1.
Si rilasciano dichiarazioni, documenti e prigionieri, ma anche
fattori di crescita come le oncomoduline, proteine e ormoni. Se, poi – giocando all’etimologia – proviamo a scavarne la storia, ecco che il verbo “rilasciare” viene subito ad averci a che fare con il “rilassamento” e perfino con il “salasso”. Un nucleo di significato comune, beninteso, è facilmente individuabile – da qualcosa considerato “unità” vien via o vien portato via qualcosina –, ma è evidente che i vari processi di metaforizzazione cui è stata sottoposta la parola costituiscono una storia lunga – difficilmente ricostruibile e mai soddisfacentemente (come sempre quando si tratta di parole). Se questa difficoltà riguarda tutti coloro che hanno della parola in questione una competenza quotidiana, figuriamoci che ostacoli incontra chi la parola la sente per la prima volta.
2.
Ogni comunicazione è una forma di scommessa. Si scommette, innanzitutto, sul codice scelto (per esempio, la lingua, o il linguaggio dei segni, o il codice Morse, ecc.) e, al contempo, sulle selezione degli elementi che costituiscono questo codice (la tal parola, il tal segno). Se l’interlocutore condivide questi elementi, c’è la possibilità di mettere qualcosa in comune – “comunicare”, per l’appunto, sta per “mettere in comune” –, ma, in caso contrario, è buio pesto. La relazione umana che ne segue è già problematica – come quando si sceglie una parola il cui significato è ignoto all’interlocutore –, prima ancora di constatare se quel che effettivamente si vuol dire è condiviso o meno.
A maggior ragione, le cose si complicano se la relazione in atto soffre di un’asimmetria precostituita – come è il caso in cui un cittadino straniero prova a porsi in relazione con un cittadino indigeno: quest’ultimo è portato a presupporre che le sue parole siano “chiare” nella misura in cui riterrà, consapevolmente o meno, che la cultura che le ha prodotte sia l’unica o la migliore cultura possibile.
3.
L’esempio dell’immigrato che rimane interdetto di fronte al pubblico impiegato, che usa il verbo “rilasciare” a proposito di documenti fondamentali per la sua stessa esistenza (“ri”-“lasciare” è forse un “lasciare di nuovo”? Certamente no – si “ri-lascia” anche per la prima volta), fa parte di una ricca casistica molto “italiana” esibita dal sociologo Fabio Quassoli nel suo recente Riconoscersi – Differenze culturali e pratiche comunicative (Raffaello Cortina editore, Milano 2006), uno studio ampio e approfondito delle prime barriere contro l’intrusione culturale.
Ponendo l’accento sui processi e sulle problematiche che scaturiscono dalle loro definizioni, ma lasciando sullo sfondo quelle operazioni mentali comuni che, a prescindere dalle differenze culturali e dalle gerarchizzazioni sociali, la possibilità di comunicazione – come la possibilità di traduzione da una lingua all’altra – comunque consentono, Quassoli ridisegna l’architettura dell’interazione umana con particolare attenzione verso il fragile ed il barcollante: i fraintendimenti, le incomprensioni, le trappole nascoste nei rituali, i limiti del riconoscimento della specificità culturale altrui nel mantenimento dell’asimmetria sociale nonché le impervie strade che, forse, possono condurre al rispetto reciproco (basti pensare all’uso e all’abuso dei pronomi – l’alternanza del “lei” e del “tu”, per esempio – nelle forme di deferenza e di cortesia).
Rende conto, così, dei meccanismi sociali in virtù dei quali qualcuno – lo straniero immigrato, di solito – spesso e volentieri né viene considerato cittadino né persona.
4.
Sullo sfondo, dicevo, resta il vecchio problema della “lingua comune” di vichiana memoria. Ci capiamo perché, nonostante tante differenze, abbiamo qualcosa in comune. Eseguiamo operazioni mentali analoghe, ma non tutti i patrimoni linguistici sono uguali. Ogni cultura non produce soltanto significanti diversi, ma anche significati diversi – nel senso che in mutate condizioni materiali di esistenza cambiano anche le cose che riteniamo opportuno dirci: un concetto è espresso in una lingua e nell’altra no, una differenza è posta in una cultura percettiva e nell’altra no (come in quella tribù amazzonica studiata dagli antropologi dove, vivendo nel verde della foresta, non si possedeva alcun nome per designare il colore “verde”). Va da sé che, nel tradurre, s’incontrino problemi – tanto è vero che spesso, nel passare da una lingua all’altra, ci si vede costretti a ricorrere a perifrasi.
Senza queste consapevolezze nessun processo di integrazione può essere avviato. A meno che non si voglia far sì che chi è accolto, fin dalle prime interazioni comunicative, venendo posto di fronte a codici “superiori” sia educato alla subalternità.
Felice Accame |