“Un
uomo senza sogni è una specie di cinghiale laureato
in matematica pura”.
Così Fabrizio De André, lapidario e ironico,
rispose a una domanda di Vincenzo Mollica che lo interrogava
su una tipologia subumana che sta a un poeta come un prodotto
OGM a un’erboristeria.
Ma poiché un artista – un artista etico come
lo intendeva Faber – non vive solo entroflesso in un
chiuso intimismo solipsistico ma, al contrario, si espande
come un alato incursore critico in una visione globale del
proprio tempo storico-sociale sovente con veggenze profetiche
di stampo pasoliniano, chissà se allora l’autore
ligure si rese conto di aver espresso non solo un’opinione
soggettiva circoscritta ai rapporti interpersonali di corta
gittata ma, alzando il tiro, di aver centrato con una freccia
al curaro (che vola di bocca in bocca) il fenomeno collettivo
epocale che è la perdita del sogno, la sua disidratazione,
la sottrazione progressiva dei suoi addendi onirici e lirici,
la persecuzione programmata. Si dice che il sogno sia nato
con l’uomo eppure sono gli uomini a fare di tutto per
sopprimerlo fin nel suo embrione, questo sì dovrebbe
indignare i sostenitori del movimento per la vita, questo
sì è genocidio invisibile. Smascheriamo i cinghiali
e ci conteremo sulle dita. Forse tutto questo sta accadendo
su scala mondiale perché è il sogno la fonte
energetica alternativa che non costa niente, non produce ricchezza
tangibile e lucrosa alle multinazionali, non spinge nessuno
a diventare complice o paggio presso le loro caste e castelli.
E, ultima ipotesi, perché ci contagia della sindrome
di Spartacus, malattia genetica per fortuna senza vaccino
malgrado le sperimentazioni invasive che vanno dalle percosse
di tipo artigianale (vedi G8 di Genova), ad ampie strategie
transnazionali (vedi piazza Fontana), e infine approdano alla
più sottile e non meno feroce manipolazione mediatica
atta a creare una società di mutanti rimodellati da
un’encefalite letargica con diritto di voto pilotato.
In questa metamorfosi indotta dall’ipercapitalismo selvaggio
c’è un’asportazione ancora più profonda
e inquietante: il senso del sogno prima del sogno mirato.
Una procedura di disinnesco eseguita da artificieri di regime.
In un tempo relativamente lontano, prima il
movimento beat, poi il Sessantotto proponevano, con coinvolgente
aggregazione delle giovani generazioni, aspirazioni, rivendicazioni,
lotte condivise: la guerra nel Vietnam, il disarmo nucleare,
la condizione operaia, la riforma della cultura, la redistribuzione
dei beni secondo un’ottica socialista, l’aborto,
il divorzio, e via di questo passo all’insegna di una
ridisegnazione globale dei sistemi politici. Quello che invece
il nostro attuale sistema planetario vuole sradicare dall’individuo
è lo stadio precedente al sogno,il suo senso primordiale
come attività equiparabile alle altre funzioni biologiche,cioè
la pulsione e la propulsione che anima “l’uomo
sensibile” rispetto “all’uomo meccanico”
e che lo conduce alla speranza.
Ci stanno amputando la speranza sostituendola con protesi
deperibili nel tempo fatte di materiale illusionistico e drogante,
scambiando i soggetti per oggetti in un rapporto unidirezionale
di acquisto e vendita. Un mondo che si regge su queste basi
non può che implodere. Il sogno, scippato alla sua
radice, chiude lo scorcio sull’immaginario, deride la
chimera, e alla mancanza di alternativa reale di un progetto
d’insieme aggiunge la mancanza di un’alternativa
sognatrice individuale,quella che Rimbaud definiva “l’altra
vita”, un luogo esistente nell’altrove. Non ci
vogliono dare “l’altra vita”, dobbiamo forgiarla
come un manufatto.
