Fu
al tavolo di una sidrería che Luis Sepúlveda
avrebbe saputo da che parte stava nel mondo. Nelle Asturie,
nel nord della Spagna, era entrato per bere un bicchiere
e ha finito col farsi degli amici intorno ad una bottiglia
di sidra. Tra una sidra e due discorsi, le persone del
posto hanno fatto subito a pezzi le sue verità
assolute. “Qui dividiamo l’umanità
così: o si è un figlio di puttana o si
è dei nostri”. Lo scrittore cileno, di
54 anni (alla data dell’intervista. N.d.T.),
è dei loro.
Dopo l’esilio, dalla militanza nel movimento di
Greenpeace ai vari anni di permanenza a Parigi ed Amburgo,
Sepúlveda ha scelto Gijón per riposarsi
dopo una vita di giramondo. Ha scoperto una regione
paziente e persone spontanee, per cui è restato.
Lo scrittore latino-americano vive da sette anni in
un gradevole chalet, a dieci minuti dalla spiaggia,
dove la piscina è l’unica concessione al
lusso.
In questa casa prepara le sue memorie e non possiede
alcun oggetto senza che abbia una simbologia, senza
una storia da raccontare. Nel cortile, subito dopo l’ingresso,
il visitatore incappa in una vecchia automobile Ford
del 1949, anno di nascita di Sepúlveda. “Lei
funziona e io pure”. Nel portico, un busto del
rivoluzionario italiano, Garibaldi, uno dei primi guerriglieri
dell’America Latina, uscito perdente da tutte
le battaglie alle quali ha preso parte. Lo scrittore
è sedotto dalle storie di gente sconfitta, marginale,
di coloro che finiscono sempre con il perdere lungo
la strada dei sogni.
Si entra nella casa e gli scaffali e le pareti è
come se… parlassero.
C’è un angolo per i libri degli amici.
Ci sono le loro foto, quella di Zorbas protagonista
di Storia della gabbianella e del gatto che le insegnò
a volare, e un ritratto incorniciato del suo compianto
amico, Fernando Assis Pacheco. Per terra una vecchia
macchina da scrivere e altri libri.
C’è un armadio con tutte le sue opere tradotte
in più di 40 lingue, dove riposa un pezzo del
muro di Berlino. Appoggiata ad una parete una chitarra.
“ È una tradizione. C’è sempre
un amico che ogni tanto compare e suona”.
Lo scrittore lavora nella parte più alta della
casa.
È il suo rifugio, non per questo il luogo preferito
della casa. “Il luogo che preferisco è
la cantina!”, scherza, mentre mi guida verso la
soffitta. Una televisione, un sofà, un letto.
“M’isolo qui. Mangio e dormo quando lo desidero
e, a volte, non comunico nemmeno con gli altri”.
Alle pareti foto di amici, di Allende. Le scrivanie
sono disposte a “L”, un computer su ciascuna.
“Se ho due idee uso i due computer per vedere
quale idea si sviluppa meglio”.
Si svela ai nostri occhi un poco del mondo di Sepúlveda,
ma non tutto ciò che si coglie è effettivamente,
in mostra. “Questa è una fotografia del
mio matrimonio”, mostra, nel soggiorno. “Non
sembra una foto innocente? La verità è
che in quel giorno mia moglie era in gravidanza ed io
avevo una colt 45 in nella giacca”. A lato c’è
Carmen Yañez, poetessa, dalla quale si separò
nel 1973 e che rincontrò venti anni dopo. Bella
storia d’amore di cui manca un libro.
Nelle vacanze, riceve sia le visite dei sei figli (suoi,
di lei, di loro), sia dei nipoti, che arrivano dall’Ecuador,
dalla Germania e dalla Svezia. Durante la cena in famiglia
è un’autentica torre di babele.
L’uomo barbuto, con occhiali rotondi, calzoncini
e sandali, che ci apre placidamente il cancello della
palizzata di casa sua, è un resistente. Le disavventure
di uomini e donne senza biografia gli danno motivazioni
per continuare a raccontare le storie di chi non viene
ricordato o risucchiato nell’amnesia storica.
