I rom vittime del nazifascismo sono migliaia di uomini, donne e bambini emarginati, perseguitati, sterilizzati in massa, deportati, rinchiusi nei campi di concentramento, utilizzati come cavie, uccisi nelle camere a gas e nei forni crematori.
Ma la storia del loro sterminio continua a essere, sostanzialmente, storia negata, persino evitata, trascurata dalla maggior parte degli storici e degli studiosi (basti pensare che la prima giornata di commemorazione della vittime rom del nazismo si è tenuta nel 1994 al Museo dell'Olocausto di Washington).
Invece l'argomento dovrebbe suscitare interesse fosse anche solo per il fatto che la storia dello sterminio nazifascista di rom e sinti è, insieme a quella della Shoah ebraica, connessa al pensiero razziale e alle sue aberranti conseguenze. Invece e purtroppo se anche negli ultimi decenni si è cominciato a diffondere qualche dato su questa pagina tragica del nazifascismo, non si può dire altrettanto sulle ragioni che condussero sinti e rom nelle camere a gas del Terzo Reich. Annoverati infatti genericamente tra le vittime, rom e sinti sono poi tralasciati dalla stragrande maggioranza della storiografia che continua così sostanzialmente ad accreditare l'ipotesi secondo cui furono nei lager come asociali o criminali, ignorando più o meno consapevolmente il fatto che queste caratteristiche derivavano, secondo i nazisti, dalla genetica e non erano, perciò, modificabili.
Per fortuna oggi anche questa verità sta emergendo, cominciando finalmente a chiarire che, come scriveva fin dai primi anni '60 Miriam Novitch ebrea sopravvissuta ai lager e prima in assoluto a tentare di documentare lo sterminio dei rom e dei sinti la persecuzione nazista dei rom e dei sinti fu, esattamente come quella degli ebrei, razziale.
Anche per questo sostengo l'importanza di iniziative come questa. La celebrazione della memoria in sé per sé non è interessante ne utile, stanca e non serve a capire o ragionare.
È invece importante far conoscere la storia e la sua evoluzione per superare gli stereotipi e i luoghi comuni.
Perché la conoscenza dell'altro diventi senso di rispetto e reciprocità che sono alla base del vivere comune. Anche in questo senso è importante il documentario Porrajmos: perché ci consente di entrare in un'abitazione Rom, e ci permette di ascoltare il dialogo di una famiglia seduta ad una bella tavola come tutte le famiglie del mondo. Perché ci rende partecipe delle difficoltà degli anziani a raccontare. Anche i testimoni ebrei ritornati dai campi di sterminio avevano pudore a raccontare, tanto che molti hanno aspettato anni per ricordare. Ricordare per tutti noi.
Quello che mi auguro è che tutti, Rom e non Rom, troviamo la forza e il coraggio per dire e ascoltare, per metterci insieme confrontandoci e arrichendoci affinché non ci sia mai più un Porrajmos né una nuova Shoà, ne per noi né per nessun altro popolo sulla Terra.
Per cause
genetiche
Secondo i nazisti, l'asocialità zingara non era dovuta a ragioni di comportamento: gli zingari erano ladri, truffatori, nomadi, pericolosi, per cause genetiche, perché tali caratteristiche erano nel loro sangue, irrimediabilmente tarato e perciò irrecuperabile.
Da questo assurdo punto di vista, due furono dunque i popoli uccisi quello ebreo e quello rom , per lo stesso motivo razziale e con gli stessi metodi quelli della cosiddetta soluzione finale e dello sterminio nazista.
Tra i fautori delle idee razziali ci furono, in primo luogo, molti scienziati e ricercatori che, fin dai primi anni del nazismo, si posero, più o meno opportunisticamente, al servizio del potere elaborando teorie che esplicitavano giustificazioni alla prassi criminale dei nazisti.
Va anche detto, però, che il terreno era già stato preparato perché le teorie e le ricerche sulla presunta nocività del popolo zingaro erano avviate da anni. A Monaco di Baviera esisteva, fin dal 1899, un Ufficio informazioni sugli zingari diretto da uno zelante funzionario statale, Alfred Dillmann, che, nel 1905, pubblicò un volume intitolato Zigeunerbuch in cui aveva raccolto 3350 nomi e informazioni dettagliate su 611 persone, delle quali 435 definite zingari e 176 girovaghi assimilabili agli zingari. Una schedatura perfetta e, ovviamente, riutilizzata con facilità dall'amministrazione del Terzo Reich che, infatti, trasferirà l'Ufficio di Dilmann a Berlino ribattezzandolo Centrale per la lotta alla piaga zingara.
Atteggiamenti di questo tipo, comunque, non esistevano solo in Baviera: molti altri Länder fornirono informazioni e elenchi alla centrale di Monaco, tanto che nel 1925 questa banca dati aveva già accumulato oltre 14.000 nomi provenienti da tutta la Germania e la schedatura delle impronte digitali di tutti i rom residenti in Baviera.
