Sono trascorsi solo
due mesi dal cinque di novembre, il giorno della fiaccolata
contro l’occupazione militare della frazione Urbiano
di Mompantero. Due mesi molto lunghi, come sanno esser lunghi
i tempi quando, all’improvviso, tutto va più
in fretta e il quotidiano, normalmente misurato da chi decide
per tutti e a tutti impone la giornata scandita secondo i
ritmi del lavoro, della produzione e del consumo, si spezza
per far posto al tempo della lotta e della libertà.
Capita di rado, ma capita.
La cronaca di quella fiaccolata chiudeva su questa rivista
il racconto degli ultimi mesi della lotta contro il Tav in
Val Susa. Già allora l’addensarsi degli avvenimenti
rendeva difficile districare la descrizione degli eventi,
necessariamente di parte, dall’analisi della complessa
partita tra la lobby tavista e alcune decine di migliaia di
uomini, donne e bambini decisi a non mollare.
Da allora di acqua sotto i ponti della Dora ne è passata
tanta.
La Val Susa, un nome che per la maggior parte degli italiani
era mera e vaga indicazione geografica, è divenuta
un caso nazionale, occupando le prime pagine dei giornali
e aggiudicandosi un posto di rilievo nei telegiornali e sui
rotocalchi.
Lo sciopero generale
Lo sciopero generale del 16 novembre, proclamato nei giorni
immediatamente successivi all’occupazione dei terreni
di Mompantero, in località Seghino, ha coinvolto l’intera
valle, nonostante il giorno precedente la Commissione di garanzia
lo avesse dichiarato illegale, intimando alla Cub, il sindacato
di base che lo aveva proclamato, di revocarlo. Ma le norme
antisciopero poco potevano contro la volontà di costruire
un’iniziativa di lotta che, bloccando per un’intera
giornata la Valle, rendesse evidente la coralità di
un’opposizione che non si è lasciata intimorire
neppure dalla polizia e dalle continue minacce del Ministero
dell’Interno, che a intervalli regolari ha continuato
ad invocare scenari di violenza e distruzione per la presenza
di pericolosi anarchici infiltrati in valle. Una vecchia tattica,
quella di mettere in difficoltà un movimento in crescita,
tentando di creare una divisione tra i buoni, quelli della
protesta democratica e i cattivi, gli anarchici violenti,
il babau da sbandierare in ogni occasione. Una tattica che
sinora non ha dato frutti, anche perché in Val Susa
tanta gente ha imparato a toccare le cose con le proprie mani,
ad andare al cuore delle questioni, a non farsi abbindolare
dalla chiacchiere del Ministro di turno. Sia questo il Lunardi
degli “affari di famiglia” o il Pisanu con l’ossessione
degli anarchici.
Quel 16 novembre tutta la Valle si è fermata: solo
i treni passavano e, rallentando al massimo nei punti in cui
la ferrovia corre parallela e vicina alla strada, i macchinisti
fischiavano a lungo mentre dai finestrini i passeggeri salutavano
a pugno chiuso e sventolando bandiere No-Tav. Tutte le fabbriche
della valle (5.000 addetti), tutti gli esercizi commerciali,
compresi bar e distributori, tutte le scuole, uffici postali,
banche, officine artigiane, allevamenti, erano chiusi. Sulle
porte dei negozi bandiere e cartelli No-Tav e la scritta:
“Per una valle viva, oggi sciopero: No Tav”.
Lungo le strade della Valle i cartelli, gli striscioni, le
bandiere erano dappertutto. Significativa la volontà
di respingere al mittente le provocazioni di Pisanu e di Lunardi.
Numerosi i cartelli ironici in cui si stigmatizzava la frase
del ministro sui “pelandroni” della Val Susa che
perdono tempo a manifestare e quelli contro il tentativo di
criminalizzare la lotta in Valle.
