Rivista Anarchica Online


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

La speranza esiste
Una chiacchierata con Serge Utgé-Royo

Una leggenda, una leggenda quasi solo nostra forse, ciò non di meno una leggenda forte e rispettabile, quella di un cantante che, a voce spiegata, sostiene gli scioperi degli anni ’70, la Spagna del ’36 – di cui è un figlio, non solo in senso morale: i suoi genitori erano due profughi della rivoluzione a Parigi –, che si è sempre assunto la sua militanza libertaria come un valore di gioia e di speranza, con concretezza, senza però precludersi le sfumature, le zone d’ombra, le increspature e la frequentazione dei confini, senza cui non ci può essere poesia, senza cui la musica, specie se impegnata, diventa una marcia militare.
Questi è Serge Utgé-Royo. Un nome quasi impronunciabile, un’essenza tenera e delle idee belle chiare.

Serge Utgé-Royo

(Lunga digressione personalissima che poco c’entra). Avevo 22 anni che decisi finalmente di passare un’estate piuttosto lunga in Francia per imparare un po’ la lingua, per aprirmi con le mie forze questo scrigno di tesori che già a pelle tanto m’attirava. All’epoca mi occupavo soprattutto di fumetti e si sa che la Francia è anche la patria delle bé-dé (come li chiamano lì). Misi in azione la fidanzata dell’epoca, che trovò un’amica la quale frequentava una pensione/rifugio/albergo di montagna (non so come tradurlo… lì si chiamano gite) gestito da gente simpatica, giusto fra Briançon e Grenoble, che di buon grado avrebbe accettato di scambiare vitto e alloggio con una mano in cucina e quant’altro potessi fare. Attivato il contatto partii col mio zaino e la chitarra.
È stato un periodo talmente formativo per la mia vita che già solo a pensarci m’imbarazzo. È difficile guardare in faccia i momenti che ti hanno cambiato da quello che eri a ciò che sei.
Lì trovai un altro dei miei padri putativi Alain, socio di quella straordinaria accozzaglia di sessantottini mai pentiti che gestiva La Breche (questo appunto il nome della gite in questione). Ex-operaio, ex-troskista diventato anarchico, sindacalista sorpreso a fondere con l’acido le punzonatrici dei cartellini in fabbrica nei giorni di sciopero (era la sua personale interpretazione del concetto di picchetto!). E poi cuoco professionale, appassionato allievo della bellezza, botanico dilettante, distillatore clandestino di assenzio (oddio! Forse questo non va detto…), bevitore formidabile e maestro di vita assolutamente involontario (tranne che da ubriaco).
In uno scaffale della sala comune della Breche aveva installato un giradischi e aveva messo in comune la sua imponente – per quanto negli anni assai saccheggiata – raccolta di vinili: quello è stato il motore di tutto ciò che voi leggete su queste pagine.
Il primo disco che mi mise in mano – Ça c’est formidabile! Ecoute absolument car c’est pas facile à trouver! – fu quello di un camarade anar che andava sempre a cantare per la cause (anche per quello sciopero dell’acido nelle timbratrici): Serge Utgé-Royo. (Fine della lunga digressione)

A giugno di quest’anno Serge Utgé-Royo è stato invitato a esibirsi nel corso del dodicesimo festival Ferré di S. Benedetto del Tronto. Avevo da provare e da cantare, il giorno prima e quello dopo, ma ho telefonato al mitico Prof. Gennari (grazie, grazie) e alla sua ghenga di pazzi indispensabili che un posticino me l’hanno trovato (grazie, grazie) e ho preso il treno.
Quello che segue è il resoconto della lunga chiacchierata con Serge nei camerini del teatro Calabresi, subito dopo la sua maiuscola esibizione.

È difficile portarsi addosso questa definizione di “cantore dell’anarchia”, “voce del movimento anarchico”? È forse un peso eccessivo per qualcuno che si considera più che altro “un uomo che canta”?

