È uscito recentemente questo piccolo libro di David Graeber
(Frammenti di antropologia anarchica, Elèuthera, Milano 2006): un testo breve, quasi una “bozza” più che un’opera finita; “piccolo” nelle dimensioni, ma interessante e tutt’altro che superficiale nei contenuti. Il titolo per primo lo annuncia: si tratta di “frammenti”, poco più di un insieme di appunti, di spunti di riflessione, volutamente incompiuti. L’abbozzo “di una teoria radicale che ancora non esiste, ma che forse un giorno esisterà”.
Graeber è un antropologo: uno studioso un po’ particolare, quindi, come tutti gli antropologi, che per essere definiti tali non possono esimersi dal viaggiare e fare ricerche “sul campo”. Ma l’antropologia è pur sempre una disciplina scientifica ed accademica, con tutti i problemi e i limiti che questo comporta. Una disciplina però che ha come oggetto di studio le società umane; tutte le società, anche e in particolar modo le più distanti e le meno conosciute. Quindi comunità autogestite, economie non mercantili, gruppi umani che hanno scelto modi di vivere e di gestire i propri rapporti sociali spesso molto diversi dai nostri. Per questo l’autore ritiene che un incontro tra l’anarchismo (“una filosofia politica estrema, che con estrema lucidità decostruisce i meccanismi del dominio sociale”) e l’antropologia culturale sia non solo auspicabile, ma anche concretamente possibile. Anarchismo e antropologia hanno feconde potenzialità di arricchimento reciproco, secondo Graeber, ad esempio nella questione – centrale per entrambi – del potere, dell’autorità, della gerarchia.
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La contraddizione
degli antropologi
Gli antropologi, racconta, hanno a disposizione un immenso archivio di esperienze umane, di svariati esperimenti politici e sociali, in gran parte sconosciuti, un archivio che il più delle volte è considerato non tanto un’eredità comune dell’umanità, ma quasi un piccolo segreto un po’ vergognoso da tenere nascosto. Come se l’antropologia fosse spaventata dal proprio potenziale. Gli antropologi sarebbero invece nella posizione migliore per fornire un’arena intellettuale aperta a ogni tipo di dibattito su scala globale, se non si scontrassero con una riluttanza quasi “innata” a muoversi su progetti del genere. Graeber analizza la contraddizione insita nel mestiere dell’antropologo: da quando si sono mossi i primi passi di questa disciplina, egli si è trovato, volente o nolente, “dalla parte degli esclusi”, pur avendo sempre fatto parte dell’apparato del dominio: un tempo, perché esponente dei vari imperi coloniali, oggi perché integrato nel sistema (sempre più globalizzato) delle università, o perché lavora come consulente di mercato o su qualche progetto delle Nazioni Unite. Le costanti dichiarazioni di ribellione contro quell’élite globale di cui egli stesso costituisce una parte (se pur marginale), finiscono così per essere meramente rituali. Graeber auspica un cambiamento, quindi, ovvero la scelta da parte degli antropologi di fare causa comune con gli anarchici, ad esempio nel caso dei ribelli zapatisti del Chiapas.
Nel frattempo, l’autore redige questo piccolo manifesto, in funzione di una teoria radicale ancora inesistente, ma con tutte le carte in regola per poter esistere un giorno.
Il suo libro si apre con un quesito: “Perché nell’accademia ci sono così pochi anarchici?”. Nel cercare una risposta, Graeber accenna ai vari movimenti anarchici o ispirati all’anarchismo che stanno crescendo un po’ ovunque, ai rivoluzionari del Messico, dell’Argentina, dell’India, e ai tradizionali principi anarchici (l’autonomia, l’associazione volontaria, l’autogestione, il mutuo appoggio, la democrazia diretta) a cui tutti questi movimenti generalmente si ispirano, anche coloro che non amano dichiararsi espressamente anarchici. E si chiede per quale ragione gli effetti di queste tendenze non arrivino dentro all’accademia. Problema analogo, del resto, per tutte le altre discipline (sociologia, economia, letteratura, scienze politiche e via di seguito). Il marxismo, al contrario, osserva Graeber, ha sempre avuto una grande affinità con l’accademia. Ma del resto, aggiunge, è stato anche l’unico grande movimento sociale inventato da un laureato. I “padri fondatori” dell’anarchismo del XIX secolo, invece, non pensavano affatto di aver inventato qualcosa di nuovo: i principi fondamentali dell’anarchismo (autogestione, associazione volontaria, mutuo appoggio), facevano riferimento a forme del comportamento umano considerate vecchie quanto l’umanità. Così il rifiuto dello stato, la critica della disuguaglianza, del dominio, delle varie forme di violenza istituzionale e di negazione della libertà. Più che una dottrina, più che un vero e proprio corpus teorico, si tratta di un modo di pensare, di sentire, si tratta del rifiuto di un certo tipo di relazioni sociali, avendo ben presente come invece dovrebbe essere la società. Se la tradizione marxista si basa sugli autori, se disciplina accademica e politica marxista si sono sviluppate assieme (con tutte le conseguenze che ne sono derivate…), le correnti dell’anarchismo prendono invece i loro nomi dalle pratiche o dai principi organizzativi a cui si ispirano, e non da qualche grande pensatore.