La Baviera fu anche il primo Land a andare oltre le semplici regolamentazioni di tipo amministrativo varando, nonostante l'opposizione di socialdemocratici e comunisti, una vera e propria legge sugli zingari, emanata nel 1926 e nella quale, oltre a ogni sorta di restrizioni e controlli (basati sul pregiudizio per cui tutti gli appartenenti al popolo rom conducevano inesorabilmente vita disonesta), era chiaramente scritto che «il concetto di zingaro è universalmente noto e non richiede ulteriori delucidazioni».
Si può quindi affermare che la persecuzione e lo sterminio nazista dei rom e sinti si inserisce in una storia secolare di discriminazione e violenza che, però, solo all'interno del sistema e dell'ideologia nazionalsocialista ha trovato certe forme di espressione e concretizzazione.
Robert Ritter,
il massimo esperto
Tre anni dopo l'ascesa al potere di Hitler, nella primavera del 1936 il ministero degli interni del Reich crea, nell'ambito dell'Ufficio sanità del Reich di Berlino, un istituto di ricerca che si chiama Rassenhygienische und bevölkerunsgbiologische Forschungsstelle (Istituto di ricerca sull'igiene razziale e la biologia della popolazione) che ha il compito di indagare sulla popolazione nomade. A dirigerlo viene messo il dottor Robert Ritter che, in breve, verrà considerato il massimo esperto in materia al servizio del governo nazista.
Con i suoi collaboratori, tra i quali gli antropologi Adolf Würth, Gerhard Stein e soprattutto la sua assistente Eva Justin, puericultrice diplomata, Ritter visita città e campagne, campi nomadi, scuole, prigioni e campi di concentramento ed elabora teorie sulla pericolosità della razza zingara, di origine ariana ma ormai irrimediabilmente tarata da un gene molto pericoloso, il Wandertrieb (l'istinto al nomadismo), che confermano «l'irrecuperabilità della razza zingara» condannandola, secondo i canoni del pensiero nazionalsocialista, allo sterminio.
Le prime deportazioni di rom e sinti, di circa 400 persone, sono documentate a Dachau, nel 1936. Nello stesso anno, in occasione dei giochi olimpici di Berlino, la polizia ripulisce la città imprigionando circa 600 rom e sinti in un ex discarica vicina a un cimitero, il campo di Marzahn, che poco dopo verrà dichiarato campo di concentramento. Intanto vengono anche aperti i campi per zingari di Frankfurt am Main e di Düsseldorf.
Ritter e i suoi collaboratori svolgevano le loro ricerche anche in questi campi: perseguitavano le loro vittime con domande relative alla loro vita e agli alberi genealogici e analizzavano le loro caratteristiche fisiche facendo rilevazioni sul colore degli occhi, la misura dei crani, e, a volte, prendendo persino il calco di cera del volto. I poveri rom e sinti non capivano i motivi di tanto accanimento e vivevano tutto questo terrorizzati, anche per le terribili punizioni loro inflitte se non soddisfacevano le richieste. Lo ricorda Otto Rosenberg, un sinto sopravvissuto alla guerra:
«La maggior parte delle persone rispondeva. Però ce n'erano alcune che non ricordavano tutto. Gli anziani, per esempio. Mi ricordo ancora la fine che fecero fare a uno di loro. Si trattava di una vecchia, avrà avuto un'ottantina d'anni, ma era ancora una donnona, alta e robusta. Bene, non so perché, in ogni modo, la presero e le rasarono i capelli. Fu una scena terribile. Forse non aveva detto la verità o forse non aveva risposto esattamente alle domande della Justin e del dottor Ritter, fatto sta che scappò e si nascose lungo il Falkenberger Weg. Purtroppo però la scovarono e con l'aiuto della polizia le tagliarono tutti i capelli. Ma non è tutto, perché poi la costrinsero a star ferma mentre le versavano dell'acqua gelida addosso. E mi ricordo che in quel periodo faceva già molto freddo. Morì nel giro di tre giorni. L'hanno sotterrata nel cimitero di Marzhan, in una specie di cassa di latta, neanche in una bara».
C'è una particolarità che distingue, nelle elucubrazioni razziste dei nazisti, gli ebrei dai rom, ed è proprio il concetto di qualità razziale, ossia la distinzione tra individui di razza pura o impura. Nel caso degli ebrei il negativo era individuato nell'ebraicità in quanto tale. Ne scaturiva quindi una concezione per cui la presunta quantità di sangue ebraico definiva il grado di estraneità al Völk ariano, che diminuiva quanto più nella storia genealogica di ciascun individuo erano presenti incroci con «ariano-tedeschi». Per i nazisti, quindi, l'ebreo cosiddetto «puro» (vale a dire discendente da ebrei «puri») rappresentava quindi il tipo umano da eliminare, classificabile tra gli «inferiori». Nel caso dei rom e dei sinti invece quello da perseguitare era l'individuo di sangue «misto», il «mischling». E più era «misto», «impuro», peggio era. Perché gli zingari erano portatori di una specifica contraddizione. Visto che erano di origine «ariana», in quanto popolo proveniente dall'antica India, ma visto anche che li si considerava comunque «razza inferiore», se ne deduceva che dovevano essersi talmente mescolati, «incrociati» con individui di altre razze da essere ormai completamente «razzialmente degenerati». E questa teoria, secondo i nazisti, che ovviamente non consideravano fattori fondamentali, calzava a pennello per un popolo nomade.
