Quand’ero piccolo e tornavano nel paese d’origine i parenti emigrati in Svizzera, ricordo che l’impatto con noi coetanei era sempre molto particolare. Nelle nostre conversazioni, nei modi di vestire, nella musica che ascoltavamo, insomma in quasi tutti i nostri gusti e comportamenti (anche nei desideri) eravamo diversi. O meglio, eravamo proprio due mondi separati che procedevano per vie proprie e spesso non comunicanti. Che cosa era successo? Eravamo figli di fratelli o sorelle, avevamo gli stessi nonni, appartenevamo alla stessa nazionalità, perché così estranei?
Quando mi trovo, per lavoro o per altre ragioni quotidiane, a confrontarmi con gli immigrati che vivono nella mia città o quando leggo fatti di cronaca spicciola o accadono eventi sconvolgenti e traumatici che hanno come protagonisti uomini e donne che sono arrivati da immigrati nel nostro paese, questo riferimento alla mia storia personale mi viene immediatamente in mente.
La “scoperta” che gli attentatori alle torri gemelle e alla metropolitana londinese fossero persone che già da tempo vivevano nei rispettivi paesi, e quindi non provenivano direttamente da nazioni extra europee ed extra statunitensi, ha fatto molto discutere e riflettere i vari commentatori e analisti.
La cosa sembrava “strana” perché non pareva spiegabile questa profusione di odio e violenza nei confronti dell’Occidente proprio in chi viveva pienamente la propria quotidianità tra di noi, nelle nostre città, nelle nostre scuole, nei nostri luoghi di incontro. A parte che spesso non è proprio così vero che questa integrazione sia effettiva, vale la pena comunque di superare questa obiezione e cercare una risposta più profonda. Ed è qui che mi soccorre, seppur consapevole delle differenze che pure esistono tra un’epoca, un contesto, una cultura, così diverse, il ricordo della mia diretta esperienza e l’analisi delle sue caratteristiche.
Difesa dal
nuovo ambiente
I miei (i nostri) parenti in realtà per difendersi dall’ambiente nuovo e per proteggere la loro identità di italiani, tendevano a vivere tra di loro e a mantenere usi, costumi, tradizioni, del paese d’origine. Ma questo assortimento di eredità identitarie era quello del momento in cui sono partiti, era cioè legato e identificato con un tempo, uno spazio, un simbolismo datati perché, nel frattempo, tante cose erano intervenute a modificare questo punto di partenza condiviso. I cambiamenti però non erano sopraggiunti con la stessa frequenza, velocità, radicalità (talvolta) tra noi che vivevamo qui e loro che invece vivevano in un altro paese. Quando ci incontravamo infatti non eravamo più sulla stessa lunghezza d’onda, noi ci riconoscevamo attraverso di loro nella nostra immagine e nel nostro ricordo ormai appartenente al passato. Loro si sentivano più portatori di noi dell’italianità, delle tradizioni culturali e religiose che ritenevano essere specifiche dell’Italia.