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David Graeber |
Anarchici
e accademia
Così sintetizza Graeber: “Il marxismo ha cercato di essere un discorso teoretico o analitico sulla strategia rivoluzionaria. L’anarchismo ha cercato di essere un discorso etico sulla pratica rivoluzionaria.”. È un ritratto “caricaturale”, riconosce lo stesso autore, e tra le due prospettive, aggiunge, c’è una potenziale complementarità. Ma rende l’idea. E aiuta a comprendere meglio perché ci sono così pochi anarchici nell’accademia. L’anarchismo infatti si occupa in primo luogo di questioni pratiche, e i principi che sostiene (che i mezzi debbano essere adeguati ai fini, che non possa ottenersi alcuna libertà con mezzi autoritari, che bisognerebbe dare forma concreta alla società che si desidera realizzare a partire dalle proprie relazioni personali…) non possono trovare spazio all’interno delle università, “forse l’ultima istituzione occidentale che è sopravvissuta più o meno nella stessa forma dal Medioevo a oggi, insieme alla chiesa cattolica e alla monarchia britannica.”. Ma, continua il nostro autore, “questo non significa che una teoria anarchica sia impossibile.”. Né che gli anarchici debbano essere per forza contrari alla teoria. Certo, non un’unica “Grande teoria anarchica”, che sarebbe contraria ai suoi stessi presupposti.
Ma qualcosa che nasce nello spirito e nel cuore dei processi del partecipazionismo anarchico, nei piccoli gruppi di affinità come nelle enormi assemblee plenarie. E più precisamente il processo utilizzato per la creazione del consenso, che somiglia ben poco allo stile settario, frazionista e prevaricatore così popolare invece in altri gruppi radicali. Questo significa quindi, in campo teorico, “riconoscere il bisogno di differenti prospettive teoriche, unite solo da un insieme di impegni e analisi condivise.”, una discussione che “dovrebbe concentrarsi su questioni pratiche”, quindi “una serie di prospettive differenti, riunite dal desiderio condiviso di comprendere la condizione umana, in moto verso una libertà più grande”.
Una “teoria bassa”, piuttosto che una “teoria alta”, “per fare i conti con i problemi reali e immediati che emergono nel corso di un progetto di trasformazione della realtà”. Ad esempio: contro la “linea politica” (che è la negazione stessa della politica), contro l’antiutopismo. Soprattutto, “una teoria sociale anarchica deve rifiutare in maniera consapevole ogni residuo di avanguardismo.” Qual è allora il compito di un “intellettuale radicale”, secondo Graeber?
“(…) guardare chi sta creando alternative percorribili, cercare di immaginare quali potrebbero essere le più vaste implicazioni di ciò che si sta (già) facendo, e quindi riportare queste idee, non come disposizioni, ma come contributi e possibilità, come doni.”
Un progetto del genere dovrebbe avere due momenti: “uno etnografico e l’altro utopico, sospesi in costante dialogo”. Quindi un gran cambiamento, all’interno della stessa antropologia. Non poi così difficile: nel corso del tempo, osserva Graeber, è apparsa una strana (e significativa) affinità tra antropologia e anarchismo.
L’autore compie quindi un breve excursus tra i lavori di alcuni antropologi del recente passato, tra cui Marcel Mauss, che ha avuto una notevole influenza sugli anarchici grazie alla sua descrizione delle “economie del dono”; economie che si basavano sul rifiuto di calcolare anziché sul calcolo, che “si sviluppavano su un sistema etico che rifiutava consapevolmente i principi basilari dell’economia.” Cita poi Pierre Clastres, uno dei pochi antropologi dichiaratamente anarchici, e il suo discorso sui popoli “senza stato”, popoli che, secondo Clastres, avevano probabilmente scelto a ragion veduta di evitare un’evoluzione del genere.
Graeber si avventura poi nella descrizione di “una teoria del contropotere immaginario”, rilevando che i ragionamenti di Mauss e Clastres suggeriscono “che il contropotere (…) esiste anche là dove gli Stati e i mercati non sono ancora presenti”, ovvero “si realizza in organizzazioni capaci di garantire che figure del genere non compaiano sulla scena.” Ciò che è “contro”, quindi, è un aspetto potenziale, una possibilità dialettica all’interno della stessa società. Passando attraverso alcuni esempi, Graeber arriva ad osservare che “il mondo contemporaneo è pieno di spazi anarchici”, dei quali però, più i loro propositi hanno successo, meno se ne parla.