Di conseguenza, ad esempio, secondo Ritter, ormai solo meno del 10% degli zingari era ancora «puro» mentre il restante 90% era costituito da incroci indesiderabili e incontrollati nel corso dei secoli, che dovevano quindi essere sottoposti a misure che ne impedissero la riproduzione, come la sterilizzazione, la ghettizzazione, e poi la deportazione e lo sterminio.
La sterilizzazione
coatta
Nel passaggio dalla teoria alla prassi della persecuzione razziale una delle prime ipotesi formulate per risolvere la cosiddetta questione zingara fu quella della sterilizzazione coatta (che Poliakov ha giustamente definito una sorta di sterminio dilazionato nel tempo).
Lo stesso dottor Ritter, mentre proponeva la deportazione e il lavoro forzato, si premurava di raccomandare sempre di sterilizzare preventivamente tutti i rom e i sinti, in particolare i bambini non appena avessero compiuto il dodicesimo anno di età.
Uno dei primi accenni alla sterilizzazione risale al 1937, in un articolo su una rivista tedesca che dichiarava «il 99% dei bambini zingari» della città di Berleburg ormai maturo per la sterilizzazione. E ancora nel 1945, ad Auschwitz, il professor Clauberg sterilizzò più di 130 donne rom.
Si può quindi dire che la sterilizzazione di rom e sinti fu praticata durante tutti gli anni del nazismo, con operazioni mediche sommarie e terribili, prima negli ospedali, poi nei lager. E spesso, prima degli interventi, i nazisti costringevano le loro vittime a firmare le autorizzazioni, quelle stesse firme utilizzate poi, nel dopoguerra, come alibi per i loro crimini.
L'angelo
della morte
Un altro capitolo impressionante della storia dei rom e dei sinti nei lager è quello degli esperimenti medici nei quali, probabilmente in quanto considerati «ariani decaduti», erano utilizzati come cavie. E dai quali raramente uscivano vivi.
Lo stesso dottor Mengele, l'SS-Hauptsturmführer soprannominato angelo della morte di Auschwitz, installò il suo laboratorio proprio accanto al settore zingaro e compì atroci esperimenti sul nanismo, sulla bicromia oculare e sulle malattie che si diffondevano nel campo, in particolare il Noma, una specie di tumore della pelle causato dalla denutrizione e particolarmente diffuso tra i bambini zingari prigionieri. Una delle sue cavie fu Barbara Richter, che ci ha lasciato una intensa testimonianza:
«Il dottor Mengele mi ha presa per fare esperimenti. Per tre volte mi hanno preso il sangue per i soldati. Allora ricevevo un poco di latte e un pezzetto di pane con il salame. Poi il dottor Mengele mi ha iniettato la malaria. Per otto settimane sono stata tra la vita e la morte, perché mi è venuta anche un'infezione alla faccia...».
Gli esperimenti sui piccoli rom erano abituali per Mengele che nutriva una vera e propria ossessione per i bambini e per i gemelli rom e sinti in particolare. In alcuni casi le detenute si illusero anche di salvare i propri figli presentandoli al dottore come gemelli, magari semplicemente perché della medesima altezza. Ma il loro destino non fu diverso da quello del resto degli internati:
«Ricordo in particolare una coppia di gemelli: Guido e Nina, di circa quattro anni. Un giorno Mengele li portò via con sé. Quando ritornarono erano in uno stato terribile. Erano stati cuciti insieme, schiena contro schiena, come i siamesi. Le loro ferite erano infette e ne colava il pus. Piansero giorno e notte. Poi, i loro genitori, ricordo che il nome della madre era Stella, riuscirono a trovare un po' di morfina ed uccisero i loro bambini, per placarne le sofferenze».
Himmler
e la questione zingara
A mano a mano che i nazisti istituzionalizzavano e perfezionavano la loro macchina razziale anche il problema zingaro andava definendosi, assumendo dimensioni e caratteristiche proprie che, anche se mai riassunte in una legge specifica, erano nei vari decreti emanati a getto continuo nel Terzo Reich.
In questo contesto il 1938 è un anno cruciale per la storia dello sterminio dei rom. L'anno in cui Heinrich Himmler, dal giugno 1936 capo delle SS e della polizia di Berlino, diventa anche il responsabile della questione zingara nel Reich.