C’incontriamo nel 2003, in un pomeriggio soleggiato
d’agosto. Sepúlveda sta preparando il lancio
del suo ultimo libro – Il Generale e il Giudice
– in vari paesi.
L’opera è un omaggio a uomini come Salvador
Allende, presidente socialista del governo popolare,
che ha diretto il Cile dal 1970 al 1973. Ma è,
soprattutto, una resa dei conti con la memoria e anche
“con alcune canaglie che hanno gettato la maschera
e hanno mostrato la loro vera faccia”. È
un tributo ad una generazione, la sua, che pagò
un prezzo altissimo per sognare un Cile senza padroni.
“Non siamo vittime, né poveretti. Non abbiamo
bisogno di carità cristiana. Abbiamo tentato
di cambiare la società ed il mondo. E di ciò
siamo orgogliosamente colpevoli”.
In quel giorno, gli ho portato del vino di Porto. Lui
ha ricambiato con un pomeriggio intero di parole vive,
resistenti, con il sapore delle cose che invecchiano
saggiamente in bottiglia. Finendo con il bere in proporzione
ai sogni. |
Lo
scrittore Luis Sepúlveda
Dove eri l’11 settembre 1973? (giorno del
colpo di stato messo in atto da Pinochet. N.d.R.)
Ero incaricato dal mio partito, il Partito Socialista del
Cile, di difendere un’infrastruttura che forniva acqua
potabile a tutta la città di Santiago e che, nel frattempo,
avevano tentato sia di farla esplodere, sia di avvelenarla.
Eravamo otto compagni e per vari mesi, giorno e notte, siamo
rimasti a vigilare la zona dell’acquedotto.
E il resto del giorno, come lo hai vissuto?
Tutti sapevano che c’era un golpe militare in preparazione,
ma non sapevamo quando sarebbe successo. Quello che non immaginavamo
è che sarebbe stato tanto crudele, tanto terribile.
Noi, quelli della sinistra cilena, credevamo che ci fosse
una certa decenza nei militari cileni, che avrebbero rispettato
i prigionieri. Ma questo non è accaduto. Dichiararono
guerra ad un popolo disarmato. La nostra difesa era una difesa
morale. Sostenevamo determinate idee, ma ci piaceva il fatto
che il popolo cileno non avesse molta simpatia per il resto
del mondo socialista. Volevamo costruire una rivoluzione alla
cilena, più vicina a John Lennon che a Lenin. Non volevamo
creare una seconda Cuba, volevamo un socialismo alla cilena,
di empanadas (“Pasticci” ripieni
di carne o verdure o formaggio. N.d.T.) e vino rosso…
Cioè, molto vicina alle tradizioni popolari…
Sì, sì. Il Cile aveva un movimento popolare
molto ricco, che fu specialmente favorito dal valore intellettuale
dei lavoratori immigrati che arrivarono nel paese, provenendo
soprattutto dal Centro Europa. Giunsero in America per costruire
il Canale di Panama e dopo, non potendo ritornare, si spostarono
al Sud per lavorare nelle miniere di salnitro nel deserto
di Atacama. Quando s’inventò il fertilizzante
sintetico, le miniere finirono alla malora. Due milioni di
operai senza lavoro emigrarono a Santiago, che allora aveva
un milione di abitanti.
Tutta la gente diceva che sarebbe stato il caos, che sarebbe
stato terribile, ma successe esattamente il contrario. La
classe lavoratrice cilena si organizzò facilmente e
fondò la prima università anarchica del mondo.
Uno dei miei nonni fu uno dei fondatori. In questa università
si specializzarono lavoratori di tutto il continente americano.
Soprattutto si formavano tecnici in tutte le aree che avevano
a che fare con la stampa. La parola scritta fu sempre un grande
amore degli anarchici, in quanto chi è padrone della
parola stampata è libero e non solo colui che ha un’opinione.
Joan Baez definì molto bene le caratteristiche della
rivoluzione cilena. Lei diceva che, ad esempio, il profilo
di un professore cileno rivoluzionario era un profilo da hippie,
ma con una coscienza sociale molto forte.