Non si contavano gli striscioni contro l’occupazione
militare, contro l’imposizione violenta della trivella
a Seghino di Mompantero entrata provocatoriamente in funzione
il giorno prima dello sciopero generale.
Andata letteralmente a ruba la lettera aperta al Presidente
della Comunità montana Bassa Val Susa, Antonio Ferrentino,
diffusa dalla FAI torinese in migliaia di copie alla manifestazione.
Nella lettera veniva denunciata l’esplicita criminalizzazione
degli anarchici da parte di Ferrentino che, in un’intervista
al quotidiano “La Stampa”, aveva insinuato che
dietro al pacco contenente esplosivo fatto rinvenire sulla
statale del Moncenisio e i proiettili inviati alla governatore
Mercedes Bresso, non ci potessero essere che gli anarchici,
gli stessi che si erano permessi di criticare pubblicamente
le scelte di chi, come lui, si era prodigato nella ricerca
di improbabili scorciatoie istituzionali. Di fatto la criminalizzazione
degli anarchici è il preludio al tentativo di criminalizzare
le forme più radicali di resistenza al TAV della popolazione.
Non a caso Ferrentino ha provato a contrapporre lo sciopero
ai blocchi dei cantieri, delle strade e della ferrovia. In
questo modo ha, nei fatti, condannato le pratiche che avevano
sino ad allora consentito di tenere fuori dalla valle il TAV.
Ferrentino gioca in valle un ruolo ambiguo: un giorno capopopolo
in versione Marcos della Bassa Val Susa, un altro giorno uomo
d’ordine. Un ruolo che negli anni è riuscito
sempre a reggere, restando abilmente in bilico tra le poltrone
istituzionali e le piazze, ma che oggi, di fronte a scelte
sempre più difficili, fa fatica a mantenere. In questi
mesi abbiamo altresì assistito al crescere del ruolo
delle assemblee popolari. Durante l’estate parevano
del tutto allineate alle mosse delle istituzioni della valle
e in quest’autunno di lotta sono divenute le vere protagoniste
politiche di quella che oggi è senz’altro un’esperienza
di partecipazione diretta popolare dalla spiccata attitudine
libertaria.
Il campo No Tav di Venaus
L’accelerazione repressiva voluta da Pisanu con l’occupazione
militare del territorio di Mompantero si fa più düra
sui terreni di Venaus, che CMC, la cooperativa “rossa”
con l’appalto per i lavori del tunnel di servizio di
10 chilometri, preludio alle due canne di 54 Km tra Venaus
e S. Jean de Maurienne, annuncia di voler espropriare il 30
novembre. Per ben due volte CMC aveva provato a prendere possesso
dei terreni e aveva dovuto desistere di fronte alle migliaia
di persone che avevano infoltito il presidio permanente che,
dal 4 giugno, teneva sotto osservazione la zona.
Pisanu questa volta gioca d’anticipo ed manda un paio
di giorni prima le sue truppe ad occupare i terreni di Venaus,
bloccando l’accesso al paese con check point piazzati
al bivio “passeggeri” tra la statale 25 del Moncenisio
e la provinciale per Venaus. Dopo una giornata di tensione
il ministro di polizia è obbligato a far recedere i
suoi uomini che si asserragliano all’interno dell’area
dei cantieri ex Sitaf, poi AEM. Nella notte tra il 29 e il
30 novembre una folla di uomini donne bambini, nonostante
la neve ed il freddo, si raccolgono a Venaus. Intorno al cantiere
nasce un vero accampamento No Tav che circonda la polizia
che, a sua volta blocca tutti gli accessi al paese alle auto
dei non residenti. Per giorni e giorni i valsusini e i tanti
solidali che accorrono da ogni dove si danno il cambio intorno
alle quattro barricate che circondano il campo No Tav. È
un’esperienza straordinaria di solidarietà e
cooperazione. Forse Pisanu riteneva che l’inverno avrebbe
avuto la meglio.
