A nessuno di noi è dato sapere, naturalmente, dove si trovi oggi di preciso Abdul Rahman, il cittadino afgano convertito al cristianesimo che, per scampare alla persecuzione religiosa di cui era oggetto nel suo paese, ha cercato rifugio nel nostro. A rigor di logica, dovrebbe stare in un CPT, visto che in Italia una normativa precisa sul diritto di asilo non c'è, i richiedenti vengono assimilati per prassi agli immigrati clandestini e i CPT sono appunto le istituzioni in cui tale risma di gente va trattenuta sotto chiave e sotto adeguata sorveglianza finché le autorità competenti non abbiano definito la loro posizione.
Ora, tutti sappiamo naturalmente che chi finisce in quei posti di norma viene rispedito in patria senza se e senza ma e che questa è stata, di fatto, la sorte di una quantità incredibile di poveracci che nel nostro allegro paese cercavano protezione e accoglienza, ma almeno a lui, forse, questo destino è stato risparmiato. L'uguaglianza è una cosa di sinistra e da noi, non c'è santi, comanda la destra. Abdul Rahman a Roma è arrivato su raccomandazione del Papa, a bordo di un aereo del governo (se non ufficiale, almeno ufficioso) e l'asilo gli è stato concesso in giornata con delibera espressa del Consiglio dei Ministri. Era l'unico modo, dicono, per salvargli la pelle, e del fatto che gli sia stata salvata la pelle siamo tutti ovviamente felici, ma la cosa non esclude che il trattamento di cui ha fruito sia di tipo, diciamo pure, privilegiato, e che di fronte a esso quello che l'Italia riserva agli esuli e ai perseguitati normali si rivela ancora più scandaloso. Ci troviamo di fronte a un caso patente di applicazione del noto criterio dei due pesi e delle due misure e speriamo soltanto che i funzionari che lo hanno dovuto gestire un filo di vergogna l'abbiano provato. Diciamo i funzionari, perché quelli che stanno più in alto, si sa, alla vergogna sono pervicacemente refrattari.
Suppongo, tuttavia, che persino il nostro Ministro degli Esteri, che non brilla per particolari capacità di preveggenza politica, abbia potuto cogliere la stranezza del caso. L'asilo si concede, normalmente, a chi è perseguitato da un governo o un regime che si presuppongono ostili, per tradizioni geopolitiche o perché riluttanti a quei principi di democrazia che dovrebbero tutelare senza eccezione ogni essere umano. Il governo dell'Afghanistan, però, non appartiene a questa categoria. È, strictu sensu, un governo alleato, se non amico, visto che è stato insediato da un intervento militare dei nostri alleati americani nel dicembre del 2001 e, in seguito a regolare accordo raggiunto sotto egida ONU il 5 gennaio successivo, consente lo stazionamento sul suo territorio di una forza multinazionale di sicurezza sotto comando NATO, per un totale di 4.500 effettivi di cui 600 italiani (da sommarsi naturalmente ai 20.000 soldati americani che c'erano già prima). E accanto alle forze armate vi operano organizzazioni e consulenti occidentali di ogni tipo: una missione italiana, per esempio, sta lavorando al riordino del sistema legislativo. Di più: vi ci si sono svolte regolari elezioni presidenziali e politiche, il cui svolgimento è stato indicato da molti governi, compreso il nostro, come una prova lampante del fatto che l'intervento militare, così inviso a quei confusionari dei pacifisti, dal punto di vista del progresso democratico pagava, eccome, e vi è stata proclamata una Costituzione che prevede, tra l'altro, la piena libertà di religione e di culto. Il governo, certo, non controlla ancora tutto il territorio, e non è escluso che nelle parti non controllate ne succedano di ogni (vi si produce per esempio la maggior parte dell'oppio disponibile sul pianeta), ma diamo tempo al tempo e vedremo che anche tra quelle selvagge montagne la democrazia liberale celebrerà un altro dei suoi inevitabili trionfi.
Almeno, così ci hanno detto. Raccontandoci, evidentemente, delle grandissime balle, visto che non è il caso di illudersi troppo sul livello di democrazia di un paese che impedisce ai suoi sudditi, pena il capestro, di esercitare un'opzione ideologica tanto innocua quanto quella di cambiare religione, e nell'ambito per di più delle grandi religioni monoteiste, che come sanno tutti dai tempi di Melchisedech giudeo e di Nathan il saggio sono, in sostanza, la stessa cosa. E in quella ovvia assenza di democrazia è inevitabile chiedersi cosa ci stiano a fare tutti i militari e i civili che ci abbiamo mandato con la scusa di instaurarla e difenderla e poi non sono stati capaci neanche di richiamare le autorità locali a un minimo di rispetto dei suoi principi di base. E allora, magari, potremo concludere che non avevano torto del tutto quei rompicoglioni dei pacifisti a sostenere, nel 2001 come nel 2003, che la democrazia non si esporta in quel modo e non si capisce neanche perché del rientro in patria del contingente italiano dall'Iraq un poco, sia pure nel più ovattato e prudente dei modi, si riesca a discutere, mentre sulla permanenza sine die a Kabul sembrano tutti d'accordo, Unione compresa. Eccetera.
Il povero Abdul Rahman, che adesso non rischia più di morire martire della sua fede e può leggersi a suo piacere la Bibbia (e pazienza se qui da noi la chiesa ha sempre consigliato di non affrontare quel difficile testo e di farselo, semmai, spiegare dai preti), non deve comunque credere che i suoi guai siano definitivamente finiti. Dovrà presto sperimentare le dubbie delizie di una società che rifiuta, negli auspici dei suoi governanti, qualsiasi ipotesi di sviluppo multietnico e pluriculturale. Per ora ha cominciato a tagliarsi la barba: poi si vedrà. In ogni caso, ha avuto lo strano privilegio di aprire una contraddizione nel suo paese e di venire impiegato per chiuderla nel nostro. E magari si sarà accorto anche lui che per chiuderla davvero i suoi protettori non si sono troppo sforzati, visto che gli è bastato, more solito, metterci una toppa, una di quelle che per chiudere un buco da una parte ne spalancano un altro più in là, ma pazienza: non si può avere tutto. Nella fiduciosa attesa del primo musulmano cui un governo italiano concederà l'asilo politico perché a casa sua gli vengono negati i diritti civili (e non venitemi a dire che è un'ipotesi puramente teoretica: in Israele, per citare un paese a caso, succede tutti i giorni) gli porgiamo comunque il nostro benvenuto più caloroso.