Che miscuglio di sentimenti hai riguardo al Cile, trent’anni
dopo il colpo di Stato di Pinochet?
Abbastanza contraddittori. Ancora in questi giorni parlavamo
con la mia compagna, che era stata detenuta nella Villa Grimaldi,
uno dei peggiori centri di tortura cileni, e dicevamo che
ci siamo abituati a vivere con la certezza di aver perso il
nostro paese. Il Cile che conoscevamo non esiste più.
Sedici anni di dittatura hanno generato una trasformazione,
non solo politica e ideologica, ma fisica, nella mentalità
delle persone. È sparito il vecchio paese solidale
e al suo posto è nato un paese “di merda”
e individualista. Questo paese, che aveva uno degli indici
più alti di lettura dell’America Latina, ora
è all’ultimo posto. Questo paese, che non aveva
analfabeti, ora ha un analfabetismo atroce. Fu il primo paese
dell’America Latina, e il secondo al mondo, a consacrare
il diritto di voto alle donne, ma adesso la partecipazione
delle donne in politica è terribilmente segregata.
C’è stato un regresso che lo rende irriconoscibile.
Siamo pienamente convinti che il nostro obiettivo di trasformare
la società, di trasformare il mondo, era giusto. Volevamo
creare le basi per una transizione pacifica al socialismo;
non volevamo il socialismo per decreto. Il nostro modello
non era Cuba né l’Unione Sovietica, era piuttosto
la Svezia. I mille giorni del governo popolare furono mille
giorni di festa. (…).
Il
generale Augusto Pinochet (al centro) salito al potere con
il golpe dell’11 settembre 1973
La tua generazione è stata una generazione sconfitta.
Ma scopro che, per te, non è stata una generazione
persa…
In nessun modo. Abbiamo perso una grande battaglia, questo
è chiaro. Ma abbiamo lottato con l’intenzione
molto onesta di trasformare il Cile e il mondo. Qualcosa è
rimasto. Però il prezzo che si è pagato è
stato molto alto: i morti, i desaparecidos, quelli
che sono stati distrutti a causa dell’esilio o della
miseria. Le conseguenze della dittatura si fanno sentire ancora.
Ci sono persone che hanno perso tutti i loro riferimenti esistenziali
e alcuni si sono tolti la vita. Il Cile ora è un altro
paese, dove è quasi impossibile ritagliarti il tuo
spazio, il tuo posto. In quell’epoca (gli anni ’70)
in piena dittatura abbiamo assistito a cambiamenti veloci.
Stavo nella prigione di Temuco, una delle peggiori, quando
ci fu la rivoluzione dei garofani in Portogallo. Un giorno
arrivò là un militare, molto allarmato, e mi
disse: “Voi avete già vinto” – e
io domandai – “Dove?”, “In Portogallo”
– mi disse lui. “Cazzo, è caduta la dittatura?”
– domandai. Non volevo crederci. E lo stesso accadde
quando Franco morì.
Queste notizie davano speranza?
Sì, dobbiamo sempre rallegrarci quando muore un figlio
di puttana. In quel caso, rispetto a figli di puttana
così importanti, aumentò il mio ottimismo (risate).
Mai, però, avremmo pensato che la dittatura (in Cile)
durasse tanto. Le dittature durano sempre di più di
quanto dovrebbero durare, in tutti i sensi…
Ora, il tempo di questa dittatura è passato ed è
duro sapere che ci sono state persone che non l’hanno
potuto superare; che questo tempo non è stato il loro,
ma gli è stato sottratto. Per tutto questo, il mio
rapporto con il paese è stato sempre d’amore
e odio. Vado il meno possibile in Cile perché –
ogni volta che poso i piedi là – ho problemi.
(…).
Santiago
del Cile, 11 settembre 1973. Attacco dei golpisti al palazzo
della Moneda
Continui a dire che l’amnesia è un argomento
di Stato in Cile?
L’amnesia fu imposta come ragione di Stato. Il grande
trionfo della dittatura fu aver conseguito un modello economico.