Ma si sbagliava. La solidarietà concreta dei tanti
che si sono dati turno al presidio, hanno portato legna e
cibo ha consentito di superare le durezze dell’inverno
in montagna. Decine di tende sono state piantate in mezzo
alla neve caduta copiosa, mentre in tanti si susseguivano
a cucinare e distribuire pasti e bevande calde.
Dopo una settimana la resistenza anziché scemare si
è rinsaldata. A questo punto il governo ha deciso che
la parola passasse ai manganelli.
L’assalto della polizia
Sono arrivati di notte. Con le ruspe, i randelli d’ordinanza
e la furia delle truppe di occupazione con l’ordine
di colpire. Il vicequestore Sanna prima dell’assalto
ad una delle barricate di Venaus ha gridato “uccideteli!”.
Gambe rotte, teste spaccate, un anziano grave per i colpi
ricevuti all’addome, un ragazzo ricoverato per trauma
cranico. Il presidio di Venaus è stato spazzato via
nella notte tra il 5 e il 6 dicembre.
“Ero sulla barricata a valle, quella grande verso Susa.
Erano circa le tre e mezza di notte quando sono arrivati con
una ruspa. Prima hanno colpito sulla destra e poi con più
decisione sull’altro lato, incuranti delle persone che
si trovavano lì”. Comincia così la testimonianza
di Mario che la notte del 5 dicembre si trovava a Venaus.
“In poco tempo hanno buttato giù la barricata.
Poi hanno cominciato ad avanzare, caricando. Noi a mani nude
e loro giù con i manganelli a picchiare e picchiare.
Siamo riusciti ad arretrare senza correre ma è stata
dura fare i cinquecento metri che ci separavano dalle tende
e dalla baracca cucina, dove contavamo di unirci agli altri
che presidiavano la seconda barricata sulla strada. Quando
arriviamo troviamo le tende divelte, la baracca devastata:
la polizia ha agito a tenaglia attaccando da tre lati. La
situazione è durissima: ci sono due persone ferite
a terra prive di sensi e la polizia impedisce l’arrivo
delle ambulanze. Ci spingono a lato come bestiame: approfitto
della confusione e mi butto per i campi e di lì raggiungo
Venaus. Dalla strada da Giaglione, l’unica aperta, arrivano
tanti valligiani e insieme si torna ad affrontare la polizia.
La tensione è altissima ma il confronto tra gente disarmata
e i robocop in divisa è impari: volano altre mazzate.
Mi sa che quelli che il giorno prima offrivano il the ai poliziotti
oggi non lo faranno più”.
Ancora una volta il ministro ed i tutori del disordine statale
hanno fatto i conti senza l’oste. L’oste, in questo
caso la popolazione dell’intera valle, ha sopportato
per oltre un mese l’occupazione militare di Urbiano
e di Venaus. La militarizzazione del territorio, i continui
controlli, l’arroganza della polizia hanno avuto degno
coronamento con l’attacco notturno al presidio, con
la ferocia delle squadre antisommossa, con la disinvoltura
con la quale il ministro dell’interno Pisanu ha affermato
che la polizia non aveva caricato. E questo nonostante tra
i feriti delle non-cariche vi siano stati giornalisti e fotografi,
nonostante le numerose testimonianze, nonostante le urla che
ho sentito al telefono nella notte del 5 novembre quando è
arrivata la notizia dell’attacco.
Ai manganelli di Pisanu fanno da corollario i maggiori organi
di disinformazione al servizio della lobby tavista. L’indecente
campagna mediatica che da mesi tenta di costruire un clima
di allarme intorno alla lotta della Val Susa diviene sempre
più dura nei giorni precedenti l’attacco a Venaus.
Pisanu si lascia andare all’ennesima dichiarazione contro
il rischio di “infiltrazioni” violente dei soliti
anarchici.