Alla fine dell'anno, e precisamente l'8 dicembre 1938, Himmler emana un decreto fondamentale per la storia dello sterminio del popolo rom, la prima legge che li riguarda esplicitamente e esclusivamente come «razza» e nella quale, tra l'altro, viene regolata la concessione di documenti ai cittadini zingari in base a perizie razziali e si impone loro una scelta obbligata tra sterilizzazione e internamento.
Il testo è molto chiaro: la «questione zingara» è considerata una «questione di razza» e come tale va affrontata.
Da allora in poi, e fino al crollo del Terzo Reich, è un proliferare continuo di leggi e provvedimenti sulla «questione zingara»: oltre a quelle che regolano (e annullano) i diritti nell'ambito di matrimonio, lavoro, scuola (analoghe a quelle formulate per gli ebrei), in vigore dalla fine del 1938, e all'ordinanza del 7 agosto 1941, che definisce le distinzioni tra zingari di razza pura (Z), zingari al 50% (ZM), zingari per più o meno del 50% (ZM+ o ZM-), non zingari (ZN), si attivano i meccanismi della deportazione di massa, tanto è vero che in una lettera dell'ottobre 1939 Eichmann in persona, interrogato sull'organizzazione dei trasporti degli zingari, scrive: «mi pare che il metodo più semplice sia quello di agganciare a ciascuna tradotta (di ebrei) qualche vagone di zingari».
Non possono perciò esservi dubbi sul carattere di queste norme che non solo esplicitano i motivi razziali della persecuzione, ma indicano la presenza di una «questione zingara» non criminale che minaccia il popolo tedesco. La sorte dei rom nella Germania nazista e in tutti i territori occupati risulta identica a quella degli ebrei: persecuzione, deportazione e morte. I vagoni merci diretti ai lager, quindi, trasportano insieme ebrei, rom e sinti per una stessa via, diretti verso lo stesso tragico destino.
Esistono documenti terrificanti che raccontano la persecuzione di rom e sinti in Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Austria, Francia, Belgio, Olanda, Yugoslavia. Ed esistono documenti altrettanto terrificanti sulla loro presenza a Dachau, Ravensbrück, Treblinka, Buchenwald, Bergen Belsen, Chelmno, Maidanek, Gusen, Theresienstadt, Belzec, Sobibor, Auschwitz.
In questo quadro va anche tenuto presente ciò che accade in Unione sovietica, invasa dalle armate hitleriane il 22 giugno 1941. Cominciano allora, anche nei territori dell'est, gli assassini dei sinti e dei rom perpetrati, in particolare, dalle famigerate Einsatzgruppen, che seguivano le armate tedesche uccidendo e sterminando in esecuzioni sommarie e di massa. La ferocia delle esecuzioni risulta, a volte, dai rapporti redatti dagli stessi assassini: uomini, donne e bambini braccati, costretti a spogliarsi nudi prima dell'esecuzione, uccisi con un colpo alla nuca sul bordo di una fossa comune in cui venivano lasciati a centinaia, alle volte ancora vivi.
La soluzione
finale
La soluzione finale della questione zingara fu decretata il 16 dicembre 1942, quando Himmler firmò l'ordine di internare, o trasferire, tutti gli zingari ad Auschwitz.
Proprio Auschwitz risulta essere il lager sul quale esiste maggiore documentazione sullo sterminio e sulla prigionia dei rom e dei sinti, probabilmente anche perchè qui, tra il febbraio del 1943 e l'estate del 1944, esistette una sezione appositamente riservata a loro: il campo BIIe di Birkenau, per famiglie, lo Zigeunerlager.
Era un recinto solo per gli zingari, vicino ai crematori, dove gli zingari vivevano in condizioni particolari, vale a dire diverse da quelle di tutti gli altri prigionieri. Ma solo diverse, non migliori. Perché va subito sottolineato il fatto che non è suffragabile l'ipotesi per cui i rom avrebbero dovuto vivere: forse, avrebbero potuto morire in modo diverso. Ma il loro destino di morte non è discutibile: del resto non si spiegherebbe diversamente l'ordine di internali proprio ad Auschwitz, all'epoca già trasformato in campo di sterminio.
Nello Zigeunerlager rom e sinti erano radunati in una sezione speciale, circondata da filo spinato attraversato da corrente elettrica ad alta tensione. Le famiglie restavano unite: uomini con donne, genitori con figli, mariti con mogli. Subito destinati alle loro baracche, appena arrivati erano tatuati e rasati a zero, ma poi nessuno si preoccupava più dei loro capelli, che ricrescevano. Le donne potevano partorire (il primo bimbo venne alla luce l'11 marzo 1943, quando il lager esisteva da pochissimo tempo, e da quel giorno vennero regolarmente registrate nascite), nessuno lavorava e, soprattutto, i prigionieri rom e sinti non erano sottoposti alle terribili selezioni per le camere a gas, prassi, invece, per tutti gli altri deportati. Una volta entrati nell'area BIIE rom e sinti erano, in definitiva, quasi abbandonati alla loro sorte.