Credo di ritrovarmi addosso questa definizione perché è tantissimo tempo che canto e… sono ancora vivo!
Ho cantato la Spagna. Ho affrontato nelle mie canzoni i temi cari agli anarchici: il potere, la collettivizzazione, l’antimilitarismo, l’antirazzismo, l’omofobia… ho scritto una canzone sull’omofobia e l’ho registrata già nel mio primo disco. Più tardi ne ho scritto un’altra sull’omosessualità femminile… Ho affrontato il problema della prostituzione…insomma ho affrontato una serie di problemi dolorosi e perciò spesso tabù, salvo che nell’ambiente anarchico. L’ambiente anarchico – che ho frequentato dall’infanzia, mio padre era anarchico – è quello in cui ho incontrato le persone meno prigioniere dei tabù, qualcuno ce n’è… ma, insomma, è l’ambiente in cui mi sono formato.

“L’espoir hesite…” (La speranza
esita…), raccolta di testi
di Serge Utgé-Royo

La cosa che mi colpì subito dei tuoi dischi era questa voce alta, cristallina, spiegata, che fa da contrappeso a una militanza altrettanto chiara, ma anche poetica. Le tue sono canzoni forse politiche, ma non militanti. Nel senso che c’è tutto un particolare modo di affrontare i problemi personali che diventano problemi sociali, ma che restano per te un fatto anzitutto individuale e perciò poetico.

È ciò che più mi manca nelle canzoni che sento girarmi attorno…forse c’è qualche gruppo rock che si avvicina a queste tematiche ma, per mio gusto, non nella maniera giusta. Molti amici che fanno del punk-rock mi regalano spesso i loro dischi…io li ascolto ma non riesco a capire il significato delle parole, affogate come sono nella violenza sonora. Vado a leggermi i testi e vi trovo delle cose interessantissime, ma mi pare che manchi la voglia di comunicarle all’esterno del proprio giro ristretto. C’è un modo poco sensibile verso il singolo individuo già solo nei modi di affrontare le tematiche. Io invece adoro la pulizia dei suoni… sono tutto il contrario di un punk. Il mondo attuale invece è del tutto punk. Io penso che le rivolte vadano certo tirate fuori, ma anche cantate in modo tale da non aggredire l’ascoltatore. Per me l’ascoltatore è qualcuno a cui il cantante deve procurare del piacere.

Un atteggiamento musicalmente aggressivo – diciamo rock – conduce al divismo, quando invece il lavoro della bella canzone, ben suonata e ben cantata, è piuttosto un lavoro che conduce all’artigianato musicale.

Questo dell’artigianato è un concetto a cui aderisco totalmente. Io faccio un lavoro di lima forsennato, per arrivare a un risultato che mi soddisfi getto via tonnellate di fogli. Brassens faceva così, Ferré faceva così, Caussimon faceva così …gente che ho sempre ammirato, non solo per il loro talento ma proprio per il loro sguardo sul mondo, lavorava così e questo lavorio sulle proprie canzoni è una forma di attenzione agli altri che mi ha sempre commosso.
Forse quest’atteggiamento s’è un po’ perso. Non lo so… dovrei ascoltare i cantanti rap, ma a livello estetico non mi soddisfano.

Per quanto si cerchi non necessariamente si riesce a trovare del buono nelle sensibilità e nei linguaggi che ci sono troppo distanti, al di là delle tematiche.

Forse è anche una questione di epoche – attenzione non dico di età ma di epoche –. Quando cominciavo a scrivere e a cantare c’erano molte lotte, io cantavo nelle fabbriche occupate, ce n’erano tantissime. Ora non ce n’è quasi più, per lo meno in Francia. Si andava a cantare nelle fabbriche moltissimo, spessissimo… certo non si aveva mai in tasca un soldo, ma era quello che volevo fare. Andare a cantare lì era il mio atto militante, ancor più che scrivere canzoni. Andavo a cantare per i miei: io sono figlio di operai, ho fatto l’operaio. Era la mia famiglia e questa mia famiglia ora non esiste più.
C’erano i grandi sindacati con cui ho sempre litigato, ma non trovo più nemmeno loro. Mi sembrava che ci fossero delle forze sociali in grado di tenere sotto controllo i governanti, mentre oggi più che mai mi sembra che le democrazie rappresentative permettano solo e soltanto di scegliersi il proprio padrone. E poi c’è il potere economico che nessuno vota ma che è il vero potere.