Leò Ferré diceva: la felicità è
una rapina. Assaltiamo dunque la prigione dei sogni rinchiusi
nel braccio della morte e liberiamoli nell’auditorio
poetico delle strade. Il sogno, qualunque sogno, ci collega
direttamente e per via viscerale alla poesia (non si sa chi
dei due abbia generato l’altro) ma questa duplice soppressione
bio-culturale deferisce il potere, qualunque potere, a una
seconda Norimberga per rispondere di crimini contro l’umanità
e contro l’umanesimo. Un paese di apparenza democratica
dovrebbe almeno adempiere a tre elementi primari della vita
sociale: il lavoro, la sanità, la cultura. La cultura
oggi è sopportata con fastidio, come un’appendice
inutile, un dovere istituzionale ma non un diritto popolare.
La cultura autonoma e qualitativa vive di volontariato e martiri.
Un governo che concettualmente preferisce le palestre del
corpo alle palestre della mente persegue un fine di asservimento
attraverso l’ignoranza d’allevamento che troppo
spesso, alla fine, bussa alla sua porta per essere assunta
a tempo indeterminato, unico contratto non flessibile che
fa comodo. Non far sì che cliccando l’icona dell’utopia
debba aprirsi ancora una volta quella finestra del quarto
piano dalla quale potresti volare spinto da un “malore
attivo” ma soprattutto da un hacker statale di buona
volontà. Quell’hacker cancellerà te e
la finestra.
Leò
Ferré
Arma
di ricostruzione di massa
La traccia, a dispetto di tutti, la lasceranno i poeti, quelli
si amati dalla gente, e ci restituiranno il sogno e i suoi
derivati. Il potere non crede che la poesia è l’arma
di ricostruzione di massa negli arsenali del sogno, carichi
d’amore micidiale, perché il canto è l’esperanto
dei popoli che si identificano in un comune sentire, in un
solo destino di autodeterminazione, in quel linguaggio sotterraneo
che sostituisce la lingua codificata entro i confini in un
vasto processo di anelito in espansione e se il sogno è
un luogo invisibile, oggi ancor più occultato, ci sarà
pure da qualche parte, magari imbavagliato, mimetizzato, in
ostaggio, con l’orecchio mozzato. Ma sarà sempre
l’orecchio di Van Gogh piuttosto che quello di Getty.
L’origine più remota, arcaica, della poesia,
è cantata, unita alla musica e alla voce, in un rapporto
gemellare tra parola e suono. Una poesia a tutti appartenente,
interpretata e divulgata all’aperto e che va dal canto
epico a quello elegiaco, dalla satira giullaresca ai cantastorie
di strada, giù, giù, fino ai più recenti
canti di lavoro e di lotta. Ma nel corso dei secoli questo
cordone ombelicale è stato reciso, forse dall’avvento
della carta stampata, sicuramente dagli accademici più
ottusi e retrivi di ceppo catto-borghese che hanno sostenuto
solo la musica colta ritenendo quella popolare, frivola e
incatalogabile ai criteri di merito e di qualità all’interno
delle sue molteplici diversificazioni e livelli creativi.
Questa frattura, non più risaldata, è come una
linea di terra spaccata da un terremoto quando le due incrostazioni
si separano.
La spaccatura ha provocato un assesto classista delle discipline
artistiche dividendole in compartimenti stagni e incomunicanti
tra loro. La cultura ufficiale dispiega le sue forze critiche
in senso euclideo.
La stessa poesia letteraria, in questi ultimi vent’anni,
ha perso la sua carica eversiva, la sua etica situazionista,
l’indignazione civile, la pulsione utopica, e soprattutto
non ha più rispecchiato l’anima di un popolo
e le sue vicende, ritirandosi aristocraticamente in astrattismi
ermetici e enigmatici nella forma e nel contenuto, e disgiungendosi
così dal contesto sociale che la scavalcava in attesa
di una nuova genia di aedi.