Il colpo di Stato è avvenuto per far fallire l’intento
rivoluzionario e decapitare intellettualmente il movimento
dei lavoratori. L’obiettivo era uccidere il meglio del
pensiero progressista nel paese.
Il signor Milton Friedman, direttore della Scuola di Chicago,
viaggiò di proposito per il Cile per dirigere l’esperienza
che, in primo luogo, doveva consistere nella distruzione dell’industria
nazionale. Il paese aveva un’industria propria ed esportava.
“Essere cileno è buono” era uno slogan
conosciuto in tutto il continente. L’industria tessile
era altamente competitiva e non è esagerato dire che
più di metà del continente americano si vestiva
con roba fatta in Cile. Il paese era provvisto di tutta la
gamma di elettrodomestici di qualità. È evidente
che i nostri frigoriferi e le nostre lavatrici non erano così
belle come le Westinghouse, ma funzionavano e duravano molto
tempo. Cominciavano ad essere vendute le prime auto prodotte
in Cile. C’era una licenza della Citroën ed era
nato il primo Citroën cileno. Non era tanto spettacolare
come l’originale, ma funzionava. Avevamo un’impresa
statale di trasporto collettivo, che era esemplare. Già
avevamo una coscienza di protezione ambientale molto avanzata,
ereditata dalle vecchie tradizioni anarchiche. Credo che il
Cile sia stato il primo paese dell’America Latina ad
avere un trasporto pubblico che funzionasse ad elettricità,
i vecchi trolleys. Gli studenti viaggiavano gratuitamente,
allo stesso modo delle donne in gravidanza e dei maggiori
di 70 anni. Tutto questo è stato disperso. Hanno chiuso
con le industrie nazionali, con tutte le imprese statali e
il paese si è ridotto ad essere un ricevitore di cose
che vengono da fuori. (…).
Credi che i sogni della tua generazione continuino ad essere
attuali?
Continuano ad essere attuali in tutto il mondo. È
il vecchio sogno di una società che mai sarà
perfetta, ma che può essere giusta. Una società
sana, dove non ci sia uniformità né reverenze.
I miei sogni di questi tempi sono i sogni cari all’umanità.
Specialmente nell’America Latina, dove viviamo troppo
vicini al nemico che ha impedito il nostro sviluppo e uno
stato minimo d’indipendenza. Insieme con un amico, ho
fondato una casa editrice in Cile che si chiama “Ancora
credo nei sogni”. È una di quelle che vendono
più libri nel paese. Stiamo recuperando un nostro patrimonio
culturale e tentiamo di condividere con le nuove generazioni
quello che noi leggevamo. È possibile che alcune cose
siano datate, che si discostino da ciò che succede
là, ma non possiamo lasciare che non conoscano queste
opere.
I giovani… come reagiscono rispetto alle ferite ancora
aperte in Cile?
C’è un film bellissimo di un cileno, Patricio
Guzmán, chiamato La memoria ostinata la cui
storia risponde alla tua domanda. Lui aveva fatto un grande
film dal titolo La battaglia del Cile, che mai è
stato trasmesso nel paese. Quando aveva terminato le registrazioni,
avvenne il golpe. Lo portarono in prigione e assassinarono
vari elementi della sua equipe. Suo nonno riuscì a
salvare il nastro e lo mise in un baule nell’ambasciata
svedese. Attraverso una valigia diplomatica il film arrivò
in Europa, e Patricio, già in esilio, lo recuperò,
lo montò e lo mostrò in tutto il mondo, meno
che in Cile. Venti anni dopo, lo portò in Cile. E mentre
lo mostrava, fece questo nuovo film chiamato “La
memoria ostinata” registrando semplicemente le
reazioni delle persone giovani nel momento che vedevano la
cassetta. Fu una reazione traumatica. Giovani che prima avevano
l’opinione che il governo militare avesse salvato il
paese dal caos, dall’anarchia e dai comunisti che tentavano
di schiavizzare il paese, dopo aver visto il film sentirono
una specie di catarsi. E si indignarono: “Com’è
possibile che ci abbiano mentito così tanto?”.