Sul Corsera di sabato 3 dicembre si descrivevano i poliziotti
di stanza a Venaus come ostaggi di manifestanti ostili e violenti.
Una falsità sfacciata che faceva a pugni con la realtà
di una protesta che, persino di fronte all’occupazione
militare, è rimasta del tutto pacifica.
Il persistente tentativo di criminalizzare i valsusini è
il segno della profonda difficoltà che il governo di
Roma e quello di Torino hanno nell’affrontare la singolare
congiunzione tra modalità organizzative orizzontali,
lucidità sugli obiettivi, profondo radicamento sociale
e scelta di modalità di lotta non violente ma assolutamente
radicali, non riassorbibili nell’alveo delle compatibilità
politiche. La violenza esercitata a Venaus nella notte del
5 dicembre resterà impressa in modo indelebile nella
memoria della gente della valle, che sin dalle prime ore dei
6 dicembre ha dato vita ad una vera e propria rivolta.
La rivolta
Il 6 dicembre alcuni compagni di ritorno da Bussoleno dopo
un pomeriggio trascorso in valle dicevano che vi si respirava
“un piacevole clima insurrezionale. Ovunque c’erano
blocchi fatti con tronchi segati e masserizie” Al diffondersi
rapido delle notizie sulla mattanza in corso in Val Cenischia
sono iniziati gli scioperi spontanei nelle fabbriche della
Valle e in quelle dei paesi della gronda Ovest di Torino.
Molti negozi hanno chiuso esponendo cartelli contro il Tav
e la militarizzazione e così le scuole elementari dove
i genitori hanno ritirato i figli e quelle superiori dove
i ragazzi sono scesi in strada.
In breve tutte le strade che da Torino risalgono la valle
in direzione del confine francese sono state bloccate dai
manifestanti. In tremila hanno eretto barricate sull’autostrada
32 del Frejus, mentre per chilometri e chilometri si allungavano
le file dei tir in coda.
A Bussoleno una colonna di camionette della polizia che tentava
di aggirare i blocchi passando per vie laterali è stata
bloccata da una densa folla di manifestanti e solo l’ennesima
mediazione di sindaci e preti ha consentito ai mezzi di andarsene.
La Ferrovia internazionale è stata bloccata ad Avigliana
sin dalla mattinata da persone che si sono date il cambio
per l’intera giornata. Allo slogan dei giorni precedenti,
“Resistere per esistere”, si affianca il motivo
conduttore della lotta, pronunciato in dialetto e gridato
da tutti a più riprese “Sara düra!”.
La protesta si è estesa anche a Torino, dove per l’intera
giornata del 6 gennaio si sono susseguite manifestazioni spontanee
e blocchi ferroviari, che hanno coinvolto migliaia di persone.
La “riconquista”
di Venaus
L’8 dicembre è giornata festiva: dopo due giorni
di rivolta e blocchi stradali e ferroviari le strade sono
libere. Sin dalla serata del 6 dicembre l’assemblea
della valle, riunitasi a Bussoleno aveva deciso che quel giorno
sarebbe partita una marcia con destinazione i terreni occupati
di Venaus.
Riporto di seguito la cronaca che buttai giù dopo quella
memorabile giornata.
“Susa prime ore del mattino. L’aria è frizzante
ma non nevica ancora. L’autostrada è più
trafficata del solito, ma non di turisti, sebbene tutti, arrivando
a Susa, mettano scarponi ai piedi e si coprano come per una
gita invernale. Quando si arriva la marcia è già
partita, di buon passo verso Venaus su per i curvoni della
statale 25. È il popolo No Tav, è la gente della
Val Susa e i tanti che sono accorsi solidalmente da fuori.
C’è gente di tutte le età e decine di
bambini anche piccolissimi, a piedi o in carrozzella: sembra
quasi una passeggiata, ma tutti sanno che non lo sarà.