I cantautori, grandi poeti del nostro tempo, hanno riconquistato
il posto vacante, la piazza, il racconto orale cantato, hanno
colmato un bisogno onirico multigenerazionale, hanno riconfigurato,
interpretandolo, l’immaginario collettivo. E, forse
senza saperlo, hanno riportato tra le folle un dimenticato
senso di fraternità. Per contrastare l’embargo
del sogno, dobbiamo andare in vacanza premio su due isole
salvifiche, vere beauty-farm dell’anima a prezzo politico
che resistono ai marosi del cretinismo nazional-popolare:
la Rassegna del Tenco e il Festival Ferré. Manifestazioni
contrassegnate dall’autodeterminazione, dal volontariato,
e dall’assoluta indipendenza dal mercato discografico.
Quest’anno il Tenco ha festeggiato il 30° e per
il sottoscritto da poco entrato in quella comunità
che in tre giorni (e tre notti) ti disintossica dagli avvelenamenti
mediatici quotidiani, dalla bassa qualità umanistica
del presente epocale, dalla disgregazione alienante di una
solitudine collettiva, è stata un’avventura di
viaggio, un safari nella canzone d’autore internazionale
attraverso mostre e documenti che narrano la storia di un
miracolo laico, di un’ottica nuova nel modo di far cultura,
dell’armonia ancora insita in una dimensione tribale.
Ecco dunque sfilarmi davanti la magica mestizia di De André,
la furia anarchica di Ferré, l’intimismo commovente
di Paoli, il Canzoniere plurigenerazionale di Guccini il Grande,
la nobile delicatezza di Endrigo, il romanticismo incompreso
di Bindi, l’asciutta disperazione esistenziale di Ciampi,
l’anima insurrezionale e dolente di Mercedes Sosa, l’inedito
stupefacente Virgilio Savona, l’eroica e discreta Giovanna
Marini, l’impeto dirompente della libertaria Gianna
Nannini, il pentagramma per arpa e sogno di Roberto Vecchioni,
lo zanni post-moderno Giorgio Gaber, l’immaginario anomalo
tra arcaismo e futuribile di Franco Battiato, e l’estremo
saluto di Charles Trenet. Senza dimenticare il compagno perduto
che da il suo nome all’evento annuale, senza dimenticare
il più pavesiano tra gli autori-interpreti che voltando
pagina ha scritto il nuovo capitolo della poesia in musica
in Italia: Luigi Tenco, l’insostituibile. Questi e altri
innumerevoli artisti li si ritrovano nel libro edito dalla
Rizzoli e curato da Enrico de Angelis, massimo saggista italiano
della canzone d’autore, Quelle facce un po’ così...
veri ritratti, colti nell’istante più significativo
di un’interpretazione, dal cuore ottico di Roberto Coggiola,
in bilico tra impressionismo e espressionismo in un assolo
d’immagini d’una classicità figurativa
che pare scolpita su lastre di marmo.
Unito al volume c’è un cd registrato dal vivo
che contiene brani cantati da G. Paoli, R. Vecchioni, F. Guccini,
E. Jannacci, A. Branduardi, B. Lauzi, G. Conte, O. Vanoni.
All’interno è possibile ripercorrere la storia
e lo spirito del Tenco attraverso i testi di Enrico de Angelis,
Riccardo Bertoncelli, Michele Serra, Vincenzo Mollica, Sergio
Secondiano Sacchi, Antonio Silva, Roberto Vecchioni. Il libro
si apre con una dedica al fondatore del Tenco, l’indimenticabile
Amilcare Rambaldi, vero partigiano del sogno.