Alla fine era vero che avevano ammazzato tanta gente, che
c’erano stati i desaparecidos. Alcuni dicevano:
“Come ho potuto essere tanto cretino?”. E c’era
una ragazzina, inconsolabile, che diceva: “Ma io ho
giurato su Dio ad amici stranieri che in Cile mai si era ucciso
qualcuno. Che era tutta propaganda del comunismo. E che le
persone che apparivano con le foto, domandando dei familiari
desaparecidos, era gente pagata dall’Unione
Sovietica. Mi hanno ingannata”. C’è stato
un risveglio della memoria, della curiosità per il
passato, ma non è un fenomeno di massa, chiaro. La
dittatura ha creato mentalità alienate, ha imposto
la stupidità. Una parte molto significativa della gioventù
cilena sta però recuperando la memoria e la partecipazione
politica. (…).
Il perdono è una parola che entra nel tuo dizionario
cileno?
No, non entra. In questo, sono come il Conte di Montecristo,
non dimentico, non perdono. Con il perdono non si restituiscono
le vite che la dittatura si è portata via.
Tutti gli esseri umani hanno bisogno di aprire e chiudere
stagioni di dolore. Fa parte della vita. La cosa inaccettabile
è che coloro che aprirono questa stagione di dolore
si neghino a contribuire affinché la si possa chiudere.
Abbiamo bisogno di piangere la morte del figlio, del fratello
o del padre, ma c’impediscono questo pianto, questa
catarsi liberatoria. Non ci dicono se li hanno ammazzati e
dove li hanno lasciati, pur sapendo dove stanno i loro corpi.
Questo danno si è prolungato durante trenta anni. Ed
è parte di un’atroce farsa. È molto salutare
per una società avere memoria e non perdonare i criminali.
La riconciliazione con la storia significa sapere tutta la
verità su quello che successe nel Cile di Pinochet.
Arriverà questo momento?
Credo di sì, anche perché avvengono cose insolite.
Il sistema economico non funziona e in Argentina, per esempio,
è imploso completamente. Il popolo argentino è
arrivato a livelli di degradazione morale mai visti, ma tutti
sappiamo come la povertà porti a questo degrado. La
miseria trasforma l’essere umano quasi in un animale.
Per salvare il morale di un paese come l’Argentina –
poiché un paese non vive senza morale – il presidente
Kirchner ha revocato la legge di obbedienza dovuta e, così
adesso, i figli di puttana le pagheranno tutte. Tutte!
Era l’unica maniera di cominciare di nuovo, non si può
costruire una società sulla base della menzogna, dell’amnesia,
della dimenticanza come ragion di Stato.
Nel caso del Cile, bene… spero di ingannarmi perché
non desidero alcun male al mio popolo, ma l’economia
cilena entrerà in un collasso tra alcuni anni. È
un paese che ha un indebitamento assurdo ed è totalmente
aperto all’intromissione di qualsiasi capitale sospetto.
Non c’è paese al mondo dove non si sia lavato
tanto denaro del narcotraffico come in Cile. È un fatto
che nemmeno il membro più idiota del Governo oserebbe
negare.
È un paese che ha il suo futuro ipotecato. Secondo
uno degli ultimi rapporti della Banca Mondiale, ciascun cileno
nasce con un debito equivalente ad undici anni di lavoro.
Questo paese avrà un collasso totale. E peggiore di
quello dell’Argentina. Non difendo “il tanto peggio,
tanto meglio”, ma credo che solo a quel momento ci sarà
il punto di partenza affinché il Cile si ricostruisca
moralmente. (…).
Tornando al Cile… Pinochet continua a condizionare il
futuro?
Non credo. Quando il Governo del Cile si impegnò a
fondo per evitare che lui fosse giudicato in Inghilterra,
pensavano che, al rientro paese, tutto sarebbe finito rapidamente.
Si sono illusi. Non hanno tenuto conto del giudice Guzmán
che ha accompagnato molto da vicino il lavoro di Baltasar
Garzón ed era diventato amico suo.