Molti altri prigionieri, che li vedevano da altre sezioni del campo, consideravano tutto questo un privilegio. E purtroppo tale lo hanno considerato anche alcuni storici che hanno liberamente parlato della vita nello Zigeunerlager come di una condizione molto particolare e meno difficile che per la maggior parte degli altri prigionieri. Una simile presentazione dei fatti risulta, però, offensiva e denigrante di fronte alla loro sorte. Come ha ricordato Ulrich Konig lo Zigeunerlager non corrispondeva ad alcun progetto umanitario. Lo mostra persino il libro mastro del campo di Birkenau che ci restituisce l'altissimo livello di mortalità dello Zigeunerlager dove, dei circa 300 bambini nati nel periodo della sua esistenza, nessuno sopravvisse.
Le condizioni dello Zigeunerlager erano spaventose e i prigionieri rom erano come tutti gli altri prigionieri di Auschwitz. Nella primavera del 1943 il numero dei rom a Birkenau era di 16.000: le baracche erano sovraffollate ed in un blocco da 300 persone ce n'erano 1.000.
Hermann Langbein ricorda quando, come medico dell'infermeria, si trovò nel campo degli zingari:
«Su un pagliericcio giacciono sei bambini che hanno pochi giorni di vita. Che aspetto hanno! Le membra sono secche e il ventre è gonfio. Nelle brande lì accanto sono le madri, occhi esausti e ardenti di febbre. Una canta piano una ninna-nanna. A quella va meglio che a tutte, ha perso la ragione, mi dicono...Al muro è annessa una baracchetta di legno...È la stanza dei cadaveri. Ne ho già visti molti nel campo. Ma qui mi ritraggo spaventato. Una montagna di corpi alta più di due metri. Quasi tutti bambini. In cima scorazzano i topi».
Tutti
in una notte
La storia dello Zigeunerlager termina la notte tra il 31 luglio ed il 1° agosto 1944 quando i circa 4.000 zingari sopravvissuti nello Zigeunerlager fino a quel momento vengono condotti nelle camere a gas.
Le testimonianze su quella tragica notte sono agghiaccianti:
«L'ora dell'annientamento è suonata anche per i 4.500 detenuti del campo zingaro. La procedura è stata la stessa applicata per il campo ceco. Prima di tutto divieto di uscire dalle baracche. Poi le SS e i cani poliziotto hanno cacciato gli zingari dalle baracche e li hanno fatti allineare. Hanno distribuito a ciascuno le razioni di pane e i salamini. Una razione per tre giorni. Hanno detto loro che li portavano in un altro campo e gli zingari ci hanno creduto ... Il blocco degli zingari sempre così rumoroso, s'é fatto muto e deserto. Si ode solo il fruscio dei fili spinati e porte e finestre lasciate aperte che sbattono di continuo ».
Nel gennaio del 1945 i rom rimasti ad Auschwitz erano pochissimi: all'appello del 17 gennaio dieci giorni prima della liberazione risposero solo quattro uomini.
Non è facile dire quanti rom morirono ad Auschwitz, così come non si conosce con precisione nemmeno il numero di quelli uccisi in quella tragica notte. Secondo le fonti più accreditate sono circa 23.000 i rom morti in quel lager.
Altrettanto difficile stabilire il numero totale dei rom vittime del nazismo: le cifre ufficiali indicano circa 500.000 persone ma sembrano non tenere conto di molti dati e scontare la carenza di documentazione sull'argomento. Come abbiamo visto, infatti, il materiale d'archivio testimonia che molti rom, oltreché nei lager, furono uccisi nelle esecuzioni di massa nei territori dell'est e tanti altri furono sterilizzati e rimessi in libertà.
In realtà il numero totale dei rom uccisi sotto la dittatura nazista non è documentabile. Soprattutto perché è incerto il numero dei sinti e dei rom presenti in Europa prima della guerra, visto che molti non erano registrati alla nascita e tanti cambiavano luogo e nominativo nel corso della loro vita; e poi perché diversamente dagli ebrei non vivevano in comunità e quindi dopo la guerra, anche se si fosse voluto, non sarebbe stato facile contare i superstiti; e infine perchè il popolo rom ha una concezione della memoria diversa dalla nostra, che tenta di allontanare il male e il negativo dai ricordi, e poco incline alla documentazione scritta come mezzo di trasmissione.
Anche
in Italia
Se per quel che riguarda il nazismo come abbiamo visto si è arrivati, per quanto tardivamente, a conclusioni che inquadrano le vicende della persecuzione, della deportazione e dell'uccisione dei rom e dei sinti, e ci restituiscono un quadro almeno sufficiente dei fatti, non altrettanto si può dire per ciò che riguarda i rom e i sinti nell'Italia fascista.