Luigi
Tenco (grazie per la foto a Enrico De Angelis)
Ogni autore con il proprio intervento lo ricorda secondo
una sensibilità personale ma comune a tutti è
l’afflato di gratitudine, la devozione inalterata, la
fedeltà ai suoi criteri di scelta. Inoltre è
da ricordare come la Rassegna abbia costantemente promosso
gruppi e cantautori esordienti o in sala d’attesa che
altrove non avrebbero goduto di una vetrina così attenta
e solidale. Ultimi esempi: i raffinati Têtes de Bois
e il nostro intenso Alessio Lega. Certo, le tre serate celebrative
hanno offerto le performance di alcuni giganti della poesia
cantata: Guccini, Vecchioni, Conte oltre ad ospiti di grande
valore che hanno completato questa edizione ma voglio sottolineare
anche, al di fuori dei recital, l’iniziativa degli incontri
mattutini con interpreti, autori, saggisti. Su tutti quest’anno
svetta l’acclamata partecipazione di Fernanda Pivano,
traduttrice e saggista antiaccademica (spesso osteggiata in
suolo patrio) che prima di chiunque altro amò e divulgò
in Italia i protagonisti della gloriosa, immortale epopea
beat, quei Kerouac, Ginsberg, Corso, Ferlinghetti e tanti
altri che sempre batteranno nel nostro cuore. Nanda poi ha
presentato il documentario A farewell to beat di
Luca Facchini, pura poesia “on the road” con lei
sulle tombe degli amici perduti. Se questo film si proiettasse
nelle scuole l’approccio alla poesia da parte dei giovani
sarebbe diverso.
Bisogna proporlo alla Moratti. Quando di sera, sul palco dell’Ariston,
Nanda è stata premiata, il pubblico, tutto in piedi,
le ha decretato un’autentica “standing ovation”
di grande commozione. Il suo rapporto d’amore con i
poeti in musica è notorio. Fabrizio De André,
Bob Dylan, Lou Reed, e altri ancora sono passati per il suo
pentagramma lessicale. I miei amici cantautori è infatti
il titolo del suo ultimo libro. Ma, per concludere, il Tenco
è anche il modo di stare insieme dopo i concerti quando
tutti si sale a cena ai piani superiori dove la notte si snoda
intrecciando nuove conoscenze,ritorni inaspettati, confidenze
alcoliche, sfoghi esistenziali, comprensioni istintive, sintonie
critiche. Èallora che ricordo quando con Faber si parlava
delle microcomunità indiane dove la frantumazione dei
piccoli numeri che formavano la tribù forse ci segnalano
l’unico modo possibile di una maggior armonia socio-esistenziale
in seno al consorzio umano. Un po’ come in quelle notti
al Tenco, non lontano dalla riserva di Pine Ridge. Tutto sta
a uscire dalla riserva e fare del sogno una nuova Little Big
Horn.
Nella cartolina
augurale per il 2006 realizzata dalla vedova di Leo Ferré,
Maria, è riportata (illeggibile nella nostra riproduzione)
la seguente frase di Leo: L’anarchia è una malattia
rara, chi ce l’ha se la tiene volentieri
(foto Hubert
Graoteclas)
Un
mare diverso
Dunque, da questo mar ligure, così a lungo osservato
in silenzio da Bindi per scrivere Io e il mare, da
Paoli per farne una perla con Sassi, da De André
per allargarlo a lidi lontani con Creuza de mä,
da Tenco per navigarlo con gli occhi con Un giorno dopo
l’altro, ecco che quella nave che sembra un punto
lontano giunge a un mare diverso, dall’altra parte della
sponda italica, nelle Marche, nel segno di un comune sguardo
poetico.
Un mare amniotico che crea fraternità lirica come La
mémoire et la mer à l’île du
Guesclin in Bretagna... Leò... Leò... Leò...