Pinochet fu tenuto da Guzmán agli arresti domiciliari
per molto tempo e, per la prima volta, dovette rispondere
davanti ad un giudice. Quando gli domandarono se era stato
lui a dare l’ordine di partenza della Carovana della
Morte per giustiziare le persone, se la lettera era sua,
Pinochet non resistette e disse: “Sì, la lettera
è mia”. Compromise tutto; non resistette alla
vanità e al cretinismo dei militari.
Questo, dopo che il suo avvocato aveva tentato con tutti i
mezzi di evitare che rispondesse alla domanda. Con ciò,
ottenne una condanna, ma subito ci fu una gran negoziazione
per lasciare le cose come stavano.
Allora Pinochet fu dichiarato pazzo, gli diagnosticarono una
malattia che fece ridere tutti i medici del mondo: “demenza
vascolare lieve”. È pazzo? Sì. Ma è
come le case “tipo chalet svizzero”,
cioè una pazzia tipo qualsiasi cosa… (risate),
capisci? Si sono messi in un pasticcio perché Pinochet
deve tenersi la sua malattia perché qualunque miglioria
nella “demenza vascolare lieve” permette di portarlo
in giudizio.
Da qui la storia che non ci sono mucche pazze in Cile…
Ah! Questa storia… Quando diagnosticarono la malattia
a Pinochet, io stavo in Cile e decisi di andare a mangiare
carne alla griglia in un ristorante per festeggiare il compleanno
del mio figlio più vecchio, che vive in Svezia. Lui,
da buon svedese che è, era molto preoccupato con la
“mucca pazza” e domandò al cameriere: “Qui
non ci sono mucche pazze, no?”, “No signore”,
gli rispose il ragazzo. “Qui le mucche hanno la demenza
vascolare lieve” (risate).
Gli amici di Pinochet hanno fatto di tutto affinché
siano archiviati tutti i processi sollevati contro di lui,
ma la petizione deve essere firmata da lui stesso. E un tipo
che è stato dichiarato malato di mente non può
farlo. Per me, è una vendetta bellissima.
Cile,
11 settembre 1973
È una fine che ti soddisfa?
No, no. Io sarei la persona più felice del mondo
se avessi questo figlio di puttana davanti a me e
potessi scaricare i sette colpi di una “45”. Questo,
sì, sarebbe un piacere enorme. Non desidero la morte
a molta gente, ma ad alcuni sì. A lui specialmente.
O quantomeno un buon cancro alla prostata o qualcosa così,
perché no?
Oggi saresti capace di vivere in Cile?
Preferisco non vivere là…
Il libro Il Generale e il Giudice è una resa
dei conti?
È nato soprattutto dalla necessità di erigere
una mia barricata quando Pinochet era detenuto a Londra. Ho
cercato di contribuire affinché lo mantenessero prigioniero
il maggior tempo possibile. E nel libro, infatti, ci sono
alcune rese dei conti con canaglie che si tolsero la maschera
e mostrarono chi erano veramente. D’altra parte, rivendico
un mio modo per continuare a vivere. Sono d’accordo
con mia moglie in una cosa che per me è molto importante:
noi non ci consideriamo vittime e non sopporto quando in Cile
si parla delle “povere vittime”. Si può
essere vittima della fatalità, della brutta sorte,
persino della mano di Dio se sei credente. Ma noi abbiamo
pagato un prezzo per cercare di cambiare la società
ed il mondo. Sapevamo che potevamo pagare per questo e, nonostante
ciò, lo abbiamo fatto. Siamo orgogliosamente colpevoli
di questo.
Non siamo vittime; non si confondano le cose. Non abbiamo
bisogno di carità cristiana per capire quello che abbiamo
fatto. E lo abbiamo fatto con orgoglio.
Senti qualcosa di simile ad un esilio interiore?
No, niente di ciò. Mai “ho civettato”
con i famosi esili interiori; sono una grande stupidaggine.
È chiaro che ho dovuto vivere in esilio perché
non potevo vivere nel mio paese. Ma ho il diritto di vivere
dove mi pare e di essere un cittadino del mondo. Il mio posto
nel mondo è dove io voglio. Cerco di andare in Cile,
quasi tutti gli anni, ma i miei genitori sono già scomparsi.
