentativo,
cioè dal nessun argomento che si è fatto discorso.
Del resto, come si è visto, la propaganda di Berlusconi
non è mai stata orientata a guadagnare voti dal centro
sinistra ma, al contrario, a prendere i voti delle persone
che avrebbero comunque votato a destra.
In questo frangente ciò si traduce nel fatto che, piuttosto
che a sottrarre elettori agli avversari, la strategia di Forza
Italia mira a sottrarli agli alleati. Sapendo che mai e poi
mai si potrà registrare un esodo significativo di voti
dal centrosinistra al centrodestra e, tantomeno, dal centrosinistra
a Forza Italia – ché forse qualcosina si potrebbe
muovere tra Margherita e UDC –, Berlusconi mira a raccattare
voti dagli altri partiti della CdL, che perciò divengono,
più che Prodi e le sue armate, rivali, dunque nemici
da combattere con la sola arma che Berlusconi possegga: la
mancanza di argomenti travisata in sfottò, dileggio,
sufficiente benevolenza. “Se solo avessi il 51 percento
dei voti, allora sì che saprei ben io cosa fare...”:
tutti i problemi, da quelli di politica internazionale a quelli
di chi, ci dicono le indagini di mercato, non può permettersi
di comprare il latte l’ultima settimana del mese, dipendono
dal fatto che Berlusconi è circondato da un branco
di coglioni, che bisogna sopportare solo perché altrimenti
la maggioranza la avrebbero i comunisti, e allora sarebbe
terrore, miseria e morte.
L’elettore che Berlusconi ha in mente quando inscena
questa propaganda, quindi, è una figura tutto sommato
abbastanza precisa. Collocato a destra più con la pancia
che con la ragione, non ha però una precisa preferenza
per nessuno dei partiti della Casa della Libertà.
Di bassa o bassissima cultura, si nutre della morale del risentimento
per mascherare il senso di inadeguatezza che avverte, a torto
o ragione, nei confronti di chi ne sa più di lui. Non
si intende di politica, prima di tutto perché non la
segue per il timore di non comprenderla, e accoglie perciò
con simpatia gli slogan facili perché, ripetendoli,
prova la sensazione di partecipare, anche lui, al dibattito
pubblico.
Per capirsi: se discutere di proporzionale e maggioritario
richiede qualche nozione di educazione civica che non tutti
posseggono, per dire che Bandiera Rossa (anzi, Avanti
popolo) è una “canzone di odio” basta
avere la lingua in bocca.
Il persistente leitmotiv delle “massaie”,
inoltre, fornisce di questo elettore anche una collocazione
geografica ed economica: Berlusconi, così sembra, ha
in mente famiglie di tipo tradizionale dove il marito lavora
e la moglie si occupa della casa e della spesa, un modello
famigliare oggigiorno diffuso prevalentemente nei piccoli
centri, nelle campagne.
Non a caso, il TG4 di Emilio Fede – il bollettino berlusconista
che più dà risonanza a ogni sortita del “premier”
– va in onda in un orario che cade a ridosso del momento
in cui, per tradizione e abitudine, nelle campagne e nei paesini
ci si siede a tavola e, cenando, si accende la televisione.
Il punto, infatti, che gli esperti di comunicazione di Forza
Italia hanno ben chiaro, è che, a scapito del fatto
che la scienza politica abbia definito un modello di democrazia
al cui centro sta il ruolo che elettori informati e consapevoli
svolgono nella vita pubblica, le cose non stanno nella realtà
esattamente così.
Infatti, tra gli elettori (o tra i potenziali tali) vi sono
migliaia, forse milioni di persone che le cose che Berlusconi
dice le hanno dette, o hanno sognato di dirle, per anni: che
“i politici” rubano gli stipendi, che per scrittori,
artisti e intellettuali ci vorrebbe un po’ di miniera,
“così lo vedono che cos’è la fatica”,
che chi non ha soldi non ha voglia di lavorare o, se lavora,
spende talmente tanto in stupidaggini che poi, per forza che
lo stipendio non gli basta; e poi tutta questa cultura che
serve soltanto a giustificare gli stipendi dei “professori”,
“mentre io lavoro da quando ho quattordici anni”,
e i giornalisti che pur di far notizia scriverebbero qualunque
cosa, o che vanno in Iraq a farsi rapire “tanto il riscatto
glielo paghiamo noi, coi soldi delle nostre tasse”.
Queste e altre considerazioni non vengono più soltanto
pensate o recitate a qualche malcapitato incontrato sul treno,
ma si possono sentire ogni giorno in televisione, e con toni
neppure troppo diversi. E non è uno qualunque a dirle,
ma il presidente del consiglio in persona che, finalmente,
dichiara a gran voce: le cose sono così come voi avete
sempre pensato; per di più, si possono dire proprio
con le stesse parole che usate voi. E così lo votano,
o lo rivotano.