La cosa bellissima di questo tuo discorso è proprio questa personalizzazione: tu dici “era la mia famiglia, era la mia storia” e questo fa sì che tu ne parli come un marinaio parla del mare, un contadino della terra. Le tue canzoni, per quanto politiche, sono sempre un racconto personale e mai un indottrinamento…ricordo addirittura che mi stupii quando, nelle note di copertina del tuo secondo disco , quasi chiedevi scusa per una canzone sulla Spagna del ’36, a tuo dire un po’ troppo innografica.

Davvero ho scritto una cosa del genere? Beh…in effetti anche sul palco spesso dico “può darsi che voi non siate d’accordo, ma questo e ciò che penso”. Non mi piace affatto l’idea di aggredire, di scioccare o di vessare il pubblico con delle accuse o delle recriminazioni. Ho un’enorme preoccupazione per il modo in cui ciò che scrivo può essere recepito. Come immaginerai le mie preoccupazioni non sono certo le stesse di quelle dei manager delle case discografiche… però è un rovello costante.
A volte rileggo dei miei testi dopo anni che li ho scritti e incisi, dunque senza più poter apportare delle modifiche, e mi chiedo: sarò stato abbastanza chiaro? Forse avrei dovuto lavorare di più su questo concetto, questa parola, quest’immagine.
D’altronde è il problema generale della canzone: in tre, quattro minuti si vogliono dire un sacco di cose e l’ambiguità è sempre in agguato.

In compenso cantando c’è sempre la possibilità di dire delle cose al di là delle parole con i silenzi, con la musica.

Questo è il privilegio dell’interpretazione, della grande fortuna di trovarsi su un palco. Io adoro guardare in faccia il pubblico, a me non fa paura, non sono venuti ad assassinarmi! E quando con l’espressione sembrano approvare quello che io canto è per me la felicità.
Perciò quando non sono del tutto in forma soffro molto. Nel febbraio scorso avevo una serata sui Pirenei, c’era la neve, ho preso freddo e mi son ritrovato del tutto afono, come non m’era mai successo da ché faccio davvero il cantante e curo costantemente la mia voce con gli esercizi. Ero triste, vergognoso e speravo che non venisse nessuno. E invece, nonostante il freddo e la neve, c’era un pienone. Il direttore del teatro nel camerino m’ha detto “non ti preoccupare, la gente ascolterà le parole”. Che un direttore dicesse questo m’ha dato una grande carica, così sono entrato in scena. Fra una canzone e l’altra io continuavo a scusarmi ma le gente applaudiva sempre di più. Quando non fingi il pubblico lo capisce e ti ringrazia.

Copertina del libro “Noir coquelicot”
(Il tulipano nero) di Serge Utgé-Royo

Il tuo terzo disco – “Quartiers des couleurs” – dopo i primi due voce e chitarra (o poco più), segnala il passaggio in cui ti trasformi da cantore militante ad artista della canzone, evolvendo negli arrangiamenti, nella scrittura, nel canto. Il periodo corrisponde, se non erro, al tuo trasferimento in Belgio?

“Quartiers des couleurs”, un disco concepito e realizzato in Belgio, era effettivamente il primo disco che registravo in un vero studio con dei veri musicisti. Ora son tornato ad abitare nella regione parigina, ma in Belgio ho vissuto 13 anni, ho lavorato con tanta soddisfazione che, anche dopo il mio ritorno in Francia, andavo lì a registrare: avevo trovato dei tecnici del suono straordinari, con delle dita d’oro! A un certo punto registravo il pianoforte in Francia e poi andavo a fare le voci in Belgio; è sempre la vecchia questione dell’artigianato, io faccio delle opere di voce, come un ebanista fa delle opere di legno, così vado a cercarmi l’ebano migliore… però questo gioco ha cominciato a costarmi un po’ troppo e son tornato a produrre tutto in Francia.
I miei primi due dischi – soprattutto il primo –, erano registrati più con eroismo che con arte…oggi me ne vergogno e un po’ e ne nascondo le tracce.

