Se noi anarchici
avessimo voluto elaborare ed attuare un piano per delegittimare
definitivamente lo stato borghese italiano, non ci saremmo
riusciti così bene. Sistema economico, istituzioni
giuridiche, poteri costituiti, alta burocrazia, tutti hanno
contribuito, in un disegno folle e inconsapevole, a rendere
ingovernabile lo stato, a ridurlo al ruolo di palude putrescente,
fonte inesauribile d’epidemie.
La stampa, gli anchor man più accreditati si affrettano
ad affermare che lo scandalo della “Banda d’Italia”,
come è stato con arguzia denominato il malaffare Fiorani-Fazio,
non denota una crisi di sistema, ma le deviazioni di “furbetti
di quartiere”, che hanno creato uno scompiglio tutto
sommato arginabile senza danni definitivi.
Sistema bancario decrepito
Non è certamente così e il convulso tentativo
di “chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati”
(legge sul risparmio e nuove norme sulla nomina del Governatore
e sulle funzioni della Banca d’Italia) sta lì
a dimostrare come questo scandalo che investe la finanza italiana
sia il sintomo di un male più profondo, di un apparato
economico-finanziario e politico-giuridico che non riesce
più a dipanare il groviglio di interessi contrastanti
e conflittuali che, nel corso di decenni, ha esso stesso creato.
É in ordine di tempo, l’ultimo segnale di un
capitalismo che dovunque, nel mondo, continua a creare guasti
e a ridurre sempre di più i margini per una convivenza
civile e pacifica. Certo, in Italia, i sintomi sono più
evidenti perché più evidente è la natura
stracciona dei protagonisti.
Anche altrove le banche utilizzano i soldi loro affidati dai
risparmiatori per speculare, far quadrare i bilanci e accrescere
i profitti, solo che altrove il sistema dei controlli e, in
casi limitati, un’etica tutto sommato meno permeabile
della nostra, limitano i danni e consentono al Paese di ostentare
maggiore rispettabilità.
In Italia il processo di decozione del sistema è più
sollecito perché siamo una nazione relativamente giovane
che non ha consolidato tradizioni virtuose.
Siamo arrivati tardi alla trasformazione industriale, di cui,
peraltro, siamo debitori a olandesi, tedesco-austriaci e inglesi;
sino alla fine del secondo conflitto mondiale la nostra economia
era per il 57% costituita da un’agricoltura appena uscita
dal cappio feudale nel sud e tardava a meccanizzarsi al nord.
Il sistema bancario era decrepito e l’esercizio del
credito, che è vitale per qualsiasi modello di sviluppo,
fortemente selettivo a favore dei ricchi e dei potenti.
Per non parlare delle istituzioni politiche: la monarchia
sabauda, nel cui nome si era realizzata l’unità
della nazione, aveva proiettato il suo provincialismo e la
sua miopia politica in tutta la penisola, emarginando il Meridione
e abbandonandolo a consorterie politiche fortemente collegate
a organizzazioni malavitose che hanno prosperato sino ai giorni
nostri, compromettendo qualunque progetto di sviluppo e mortificando
le risorse intellettuali e imprenditoriali di un centro-sud
in affannosa ricerca di un suo riscatto. Una nazione, insomma,
malata da sempre, nella quale l’arte di arrangiarsi
prevaleva sempre sui progetti di un ordinato sviluppo e sul
corretto equilibrio tra i poteri.
Le classi dirigenti, di conseguenza, erano meno attrezzate
ad affrontare e risolvere i problemi sulla base di corrette
analisi di merito e più sensibili viceversa a logiche
di potere distorte, tutte rivolte a consolidare privilegi
ed arbitrii piuttosto che alle esigenze ed al benessere dei
cittadini.
Cinquant’anni di potere democristiano non hanno migliorato
le cose, anzi hanno istituzionalizzato il sistema clientelare,
impiegando risorse immense (si pensi alla famigerata Cassa
del Mezzogiorno) per perpetuare il regime, spesso consociativo,
della spartizione tra partiti, amici e lobby elettorali, piuttosto
che impiegarle per creare infrastrutture e promuovere la produzione
di beni e servizi.
Il risultato fu che, specie al sud, ma non soltanto al sud,
le regioni furono abbandonate all’arbitrio di consorterie,
quasi sempre malavitose, che utilizzarono il loro controllo
sul territorio per assicurare dietro lauti compensi ed appalti
miliardari, i voti necessari al perpetuarsi del potere costituito.
Non è un mistero che, ancora ai nostri giorni, la selezione
della cosiddetta classe dirigente in Sicilia, Calabria, Puglia
e Campania (per indicare le emergenze più evidenti)
venga compiuta dalla malavita organizzata, si chiami mafia,
‘ndrangheta, sacra corona unita e via dicendo.
Tutto ciò senza che da parte delle istituzioni vi fosse,
anche sporadicamente, uno scatto di schiena, un sostegno anche
di facciata a quei pochi cittadini che non si rassegnavano
(vedi la fine di Peppino Impastato, indicato subito dalla
polizia e dalla magistratura come un dinamitardo maldestro).