Nel nostro paese, infatti, la ricerca è ancora molto mancante soprattutto a livello accademico come lo è, d'altra parte, anche quella sull'internamento in Italia, paese che non vuole riconoscere le proprie contiguità con il nazismo e quindi le proprie responsabilità nelle politiche di persecuzione razziale attuate in tutta Europa. Eppure di ricerca da fare ce ne sarebbe moltissima, come dimostrano gli studi di coloro che hanno cominciato a farla, da Carlo Spartaco Capogreco (I campi del duce) agli studenti universitari che, faticosamente, stanno aprendo nuove prospettive di lavoro su questi argomenti.
Anche per questo fino a pochi anni fa sulla persecuzione fascista dei rom e dei sinti esistevano solo rare fonti orali e dati documentari sparsi. Tra questi la presenza di sinti e rom nel campo di Ferramonti (uno dei più grandi campi di concentramento italiani esistito dal 1941 al 1943) o l'arrivo di alcuni rom italiani nel lager austriaco di Lackenbach, luogo di morte per migliaia di sinti e rom europei. Nelle testimonianze orali (raccolte faticosamente in tanti anni soprattutto da Mirella Karpati del Centro Studi Zingari di Roma), invece, alcuni ricordavano luoghi di prigionia italiani come Perdasdefogu (in Sardegna), Agnone (in Molise), Tossicia (in Abruzzo) o le isole Tremiti.
Considerando però anche il fatto che i testimoni rom e sinti utilizzano la memoria in modo molto diverso da quello a cui noi siamo abituati e all'interno di ambiti che poco hanno a che fare con lo scritto e il valore della testimonianza, basandosi invece su un'oralità che, nel tramandare, trasforma il ricordo, e tenendo anche presente che non sappiamo ancora quasi nulla su come vivevano rom e sinti nel nostro paese durante gli anni del fascismo, va detto che le testimonianze orali non erano sufficienti a illuminare i tempi, i modi e le ragioni della persecuzione.
Forse anche per questo la maggior parte di coloro che si sono occupati del problema della persecuzione fascista dei rom hanno generalmente liquidato la questione affermando che in Italia la politica discriminatoria era indirizzata essenzialmente contro gli stranieri e dovuta a ragioni di ordine e sicurezza. Secondo questa interpretazione fu l'occupazione della Yugoslavia e la conseguente fuga di molti rom da quel paese a indurre le autorità fasciste a internarli, cosa certamente anche vera ma che non comprende e spiega la totalità dei fatti.
La documentazione conservata all'Archivio centrale dello stato fornisce infatti ipotesi di studio diverse, riguardanti anche i rom e i sinti italiani.
Quello che i fascisti pensavano di sinti e rom e che non sembra poi molto diverso da quello che altri pensavano prima di loro o anche da quello che pensano molti ancora oggi emerge chiaramente da una circolare ministeriale del 1926 che ordina di espellere tutti gli zingari stranieri presenti nel regno per «epurare il territorio nazionale della presenza di carovane di zingari, di cui è superfluo ricordare la pericolosità per la sicurezza e per l'igiene pubblica per le loro caratteristiche abitudini di vita».
Arrestati, schedati,
espulsi, internati
Il primo ordine di internamento vero e proprio, e che riguarda inequivocabilmente anche Rom e Sinti italiani, risale invece all'11 settembre del 1940, quando una circolare del ministero degli interni, indirizzata a tutte le prefetture, ordina rastrellamenti di zingari e loro concentramento in tutto il paese, «sotto rigorosa sorveglianza in località meglio adatte ciascuna provincia». È un ordine importante, che coinvolge prefetture e organi di governo locale che, oltretutto, si dimostrano piuttosto solleciti, impazienti e zelanti nel cominciare a cercare e imprigionare zingari. Quasi subito, e da tutto il paese (Udine, Ferrara, Aosta, Bolzano, Ascoli Piceno, Trieste, Verona, Campobasso), giungono al ministero telegrammi di risposta all'ordine ministeriale che informano sulle persone catturate e spesso chiedono cosa fare.
Se questi documenti ci consentono, però, solo di immaginare ipotesi di persecuzione e prigionia, indicando solo intenzioni, senza fornire informazioni sull'effettività dell'internamento, altri documenti ci permettono invece di fare un ulteriore passo avanti. Si tratta dei fascicoli personali degli arrestati. Pagine lasciate per decenni negli schedari dell'Archivio centrale, lettere e corrispondenze varie tra ministero e prefetture che riguardano determinate persone rom e sinte negli anni che vanno dal 1928 al 1943.
Sembra, e forse simbolicamente, di leggere storie di oggi: vicende di giostrai, allevatori di cavalli, calderai che battono il rame e il ferro, uomini e donne che girovagano vendendo portafiori di vimini o stoffe ricamate e che vengono continuamente arrestati e espulsi dal territorio italiano nel quale cercano di continuare a vivere, a esistere, accerchiati da norme e regole che glielo impediscono, trascinandoli, contemporaneamente, nella tragedia della seconda guerra mondiale. Quasi tutti prima vengono ripetutamente arrestati, schedati e espulsi, poi, a partire dalla fine del 1940, e quindi dall'emanazione dell'ordine di internamento, reclusi, imprigionati in diversi luoghi.