Infatti piuttosto che ristamparli in CD hai preferito riregistrare le canzoni che ti convincevano ancora. Negli ultimi anni ti sei dedicato soprattutto a registrare il patrimonio di canzoni del movimento, ben tre CD di quelli che tu chiami “Controcanti della mia memoria”, questo mi fa capire che tu hai preso gusto alla tua voce e al tuo canto…

Sì?… Effettivamente è stato per me un vero piacere registrare quelle canzoni, era anni che volevo farlo, ma pensavo che mi sarebbe costato troppo e che mi sarei coperto di debiti… perché sai, io non sono ricco e le mie opere sono tutte autoprodotte. A un certo punto l’ho fatto, senza nessuna pretesa di completezza: sono canzoni del movimento ma sono solo quelle importanti per la mia vita, quelle che ancora mi piacciono musicalmente. Nutrivo poi l’intenzione di rendere reperibile un repertorio per chi ancora non lo conosce, perciò ho infarcito i libretti dei CD di note storiche, per dare il massimo ausilio possibile a chi ascolta per la prima volta il nome di Sacco e Vanzetti, di José Afonso o di Pinelli.

Notavo anche che la copertina del cofanetto che raccoglie questi CD l’ha disegnata Tardi, il mio fumettista preferito, e questo crea un legame, fa pensare che poi non tutto sia proprio finito…

Già, ma Tardi – cui riporterò i tuoi complimenti – è un altro della mia generazione. Chi fa oggi la provocazione culturale intelligente?

Non certo quei cantanti – ce ne sono tanti, sia in Francia che in Italia – che hanno fatto del minimalismo la loro dottrina e che rifiutano per principio di trattare i grandi temi e in particolare i temi politici. Io penso che costoro sono peggio degli “utili idioti” di leninista memoria, costoro sono degli intelligenti inutili.

Sono dei becchini, dei veri e propri becchini del pensiero.
In Francia i giornalisti dicono che costoro rappresentano la rinascita della canzone d’autore, dal momento che non fanno un genere espressamente commerciale, come se fossero in qualche modo eredi diretti di Brel, di Caussimon, di Felix Leclerc…
Sventura! Sventura!
Sono la loro pietra tombale piuttosto.

Nel paragonare la situazione della canzone italiana a quella francese mi viene da pensare che l’Italia ha una straordinaria tendenza a buttar via il proprio passato e così, spesso, di alcuni dei suoi più grandi artisti non serba alcuna memoria. La Francia al contrario ha la tendenza a farne sempre dei monumenti…

E questo rischia di schiacciare chi viene dietro.

Dunque è necessario continuare a spostarsi. Tu oggi verso cosa ti sposti?

In questo momento la mia ancora di salvezza è la scrittura. Ho appena rieditato il mio romanzo Noir Coquelicot (papavero nero) e ne sto scrivendo il seguito, però essendo un romanzo storico necessita di tanta ricerca e lavoro in biblioteca.
Allora continuo a cantare un po’, perché adoro la scrittura ma è troppo lenta e non genera incontri. Io vado verso gli umani a comunicare delle cose che spesso sapevano già. Dopo lo spettacolo alcuni vengono a dirmi “quelle cose le sapevo, ma grazie di averle dette”. Oggi forse il nostro peggior nemico, il più forte, è la solitudine.
C’è una memoria delle grandi manifestazioni di 30 anni fa, ma ci raccontano che oggi tutto è passato, che la storia è finita. I partiti di sinistra si son rotti il muso o sono completamente imborghesiti e – diciamocelo – anche il movimento libertario non gode di ottima salute, o forse è semplicemente indebolito.
La gente dunque è sola e se un vecchio cantante libertario gli racconta, forse anche degli orrori, ma sorridendo e andando incontro agli umani… quelli ti guardano come a dire “esiste ancora!”

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it