Tre notti prima la furia della polizia si era scatenata sull’accampamento
No Tav, ferendo i corpi di tanta gente e calpestando la dignità
di tutti. Una bava di vento porta acre l’odore dei lacrimogeni:
la polizia ha caricato su ai Passeggeri, il bivio da cui si
dipana la provinciale per Venaus, che ormai da settimane solo
i residenti e gli uomini in divisa possono imboccare. Incontro
un conoscente, uno che lavora dalle mie parti ed incontro
spesso al bar. È un uomo non più giovane dall’aspetto
mite: appare trafelato. “Ce le hanno date, quante ce
ne hanno date. Ci hanno incartati ben bene” E mostra
la mano gonfia. Quando arriviamo al bivio vediamo gli sbirri
schierati. Il corteo va avanti su per la statale oltrepassando
il blocco di polizia mentre comincia a nevicare fitto fitto.
La polizia lascia fare: probabilmente pensano che ci accontenteremo
di occupare l’autostrada che ha l’ingresso poco
sopra. In breve l’autostrada viene bloccata ma il grosso
del corteo va ancora avanti sulla statale.
Il fiato mi si fa corto corto. Un giovane accanto a me si
carica in spalla il bambino più piccolo e ci sono anziani
che passano lesti in avanti: mi vergogno un po’ della
mia debolezza. Si arriva poi su un sentiero largo ma pieno
di neve, ghiaccio e fango e si comincia a scendere la montagna.
Altri imboccheranno una strada che passa più in alto,
altri ancora aggirano i birri passando per le case e superando
il costone roccioso ai Passeggeri.
Tutta la montagna si riempie di gente che lenta cala giù.
Alla partenza da Susa, secondo le stime dei contafile da corteo
saremo stati 50.000. È un fiume umano quello che scende
la montagna.
Come indiani abbiamo aggirato la polizia: li vediamo dall’alto
schierarsi. Una signora accanto a me porta la mano alla bocca
e lancia il grido di guerra: un attimo e tutta la montagna
risuona. Qualcuno intona Bella Ciao e tutti si sentono come
partigiani.
Non avverto più la stanchezza. Arriviamo all’area
occupata dai birri, il posto dove vogliono impiantare il cantiere:
vedo un nugolo di persone che abbattono le recinzioni e invadono
l’area. Pare che poco prima i carabinieri abbiano sparato
dei lacrimogeni e poi se la siano data a gambe. Mentre ancora
in fondo al cantiere c’è movimento in molti guadagnano
un sasso e scartano i panini.
Venaus è stata liberata ed è ora di mangiare.
Come sempre in tanti anni che vengo in valle mi stupisco di
tanta pacatezza.”
Migliaia e migliaia di persone che pacificamente si riprendono
le loro vite violate dalla violenza dello stato: una cosa
da far paura.
Tanta paura. Al punto che il giorno dopo la ripresa di Venaus
la politica, quella dei palazzi e delle poltrone dorate, si
è messa in moto convocando a Roma, nel bel mezzo del
ponte dell’immacolata, i sindaci della valle ribelle.
Sul tavolo il governo ha gettato una proposta che nei fatti
sancisce la volontà di siglare una tregua, mettendosi
al riparo dal rischio di una manifestazione oceanica per le
strade di Torino e dalla minaccia di boicottaggio delle Olimpiadi.
Dove avevano fallito i manganelli e l’occupazione militare
paiono riuscire gli artifizi della politica: il giorno successivo
i sindaci, che pure non avevano firmato l’accordo, decidono
di rinunciare alla manifestazione prevista per il 17 a Torino,
limitandosi a promuovere una kermesse culturale. Nel pomeriggio
un’assemblea di centinaia di persone rigetta la proposta-truffa
del governo e a gran maggioranza richiede la conferma della
manifestazione. Di fronte al no dei sindaci e, in particolare,
di Antonio Ferrentino, il giorno successivo un’affollata
assemblea convocata dai comitati No Tav proclama la manifestazione
del 17 a Torino, scegliendo, per estrema volontà di
mantenere unite le varie anime del movimento, di far convergere
il corteo con l’iniziativa dei sindaci.