Il contropotere, quindi, (radicato soprattutto nell’immaginario), prende forma nelle istituzioni tipiche della democrazia diretta, basate su determinati valori, quali la convivialità, l’unanimità, la fertilità, la prosperità, la bellezza…; dove esiste un alto livello di disuguaglianza, il contropotere diviene rivoluzionario. Ogni antropologia veramente impegnata sul piano politico, allora, dovrà chiedersi seriamente che cosa divide il mondo definito “moderno” dal resto della storia umana, dove vengono relegati tutti gli altri. Diventerà necessario, a questo punto, far “saltare in aria i muri”.
L’esempio
del Chiapas
Graeber prova così ad immaginare un corpus di teoria sociale che possa servire allo scopo, stilando un breve “manifesto sul concetto di rivoluzione” (“…un’azione rivoluzionaria è qualsiasi azione collettiva che affronti e respinga una qualche forma di dominio e di potere, e che nel frattempo, alla luce di questo processo, ricostituisca nuove relazioni sociali”), individuando le differenziazioni mistificatorie tra “società basate sulla parentela” (quindi “primitive”) e “società moderne” (come se non avessimo anche noi il nostro sistema di parentela, le nostre discriminazioni etniche, razziali, di classe…) e arrivando infine a tracciare i “principi di una scienza inesistente”, ovvero “i contorni di alcune aree teoriche che un’antropologia anarchica potrebbe esplorare”. (Una teoria dello stato, una teoria delle entità politiche non statali, un’altra teoria del capitalismo, l’analisi del potere/ignoranza o potere/stupidità, un’ecologia delle associazioni volontarie, una teoria della felicità politica, una teoria della gerarchia, una della sofferenza e del piacere, una, o più, dell’alienazione… sulle quali, per saperne di più, dovrete andare a leggervi il libro, non essendo possibile esporle nel dettaglio in questa sede…). Ipotizza subito dopo un programma di massima sull’eliminazione delle disuguaglianze tra Nord e Sud, sulla lotta contro il lavoro (in quanto “relazione di dominio”), sulla democrazia (che non potrebbe essere altro che diretta, costituita ad esempio da libere e autonome municipalità), cogliendo l’occasione per ricordare che kratos significa forza, o addirittura violenza (del demos, del popolo; che doveva quindi venire sottomesso in via permanente a una minoranza…), e per ribadire che l’idea dell’azione diretta (di massa e non violenta) si è sviluppata originariamente in Sudafrica e in India, così come l’attuale modello “a rete” tra i ribelli del Chiapas, mentre la nozione di gruppi di affinità arriva dalla Spagna e dall’America Latina… che c’è molto da imparare dal resto del mondo, quindi.
Un sassolino
nello stagno
Oltre all’invito rivolto da Graeber ai suoi “colleghi” antropologi (in sostanza di smetterla di stare seduti sopra i “segreti” di cui sono venuti a conoscenza, perché si tratta di un bene comune che appartiene all’intera umanità), il libro si conclude (ma non il discorso…) con l’esempio concreto dei ribelli del Chiapas, che sono stati subito definiti dai mass media internazionali un gruppo di indios Maya che chiedevano l’autonomia indigena, senza ascoltare davvero le loro parole… Le loro parole sono state ascoltate sul serio da tanti giovani anarchici europei e nordamericani, “che hanno subito iniziato a mettere sotto assedio i summit di quella élite globale con cui gli antropologi mantengono un’alleanza tanto scomoda e spiacevole”, e questi giovani anarchici hanno avuto ragione. Gli antropologi pertanto, insiste, dovrebbero fare causa comune con loro. Hanno a portata di mano strumenti di enorme importanza per la libertà umana, di cui occorre iniziare ad assumersi al più presto la responsabilità. È un appello che l’autore rivolge anche a se stesso. Ci pare in qualche modo un impegno, quindi, una promessa. Particolarmente sentita e sincera.
Il movimento anarchico d’altra parte, per comprensibili ragioni, potrebbe non condividere questo progetto di avvicinamento dell’anarchismo all’accademia. L’idea di Graeber del resto è qui appena abbozzata, come egli stesso per primo ci informa. Aperta al contributo di chiunque ne voglia e sappia cogliere lo spirito e il messaggio. È come un sassolino gettato in uno stagno: dove l’acqua forse è più vitale di quanto può apparire a prima vista. Lasciarlo cadere sul fondo, potrebbe rappresentare un’occasione sprecata.