I prigionieri rom erano ovviamente sottoposti alle regole generali dell'internamento in Italia, che prevedevano due tipi di procedure: il campo di concentramento e il soggiorno obbligato in una data località, il cosiddetto internamento libero, in cui i prigionieri dovevano vivere in un luogo determinato, senza potersi spostare e costretti, per esempio, a lavorare. Entrambi i tipi di internamento avvenivano, solitamente, in luoghi isolati e piccoli paesi, in condizioni di vita dure, regolate da un'infinità di norme rigide e spesso crudeli, di controllo e sorveglianza, della quali, per rom e sinti, la più tremenda era senza dubbio la mancanza di libertà e l'impossibilità di spostarsi liberamente e mantenere i contatti con l'esterno.
A Boiano,
per esempio
Se da una parte questa documentazione ci permette di affermare, ormai senza dubbio, l'effettività dell'internamento, dall'altra ci consente anche di dire, con certezza, che il regime fascista adottò verso rom e sinti provvedimenti distinguibili in almeno due fasi (ovviamente intrecciate al contesto più generale della guerra e della conseguente politica di internamento): la prima, che precede il settembre 1940, e la seconda, che va dal 1940 al 1943 (anno dell'armistizio che segna l'inizio dell'occupazione tedesca).
Prima del 1940 rom e sinti venivano quasi sempre arrestati e subito espulsi dal Regno, accompagnati al confine e lì abbandonati, tanto che generalmente rientravano quasi subito e la procedura si ripeteva periodicamente. Dalla fine del 1940, invece, la politica di espulsione si trasforma in politica di internamento. E in queste carte la realtà della prigionia emerge in tutta la sua evidenza, ed emergono anche alcuni dei luoghi dove rom e sinti erano reclusi.
Se alcuni, come Vinchiaturo (Cb), le Isole Tremiti e la Sardegna risultano, per il momento, solo come casi isolati, ci sono invece altri luoghi dove la politica di internamento fascista nei confronti di rom e sinti si fa più chiara. In particolare a Boiano, Agnone e Tossicia.
A Boiano, in provincia di Campobasso, è certa la presenza di rom e sinti almeno nell'estate del 1941. Ma forse anche prima visto che altri documenti relativi al campo, recentemente rintracciati (per esempio da Rosa Corbelletto, che ha appena compilato una tesi di laurea, dove propone nuovi e molto interessanti documenti sull'internamento di Roma e Sinti in Italia), segnalano due famiglie, in totale 17 persone, assegnate a questo campo già nel dicembre del 1940. I prigionieri erano alloggiati fuori dal paese, nella vecchia Manifattura Tabacchi, composta da cinque capannoni freddi e umidi e in condizioni così precarie e terribili da indurre persino funzionari e amministratori fascisti a tentare opere di manutenzione e risanamento, e infine a trasferire gran parte dei prigionieri in altri luoghi. Ma non gli zingari, che furono invece trasferiti solo alla chiusura di Boiano avvenuta nell'agosto del 1941. Erano, allora, 65 rom e sinti, di cui 21 minori di 15 anni.
Agnone,
solo per Rom
E da Boiano arrivarono ad Agnone, un paesino vicino a Isernia, dove il campo si trovava fuori dal paese, a 850 metri di altezza, allestito in un ex convento benedettino requisito dai fascisti. In questo campo i documenti non solo attestano la presenza di rom e sinti ma addirittura fanno supporre che, almeno da un certo periodo in poi, e probabilmente dalla fine del 1941, il campo fosse destinato esclusivamente a loro. Dai documenti si capisce che gli zingari arrivano, trasferiti anche da altri campi, nel luglio del 1941 quando si comincia anche a pensare di adibire il campo solo per loro. E nel luglio 1942 ne risultano 250. Ci sono lettere e corrispondenze che indicano anche che nel gennaio del 1943 venne istituita una scuola per i bambini rom, o più precisamente «per l'educazione intellettuale e religiosa dei figli minorenni degli zingari colà internati». Il 23 aprile del 1943 un documento attesta la presenza di 146 internati zingari e si premura di sottolineare che tutto procede bene, compresa la scuola che si occupa di «toglierli dalle loro abitudini randagie e amorali».
Ma le cifre e gli elenchi del campo devono ancora essere rintracciati e studiati: intanto perché non si capisce come possano passare da 250 a 130 come attestato e nel giro di soli tre mesi e poi perché esistono testimonianze, come quella di Tommaso Bogdan, che anticipa il suo arresto e il suo internamento ad Agnone già dal 1940. E i riscontri documentari sembrerebbero confermare. È una testimonianza molto intensa, raccolta recentemente, nella quale Tommaso Bogdan, che oggi vive in un campo sosta a Roma, ricorda anche i suoi due fratelli morti di stenti ad Agnone e i suoi genitori che non sopravvissero alla fuga dal campo quando, dopo l'armistizio dell'8 settembre, qui come anche in altri campi, i fascisti aprirono le porte ordinando ai prigionieri di andarsene.