Storia più recente ma parallela alla Rassegna di Sanremo
per spirito, intenti, passione, e scelte propositive è
il Festival Ferré che da 11 anni onora e dispiega la
figura geniale e irripetibile del poeta, compositore, interprete,
romanziere, saggista, filosofo anarchico, direttore d’orchestra
di risonanza millenaria Leo Ferré. Innovatore radicale,
provocatore viscerale, padre punto sorgivo di tutti i cantautori
(e lo conoscono in pochi qui da noi) fondando la chanson di
Saint Germain segnò in Europa il ritorno della poesia
in musica elevando la canzone ai massimi livelli di raffinata
nobiltà creativa. Inoltre (sempre lo ricordo) realizzò
un progetto ritenuto impossibile: musicare e cantare i poeti
“maledetti” Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e altri
ancora come Aragon, Apollinaire, Angiolieri, Baër, Caussimon,
Villon, e il nostro adorato Pavese. A San Benedetto del Tronto
un professore di francese, amico del Maestro, Giuseppe Gennari,
portatore sano di una follia altrettanto benefica e rigeneratrice,
organizza tra difficoltà e fatiche inenarrabili e scandalose
l’unica rassegna di canzone d’autore che predilige
e intensifica la conoscenza dell’asse poetico-musicale
italo-francese, in un interscambio culturale che difende l’identità
europea (quando l’Europa non era un “kamikaze”del
capitalismo americano. Gennari, sostenuto da uno sparuto gruppuscolo
di assaltatori del sogno (Gino Troli, Maurizio Silvestri,
Pierluigi Gennari) ha portato nella sua terra poco attenta
e dal punto di vista delle autorità istituzionali,
ingenerosa o apertamente ostile, la proiezione astrale della
Parigi storica, quella degli chansonniers, dei bistrots, degli
amori notturni e delle notturne barricate di maggio. L’immaginazione
al potere? Sì, certo, domani mattina. L’altra
vita? Sì, certo, qui e subito. La musica nelle strade?
Sì, certo, per sempre e con tutti. È un mago
Gennari? Sì, è un mago. Ma deve fare attenzione,
il potere oggi ha il prurito agli accendini come l’Inquisizione
con Giordano Bruno. Noi però abbiamo la sindrome di
Spartacus in questa stagione di Basso Impero.
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Nel frattempo dal suo cappello conico intarsiato di stelline
azzurre continua a far scendere: sul palcoscenico del teatro
Calabresi una pioggia di stelle di prima grandezza: Juliette
Greco, Georges Moustaki, Jean Ferrat, Paco Ibanez, Dee Dee
Bridgwater, Jane Birkin, Ann Gaytan, Reneé Claude,
Nicolas Reggiani, Isabelle Aubret. Anche un Guccini “voce
recitante” e non “cantante” che legge Les
anarchistes e altri testi di Leo suscitando un entusiasmo
pari ai suoi concerti. D’altra parte Francesco mostra
sempre di più la sua appartenenza al mondo della parola
attraverso i suoi bei libri,una specie di “recherche”
contemporanea che a noi della sua generazione coinvolge con
particolare emozione. Un altro episodio riguarda Gino Paoli
e fa luce definitiva sulla sua toccante umanità a volte
ancora in penombra come giustamente da discrezione caratteriale.
Era l’anno in cui doveva venire al Festival Umberto
Bindi a ritirare la targa Ferré e a esibirsi nel recital
istituzionale dei premiati. Bindi muore cinque giorni prima
e, oltre al dolore per una perdita così preziosa, il
Festival cade nel caos.
Incontro Gino, casualmente, in un autogrill delle Marche mentre
sto dirigendomi a San Benedetto e gli racconto la situazione
in cui ci troviamo. Senza esitare un istante, mi dice: “Vengo
io a cantare le canzoni di Umberto, ma non annunciatelo al
pubblico, aprite il sipario e basta”. La sera canta
Arrivederci e Il nostro concerto. Un’apoteosi.
Non solo è salvo il Festival, ma è il primo
omaggio di un amico vero al grande compositore da poco scomparso.
Questo è Gino e chi lo conosce ne rimane legato come
ad un’ancora affettiva. Perché tutto questo è
la fraternità del Ferré, del Tenco e di coloro
che vivono dentro a dimensioni che ruotano intorno al sogno
ritrovato. Poi anche noi abbiamo il nostro “dopocena”
che si svolge nella parte vecchia di San Benedetto, al “Caffè
dei poeti”, fino all’alba. Altra microcomunità
a confronto: cheyenne e apache non vendono Madre Terra e,
soprattutto, non tradiscono il sogno perché –
come gridava Ferré – “Alla scuola della
poesia e della musica non s’impara: ci si batte!”.