Nel frattempo, sono entrati nella mia vita altri paesi, tremendamente
suggestivi. E ho una gran relazione d’amore con questi
paesi. La regione del mondo che più desidero è
la Patagonia e quando andavo là ero sempre molto felice.
Allende era senatore eletto per la Patagonia. È un’altra
classe di persone, che ha un altro progetto di vita. Forse
uguale al mio. Sono pionieri, stanno erigendo un progetto
di vita molto diverso…
Senti, ho fatto là un documentario chiamato Il
cuore verde, ho vinto il Premio come migliore documentario
del Festival di Venezia del 2002. Ho raccontato una storia
reale. In una regione della Patagonia cilena chiamata Aysén
esiste un immenso fiordo, di oltre 80 chilometri. È
un luogo naturale, vergine, uno degli ultimi punti d’accoppiamento
dei grandi cetacei e la terza riserva di acqua potabile del
pianeta. La condizione dell’acqua e dell’aria
è tra le più pure. Questa regione ha più
di 40 mila abitanti. Vivono del turismo rurale, sostenibile
e responsabilmente limitato; pensano alla qualità della
vita della regione.
Un giorno arrivò un’impresa chiamata Noranda
– con domicilio postale in Canada e quello fiscale nelle
isole Cayman – per costruire tre centrali elettriche.
Volevano produrre energia in grado di illuminare due volte
la città di Buenos Aires. Nella regione sono ben provvisti
d’energia eolica. Alcuni, allora, domandarono: “Che
cosa faranno con l’energia che avanza?”. Dissero
che avrebbero installato una fabbrica d’alluminio portato
dal Brasile. E si sarebbe data energia ad una centrale di
trattamento di scorie nucleari, da costruire alla frontiera
con l’Argentina. Le persone dissero che non lo avrebbero
permesso ed io decisi di fare un documentario su questo.
Volevo fare un lavoro di denuncia ed ebbi la fortuna di sapere
che (in quel momento) ministro dell’Economia era Rodriguez
Rossi, mio compagno di scuola. Parlai con lui. Gli domandai
quello che pensava, come ministro, sui progetti che si sarebbero
installati. “Che vale per noi avere questa maledetta
regione che è la più bella, la più pura,
se lì non è mai nato niente?”, mi contestò.
Gli domandai se poteva dirlo davanti la cinepresa. “Sì.
È la mia opinione come ministro e come persona”.
Registrai e a tutte le persone che incontravo facevo vedere
la registrazione. “Questo figlio di puttana chi si crede
d’essere?”, reagivano, indignati. Raccolsi circa
40 testimonianze. Dal documentario nacque l’indagine,
il cui risultato permise di scoprire che lo studio d’impatto
ambientale per l’installazione di tali progetti era
solo di mezza pagina.
Si bloccò la procedura e furono dati otto anni di tempo
affinché fosse presentato uno studio di impatto ambientale.
Con ciò, stiamo guadagnando tempo. È la lotta.
Il passo seguente è stato formare una cooperativa.
E quelli di noi che hanno i mezzi economici, stanno comprando
i pezzi di terra dove vogliono installare le centrali elettriche
e la fabbrica. Stiamo vincendoli con le loro stesse armi.
(…).
La tua letteratura sta sempre dalla parte della vita dei vinti.
È una scrittura contro l’alienazione?
A tutti tocca nascere in una determinata epoca e alcuni di
noi tentano d’essere coerenti con l’epoca in cui
vivono. L’unica forma che conosco di dormire bene è
essere in pace con il mondo e, soprattutto, con me stesso.
Mantenendo sempre un’attitudine di resistenza. La mia
letteratura è un atto di resistenza. “Narrare
è resistere”, disse Guimarães Rosa. Non
so se alcuni di noi stiano in qualche modo rifondando una
cultura della resistenza. Da quando Peter Weiss è morto
nessuno ha mai più letto l’“estetica della
resistenza”. La resistenza è impregnata di un’enorme
bellezza, perché implica offrire alternative. Quando
resisti come scrittore, stai proponendo un’alternativa
letteraria e bella contro l’alienazione.