Il campo di Tossicia, infine, è uno dei più noti. Funzionante dall'ottobre del 1940, venne smantellato con l'armistizio. Prima di allora, però, vi erano rinchiusi anche rom e sinti. Disponiamo infatti di almeno due elenchi che documentano la presenza di almeno 108 di loro nel mese di luglio del 1942. Tossicia era uno dei peggiori campi dell'Italia centrale. Gli internati vivevano ammassati in tre case e casa Mirti era quella riservata agli zingari, in condizioni intollerabili: gli edifici erano privi di finestre, non c'era acqua e le fogne allagavano continuamente la zona.
Ci sono pochissime informazioni, e assolutamente frammentarie, sul destino dei rom e dei sinti nel periodo dell'occupazione tedesca e della Repubblica Sociale e soprattutto sul destino di coloro che, a quell'epoca, si trovavano già imprigionati e segnalati. In ogni caso è bene riflettere sulle eventuali responsabilità italiane nel trasferimento e nella successiva eliminazione dei prigionieri rom e sinti nei campi di sterminio hitleriani. Da segnalare, almeno, la testimonianza, indiretta, della partigiana Laura Conti che, internata a Gries di Bolzano, ricorda tra i prigionieri «bambini zingari italiani e spagnoli» che vivevano con le madri nell'unica baracca femminile e «parlavano solo la loro lingua quindi fu difficile sapere qualcosa su di loro». E quella del sinto Vittorio Mayer (che riuscì a salvarsi nascondendo la sua origine e diventando violinista nell'esercito tedesco) che ricorda la sorella Edvige morta a vent'anni nel campo di Bolzano: «maledetta guerra! Ho sempre nel cuore l'immagine di mia sorella, rinchiusa dietro i reticolati».
Per chiudere questa breve sintesi sull'Italia va sottolineato che, grazie al lavoro di alcuni storici e studiosi caparbi, oggi possiamo affermare con certezza che anche nel nostro paese i fascisti perseguitavano, discriminavano, arrestavano e imprigionavano rom e sinti e che, addirittura, pensavano e organizzavano luoghi di internamento solo per loro. Dove venivano imprigionati e schedati come zingari. E questo, per quanto ancora non esistano dati oggettivi per assimilare la politica fascista a quella razziale nazista, qualcosa potrebbe voler dire.
Dopo
la guerra
Per concludere qualche parola sul dopoguerra. E soprattutto una riflessione: nemmeno la tragicità della fine della seconda guerra mondiale riuscì a essere occasione di pace e convivenza con il popolo rom.
Nei vari processi contro i nazisti responsabili di crimini contro l'umanità primo tra tutti quello di Norimberga mai nessuno decise di sentire testimonianze di rom e sinti. E ancora quindici anni dopo, al processo di Gerusalemme, nonostante Eichmann si fosse dimostrato consapevole delle pratiche di deportazione degli zingari, il capo di imputazione che riguardava questo argomento venne annullato.
Nel dopoguerra anche Robert Ritter e i suoi collaboratori continuarono a vivere più o meno indisturbati. Nessuno di loro venne mai condannato.
La sottovalutazione, o la negazione, della «questione zingara» fin dal primo dopoguerra nasconde, in verità, anche un problema molto complesso e concreto, quello dei risarcimenti dovuti alle vittime del nazismo. Nonostante la Convenzione di Bonn imposta dagli Alleati alla Germania nel 1945 prescrivesse il pagamento di riparazioni e indennizzi a tutti coloro che erano stati perseguitati per ragioni di politica razziale, nel caso dei rom e dei sinti questo fu negato e tutte le loro istanze di risarcimento eluse dalla magistratura tedesca.
Col tempo però, la discussione sullo sterminio dei rom e, in particolare, sul riconoscimento o meno di uno sterminio razziale si dovette confrontare sempre più con le prove documentarie che man mano emergevano e che provavano il carattere razziale appunto della persecuzione di rom e sinti. Le autorità tedesche, allora, cercarono di barcamenarsi nel più totale cinismo e disprezzo razzista. Se prima i giudici, con una sentenza assurda, riconobbero la persecuzione razziale solo a partire dal decreto di internamento ad Auschwitz (1942), poi si trincerarono dietro al fatto che non esisteva un organismo rappresentativo del popolo romanì al quale affidare i risarcimenti.
Fu infine solo nel 1980 che il governo tedesco riconobbe ufficialmente e finalmente che rom e sinti avevano subito «sotto il regime nazista nell'Europa occupata, una persecuzione razziale».
A noi resta un dato sul quale riflettere: il popolo romanì, dopo la seconda guerra mondiale, aveva diritto ai risarcimenti. E questo diritto non fu mai affermato.