La stessa cosa, penso, sta succedendo nelle famiglie degli immigrati in Europa e negli USA. Naturalmente con gradazioni, sensibilità, forme e quant’altro, diverse e variegate. Ma penso che la condizione strutturale di fondo sia equiparabile e ci possa aiutare a capire che cosa sta accadendo. Dal mio osservatorio privilegiato (la scuola) posso registrare significative conferme di questo fenomeno. Infatti quello che accade tra i bambini e le bambine, e ancor di più tra i ragazzi e la ragazze adolescenti, rivela queste specificità sopra espresse. Quando arrivano (mi si perdoni ancora le schematizzazioni, ma conto sul buon senso di chi legge) in Italia le famiglie sono giovani e i figli abbastanza piccoli. L’inserimento all’interno delle scuole e quindi il contatto con i loro pari età fa scattare inevitabilmente il confronto. Questo ha naturalmente aspetti positivi e altre caratteristiche negative (il consumismo ad esempio). Ma il confronto è forte, esplosivo, mette in movimento desideri, aspettative, richieste, sensibilità che molto spesso cozzano con un ambiente di vita e una prospettiva culturale fortemente identitaria fino a trasformarsi, talvolta, in veri e propri conflitti con corollario di violenze e sopraffazioni commesse dagli adulti nei confronti dei più indifesi. Sono stato e sono, ahimè, testimone con troppa frequenza di questi fatti. Lo scontro quindi, talvolta sotterraneo, talvolta palese, è inevitabile e rivela proprio questa rigidità di cui sono portatori i genitori e i parenti che non rappresenta più neanche la realtà delle loro terre d’origine o di provenienza. Queste persone si sentono minacciate da un presunto pericolo rappresentato da noi tutti, dalle libertà e dai valori nei quali viviamo, da un lato, dall’altro sono effettivamente rancorosi nei confronti di un modello di società che non è certo esente da torti e saccheggi storicamente perpetrati. Mi rendo conto che questa non è che una possibile spiegazione e che sicuramente altre ce ne sono.
Figli più radicali
Un recente sondaggio effettuato in Inghilterra (Cfr.: “Corriere della Sera” del 30 gennaio 2007) rivela però un altro dato assai sconcertante che pare veritiero per una realtà che da più tempo di noi è alle prese con problematiche di immigrazione e di integrazione: i giovani figli (tra i 16 e i 24 anni) di immigrati di lungo corso sono più radicali dei loro padri. Secondo questi dati risulterebbe che il 74% vuole il velo per le donne, il 46% approva la poligamia, il 7% ammira Al Qaeda. In particolare ciò che emerge da questo sondaggio indica un crescente riferimento all’islam sul piano religioso, ideologico e identitario. Infatti ben l’86% afferma senza tentennamenti che “la mia religione è la cosa più importante della mia vita”. Questi dati dimostrano senza appello che anche il modello inglese di “valorizzazione delle differenze”, tradottosi nella creazione di ghetti etnici-confessionali-identitari è miseramente fallito. Così come è altrettanto evidente il fallimento dell’altro modello (mi si perdoni sempre la schematizzazione), quello laico di stato alla francese come dimostrano, tra l’altro, i recenti fatti della rivolta delle banlieues.
Difficile allora capire esattamente il fondo dei problemi (se non si vogliono applicare facili e rassicuranti strumenti ideologici di analisi). Ma alcune considerazioni mi pare opportuno comunque vadano evidenziate.
Nel considerare le differenze che esistono tra vari popoli e tra varie culture, le tensioni e le contraddizioni si accentuano quando il richiamo identitario è fortemente selettivo. Più prevale una specifica e generale identità più è possibile che questa sia foriera di scatenare violenze e conflitti. Più gli esseri umani si riconoscono come portatori di diverse identità contemporaneamente, più è scongiurato il pericolo (peraltro sempre latente) che una di queste sprigioni tutta la sua logica negando le altre, proprie e altrui. Ognuno di noi infatti è più identità insieme, occorre impedire che un’operazione totalizzante soffochi la varietà e la ricchezza che invece è in ciascuno. Trasferito sul piano sociale penso che questo ragionamento possa preludere a una società libera dal furore identitario e invece ricca del meticciato culturale.
Il discorso sul rapporto tra identità e violenza merita un approfondimento che ora non è qui possibile e che potrà costituire un prossimo intervento magari anche una serena discussione.
Ma voglio concludere citando il monologo che l’ebreo Shylock pronuncia durante il processo a cui viene sottoposto ne Il mercante di Venezia di William Shakespeare:
“Un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, membra, sensi, affetti, passioni? Non si nutre dello stesso cibo, non è ferito dalle stesse armi, non va soggetto alle stesse malattie, non si guarisce con gli stessi mezzi, non ha il freddo dello stesso inverno e il caldo della stessa estate d’un cristiano?”