Il movimento da prova di straordinaria maturità rifiutando
ogni mediazione e facendo propria, autorganizzandola, la manifestazione
di Torino del 17 dicembre.
Sono scelte per nulla scontate che segnano un salto di qualità
nella storia della lotta contro il Tav in Valsusa: la gente,
come più volte ribadito nelle assemblee della settimane
successive, è consapevole ed orgogliosa della propria
capacità di autorappresentarsi. In quei giorni la pressione
dei media impegnati in una campagna diffamatoria sempre più
violenta e quella della magistratura che annuncia arresti
e sequestra i terreni di Venaus affidandone la custodia nientedimeno
che al General contractor del Tav, la società LTF,
nonché la volontà di Ferrentino di mettere in
campo il peso di una leadership di tipo carismatico sin’allora
quasi indiscussa avrebbero potuto indurre i meno intrepidi
ed autonomi a scegliere di accettare la tregua elettorale
voluta dal governo e dall’opposizione. Invece no. Le
assemblee del 9 e del 10 confermano che la gente è
decisa ad andare avanti. Con o senza i sindaci.
La manifestazione di Torino
Il 17 dicembre a Torino sfilano decine di migliaia di persone:
chi dice 50, chi 70 chi persino 80 mila. In testa la gente
della Val Cenischia, poi gli altri comitati, poi gruppi, associazioni
ambientaliste, partiti, e sindacati di base. Persino una manciata
di sindaci si presenta alla manifestazione con tanto di fascia
tricolore. Gli anarchici sono diverse migliaia. Indicati dai
media per giorni e giorni come violenti a caccia di scontri
la loro presenza al corteo è stata cancellata da quegli
stessi media delusi che gli anarchici non avessero voluto
recitare la parte loro assegnata nel teatrino della disinformazione
mediatica.
La scelta di scendere in piazza nonostante i politicanti –
anche locali – volessero che la gente restasse a casa
per consentire ai giochi della politica di palazzo di decidere
al loro posto è non solo giusta ma anche efficace.
Solo una minoranza segue Ferrentino ed i suoi, mentre i più
attraversano in corteo le strade di Torino. La componente
anarchica all’interno del movimento è un dato
di fatto contro il quale possono ben poco le manovre criminalizzanti
di Pisanu e la repressione di polizia, che il 22 dicembre,
dopo un presidio al tribunale in solidarietà agli antifascisti
e antirazzisti torinesi sotto processo, arresta un anarchico,
accusandolo di violenze durante il corteo No Tav del 6 dicembre,
il giorno della mattanza di polizia contro l’accampamento
di Venaus. I giornali si scatenano sperando di ottenere una
spaccatura del movimento, ma, ancora una volta la manovra
fallisce.
Il 3 dicembre al Polivalente di Bussoleno un’assemblea
di valle esprime la propria solidarietà a Marco, l’anarchico
arrestato.
Corteo No Tav a Chambery
L'immagine è tratta dal sito www.notav.it
Chambery e poi…
Nella stessa assemblea viene decisa la partecipazione alla
manifestazione No Tav indetta a Chambery per il 7 gennaio
dal neonato Collettivo del Rodano Alpi contro la Lione-Torino.
Un’altra decisione per nulla scontata, dopo il comunicato
con il quale sin dal 27 dicembre il solito Ferrentino, dal
sito della Comunità Montana “sconsigliava”
la partecipazione ad una manifestazione “organizzata
dagli anarchici”.
I compagni arrivati da Chambery vengono accolti con un fragoroso
applauso e nessuno chiede loro la carta di identità
politica: la marcia della Val Susa si prepara a oltrepassare
le alpi.
Sarà düra!
(Ne riparliamo sul prossimo numero)