Quei
livorosi qualunquisti
A meno che tutti i sondaggi siano stati fatti coi piedi –
il che è sempre possibile –, la Casa della Libertà
perderà le prossime elezioni politiche, nonostante
la legge elettorale da poco approvata potrà in qualche
misura mitigare la sua sconfitta.
Credo che questo, al di là delle dichiarazioni fiduciose
per onor di bandiera, gli esponenti dei partiti della CdL
lo abbiano ben presente. Il problema che essi adesso si trovano
ad affrontare, quindi, non è tanto quello – che
riguarderebbe l’intera coalizione – di cercare
di vincere le elezioni, quanto quello – particolare,
proprio di ogni singolo partito – di perdere meno degli
altri.
Da questo punto di vista, l’alleanza è già
sciolta, perché i diretti avversari di ciascuna formazione
politica che compone la CdL non sono da ricercarsi nello schieramento
di parte avversa, ma all’interno dell’attuale
maggioranza.
Della credibilità del governo, in definitiva, non importa
più niente a nessuno: ciascuno, anzi, ha interesse
a sottolineare che, se l’esperienza di questo lustro
è stata un disastro, ciò è accaduto per
l’insipienza o la malafede degli alleati, nonostante
il proprio partito abbia cercato in tutti i modi di farvi
fronte.
Si è visto che Berlusconi, questa corsa, l’ha
cominciata prima degli altri (“ah, se avessi il 51 percento...”),
e bisogna ammettere che è stato aiutato molto spesso
da quelle dichiarazioni dei suoi alleati che ribadivano in
lui “il solo leader possibile per la Casa della Libertà”,
conferendogli così il titolo di “Miglior fico
del bigoncio” da spendere alla prima occasione.
Soprattutto, però, Berlusconi ha cominciato fin dall’inizio
della sua avventura politica a fare tutto il possibile per
guadagnarsi la simpatia, se non la fiducia, di quella categoria
di elettori che prima ho descritto: i disinteressati e livorosi
qualunquisti che non si riconoscono in nessuno dei partiti
di entrambe le coalizioni, e che Berlusconi attira a sé
con il teatrino dell’antipolitica che, ogni giorno,
mette in scena.
Che poi le cose siano in realtà diverse, va da sé
– Berlusconi fa politica proprio come tutti gli altri
– ma l’importante è che non si dica, che
non sfugga detto cadesse il mondo. Non si dirà, per
esempio, “rimpasto di governo”, ma “registrazione
della squadra”, non “crisi” ma “verifica”,
non “candidature civetta” ma “candidatura
di bandiera” e così via: il qualunquista,
per definizione, non approfondisce; come si diceva una volta,
gli basta la parola.
La scenetta che immaginavo in questi anni, quindi, non è
verosimile come credevo. Anzi, sbagliavo del tutto. Se Fini
e compagnia cantante hanno capito il gioco per tempo, non
l’imbarazzo, ma l’apprensione è lo stato
d’animo appropriato di fronte alle quotidiane bestialità
che Berlusconi, giulivo, snocciola.
Che il governo recuperi credibilità, infatti, è
fuor di discussione: il consenso è in caduta libera,
e di recuperarlo non se ne parla nemmeno. Ma, se è
vero che molti elettori non voterebbero mai a sinistra, è
pur vero che costoro dispongono però di diverse opzioni
per dare il proprio voto a destra, così che l’esito
delle elezioni, oltre all’auspicata sonora sconfitta
dell’attuale maggioranza, potrebbe ridisegnare gli equilibri
interni alla Casa della Libertà fino al punto di farla
deflagrare.
Certi di non poter mai e poi mai deviare il voto di quegli
elettori che votano altri partiti della coalizione con convinzione
o consapevolezza, gli strateghi di Arcore hanno calibrato
la propaganda nella direzione che sappiamo, così da
riuscire a guadagnare nei tanti voti, a cuor leggero e mente
sgombra, che costituiscono una risorsa numericamente notevole
per ogni partito dell’arco costituzionale. Canis
reversus vomitum suum.
Per la Casa della Libertà, certo, questo è un
gioco a somma zero: quello che guadagna uno lo perde qualcun’altro,
e il totale non cambia. Ma la CdL, una volta chiaro che Berlusconi
al governo non ci andrà, non serve più a niente:
a questo punto, allora, è meglio sciogliere di fatto
l’alleanza e cercare di essere il partito di gran lunga
più votato dell’opposizione. Anche perché,
se la storia recente insegna qualcosa, da quella posizione
si può comunque recuperare o, male che vada, raggiungere
accordi vantaggiosi con chi governa. Che so, una bicamerale
o un patto di non aggressione sul conflitto di interessi,
tanto per fare qualche esempio di scuola.
E gli altri, intesi come gli antichi alleati? Gli altri si
arrangino. Del resto, la storia avrebbe dovuto insegnar loro
che Berlusconi avrà anche tutti i difetti del mondo,
ma certo non è un tram dal quale si possa salire e
scendere a piacimento.