C’è chi ti accusa di inventare la tua biografia
politica e letteraria. Cosa dici su ciò?
Ci sono alcune persone che non capiscono che io non devo
mostrare certificati d’autenticità sulle cose
che ho vissuto. A me basta l’autenticità dei
protagonisti che hanno condiviso questi avvenimenti con me.
Per soddisfare alcune persone dovrei correre dal notaio ad
autenticare ciascuno dei momenti trascorsi. Non devo darne
conto a nessuno. Già mi sono confrontato con situazioni
assurde e mi preoccupa molto di più la mia compagna,
che soffre molto per questo. Di me, hanno persino detto che
non esistevo… Cosa devo fare per provare che ho fatto
parte delle “brigate Simon Bolivar” che hanno
combattuto in Nicaragua? Acquistare biglietti aerei per tutti
i compagni di quel tempo e invitarli ad andare in Cile a fare
una sfilata? Come si può rispondere alle canaglie,
alla stupidità?
Da tempo, una canaglia e un cretino chiamato Jorge Edwards
sta insinuando, attraverso il quotidiano El País,
che durante la dittatura io non avrei passato tutto quello
che dico, in quanto, se così fosse – diceva lui
– io avrei avviato un processo nei tribunali come fanno
tutti. Gli ho risposto con una domanda: “Per caso non
ti viene in mente che non credo in questo sistema, in questa
giustizia? E che, per me – in questo momento –
è più vicina la vendetta di quanto lo sia la
giustizia fine a se stessa?”. In verità, per
molte cose, mi soddisfa più la vendetta che la giustizia.
Voglio vivere in pace con me. E se le canaglie vanno a morire
uno ad uno già mi considero ricompensato. Quello che
non voglio è dargli un protagonismo gratuito. (…).
Hai l’abitudine di dire che una persona è di
dove sta meglio. La parola patria non ti dice nulla, pertanto?
Sempre mi ha provocato una ripulsa enorme. La parola patria
è legata a patrioti. Se sei un patriota escludi i più,
ossia pensi di essere il migliore ed ignori i valori degli
altri. È una parola che dovrebbe sparire.
Pensi ancora di scrivere un racconto su Lisbona?
Sì, mi sarebbe piaciuto passare una stagione a Lisbona…
Mi sono sentito un po’ fottuto quando ho letto Sostiene
Pereira di Antonio Tabucchi, perché è esattamente
il racconto che io avrei voluto scrivere (risate).
Al momento, ho appena un personaggio, un cileno che sta a
Lisbona ai tempi di Salazar. E alcuni appunti disordinati
che ho bisogno di cucinare. Una volta sono stato a Lisbona
con l’intenzione di cominciare a scrivere, ma non riuscii
a farlo perché l’ospitalità dei lisbonesi
è insalubre. E capii che non era possibile scrivere
tutti i giorni.
Mi piace molto vagare per Trás-os-Montes e andare al
Sud, in inverno quando non ci sono turisti. Più Alentejo
che Algarve.
Curiosamente, sto da quasi dieci anni a scrivere un racconto
di pirati (risate). Bene… già ho 600 pagine.
Uno dei personaggi è un alentejano, perché è
esistito realmente un pirata alentejano. O meglio, non so
se era alentejano, ma lo chiamavano Sebastiano dell’Alentejo.
E rimase nella storia. Le persone confondono i pirati con
i corsari, ma non sono la stessa cosa. I pirati erano uomini
liberi del mare; i corsari erano mercenari. I pirati in verità
esistettero solo nel Mediterraneo e nello stretto di Magellano.
La loro bandiera non era quella tipica dei corsari, nera,
con i due ossi e il teschio. Era, invece, metà rossa,
metà nera. Un grande storiografico francese chiamato
Gilles Lapuge, scrisse un libro intitolato I pirati,
in cui difende una teoria alla quale credo: quella che la
bandiera rossa e nera dell’anarchia viene dalla pirateria.
Infatti, i postulati che difendevano sono riprodotti nei documenti
anarchici. (…).