Sino alla fine degli anni Sessanta del secolo appena trascorso,
inchieste parlamentari parlavano dell’emergenza mafia
come di un fenomeno che, se c’era, non era tale da incidere
sul buon governo del territorio. Ignoranza? Superficialità?
Collusione, piuttosto, di un’intera classe politica
che non è nulla se non cavalca i poteri forti e distorti
che prosperano paralleli, quando non coincidenti, con le istituzioni
pubbliche.
Guitto, imprenditore e “statista”
In una società così approssimativa e priva
di valori etici significativi, quale meraviglia può
destare la scalata al vertice dello stato di un personaggio
da operetta di terz’ordine quale Silvio Berlusconi?
Il mito di un imprenditore rampante che sino alla soglia degli
anni Ottanta era pieno di debiti e poi, con l’aiuto
di un presidente del consiglio socialista, della mafia e di
speculazioni arrischiate, riesce a collocarsi in alto nella
scala degli uomini più ricchi del mondo, è un
mito che sollecita l’immaginario di un popolo che, per
azzardo o disperazione, si gioca piccole o grandi fortune
al lotto o al totocalcio.
Un popolo che, con Berlusconi, porta alla ribalta una corte
dei miracoli incredibile: mentecatti che sino a ieri avrebbero
fatto salti da trapezista se qualcuno avesse assicurato loro
la quotidiana facoltà del pranzo e della cena, che
adesso, increduli, si sentono chiamare presidenti (sono tutti
presidenti) da finti giornalisti che, senza vergogna, si prestano
al gioco.
I Bondi, i Giovanardi e gli Schifani, oltre ai Berlusconi,
ai Casini e ai Buttiglione sono gli epigoni di una lunga schiera
di fantapolitici che hanno retto il timone della zattera Italia.
Adesso che i nodi vengono al pettine, che non è più
possibile bluffare, emerge tutto lo squallore di un assetto
statale inesistente se non nell’inessenziale sventolio
di bandiere tricolori o nel canto stentoreo dell’inno
di Mameli.
Adesso siamo chiamati a pagare il prezzo della globalizzazione
dei mercati e delle monete. Ed è un prezzo assai gravoso,
che ancora per poco riusciremo ad occultare con gli espedienti
dei bilanci truccati e degli equilibrismi di un’economia
truccata e cialtrona.
Quindi si va a fondo senza che all’orizzonte emerga
qualcosa che induca alla speranza: quali che siano i buoni
propositi, il peso dei disastri provocati dall’armata
Berlusconi, cadrà comunque sulle spalle dei cittadini,
penalizzati oltretutto da una politica fiscale che sarà
arduo modificare in tempi stretti.
Il problema vero è che la sinistra è refrattaria
ad ogni cambiamento radicale del modello di sviluppo. È
troppo presa dalla velleità di recuperare i ceti moderati
e per questo obiettivo accresce le ambiguità del suo
programma.
A parte le conversioni pubbliche ad una religione che esprime
una gerarchia arcigna, ottusa ed arrogante, conversioni che,
in tempi diversi, avrebbero fatto la fortuna dei giornali
umoristici, c’è una timidezza nel prendere posizioni
decise, una reticenza nell’affrontare e risolvere i
problemi interni di una coalizione conflittuale e per questo
difficile da decifrare per un elettore che vuole vederci chiaro.
Insomma, da una barca che affonda ad una scialuppa che fa
acqua.
Se noi anarchici avessimo voluto affossare questo stato, non
ci saremmo riusciti così bene.
Non riesco a rallegrarmene, proprio perché, politicamente,
gli anarchici, come movimento organizzato, politicamente attivo,
non sono riusciti complessivamente a far sentire la propria
voce; non sono stati vicini a quelle donne e a quegli uomini
che avvertivano e avvertono un desolato senso di impotenza.
Intendiamoci: non dico affatto che sia mancata la presenza
anarchica nei posti e nei momenti di maggiore tensione; e
neppure che siano mancati apporti teorici importanti, opportunamente
ospitati da una nostra editoria attiva e intelligente. Dico
soltanto che non siamo usciti, abbastanza e spesso, dai nostri
circoli, dalle nostre sezioni per dire la nostra con voce
tale da essere percepita e compresa.
Capita, così, che, senza un retroterra teorico-politico
sufficientemente divulgato e immediatamente riconducibile
ad una tradizione di azione e di pensiero nobile e consolidata
qual è la nostra, la presenza anarchica nelle manifestazioni
pubbliche viene quasi sempre assimilata all’eversione
cieca e distruttiva, con danni incalcolabili non solo per
la nostra immagine, ma anche per la nostra sicurezza. Stiamo
attenti a non ridurci ad un movimento d’opinione, ai
cui confini permeabili possano premere interpretazioni distorte
del nostro pensiero oltre che i soliti tentativi d’infiltrazione
e di inquinamento!