I nodi al pettine
Lavoro difficile oggi quello di una pedagogia critica che voglia davvero sfuggire al tecnicismo riformatorio, agli imperativi del mercato per confrontarsi davvero con le questioni centrali dell’educazione, in un orizzonte che non sia quello della legislatura, ma nemmeno il sol dell’avvenire. Soprattutto in un mondo che da una parte si è interamente pedagogizzato in cui come diceva Illich, tutto dev’essere insegnato (far da mangiare, fare la corte, fare l’amore, tutto diventa materia di insegnamento) e dall’altra in cui la formazione viene sempre più sottratta ai formatori e alla formazione formalizzata.
I libri recenti di due tra i maggiori pedagogisti italiani editi recentemente da Elèuthera sono una diretta testimonianza di questa crisi di una disciplina che per essere attuale è costretta a varcare i propri confini, a infrangere gli steccati disciplinari, a far propri oggetti che prima erano di esclusiva pertinenza di altri campi.
Paolo Perticari nel suo L’educazione impensabile (d’ora in poi EI), e Raffaele Mantegazza nel suo I buchi neri dell’educazione (d’ora in poi BN) ci guidano attraverso alcuni punti nodali di questa crisi del pedagogico e di un possibile uso critico della pedagogia.
Innanzitutto si tratta di ri-definire la pedagogia, restituirle un respiro più ampio: non, come recitano i dizionari, teoria dell’educazione, ma uno strumento teorico interdisciplinare per definire le condizioni di dominio e le prospettive di liberazioni dei soggetti. Questa è la pedagogia che ci interessa.
Una teoria pedagogica è tanto più specifica quanto meno è settoriale, è tanto più efficace quanto più riflette, dal suo specifico punto di vista, la totalità dei rapporti sociali (BN, 100). E ancora più incisivamente, il luogo per un discorso sulla pedagogia non è mai pedagogico: la pedagogia non si fonda su se stessa se non nei deliri claustrofobici dell’educazione totalitaria nazista o fascista nelle sue mille metamorfosi, non ultima quella del mercato mondiale e del capitalismo trionfante (BN, 66). Questa prima avvertenza dovrebbe portarci a dire basta a tutte le teorie pedagogiche (variamente meticciate) che hanno ridotto l’insegnamento/apprendimento a pura tecnologia: sono da dichiarare morte tutte le esperienze editoriali e didattiche che, con una miopia sconcertante, hanno la pretesa di fornire ricettari su cosa e come insegnare che insegnano a insegnare «solo le competenze disciplinari», come se il mondo non stesse crollando intorno a loro(EI, 78).
Educazione è ed è sempre stata una parola potente e pericolosa, perché è chiaro che l’educazione porta con sé una (o più immagini) dell’uomo, una visione del presente e del futuro, una concezione del rapporto tra mezzi e fini, valori impliciti ed espliciti.
Ma c’è qualcosa di nuovo oggi, nelle nostre attuali condizioni planetarie che richiede di adottare un punto di vista diverso per pensare l’educazione? C’è stata davvero una svolta e qual è stato il punto di rottura?
Perticari addita l’alleanza che si è instaurata tra politica, mercato e teletecnologia nelle democrazie iperindustriali. Nessun totalitarismo, scrive, ha mai avuto a disposizione un armamentario così sofisticato e capillare di tecnologie dello spirito, capaci di penetrare in profondità quella che una volta si chiamava anima, in modo tale che le capacità mentali, intellettuali, affettive, estetiche vengono colonizzate e uniformate.
Una favola ha dominato questi decenni, in un certo senso conseguenza di un tentativo di demolizione delle istanze libertarie del Sessantotto, la favola dell’avvento di una società post-industriale, ricreativa e individualista, laddove attraverso le tecnologie del controllo e il marketing di modelli e loghi della vita, si è stabilito invece un sempre più forte movimento di uniformazione e di perdita dell’individuazione.
Nelle società iperindustriali la macchina razionale dell’industrializzazione culturale richiede la distruzione della comprensione dell’altro, accecando la sua individuazione effettiva in termini di alterità radicale concepibile secondo logiche di guerra (EI, 34).
Mantegazza aggiunge che in questa situazione di emergenza sono franate le impalcature che sorreggevano una visione critica, la storia la politica e la teoria (appunto i buchi neri dell’educazione del titolo).
Pur nella differenza dei riferimenti teorici, ci sono alcune linee di riflessione che si intrecciano nelle due opere e che arrivano a momenti di convergenza; tra le altre, mi limito a indicarne tre: Auschwitz, il dolore e la memoria.
Un punto di convergenza delle due prospettive è quella che si potrebbe chiamare la pedagogia dopo Auschwitz. Se si dovesse, dice Perticari, indicare il motivo principale dell’educazione in questo tempo, non si potrebbe che rispondere Auschwitz, con tutto quello che comporta, ossia non solo quell’insieme di meccanismi che hanno portato all’organizzazione dei campi, ma quella profonda trasformazione antropologica e biopolitica che il totalitarismo nazista ha tentato. Perché? Perché lì si è rivelato nel modo più chiaro quella che Arendt ha chiamato la banalità del male, che condensa una trasformazione radicale dell’umanità ridotta a residuo dentro una macchina quasi perfetta che riduce ogni rischio di senso e di improduttività, alla perfetta obbedienza, laddove non c’è più nulla da chiedere e da domandare, perché tutto sembra essere già stato detto.
Alla pedagogia dell’annientamento, ai meccanismi educativi totalitari del campo, Mantegazza ha dedicato una parte consistente della sua ricerca teorica, da Un filo di fumo a Pedagogia della resistenza.
È solo non distogliendo lo sguardo dai neri abissi di inumanità e di dolore inutile che caratterizzano la nostra vita sulla Terra che la pedagogia può forse contribuire all’emancipazione umana (BN, 8). In altre parole è quello che Perticari, riprendendo una suggestione di Deleuze (Primo Levi), chiama la vergogna di essere uomini al giorno d’oggi.
Un secondo tema centrale mi sembra quello della necessità di pensare il dolore dei soggetti in formazione, non certo per una sorta di pietismo astratto, ma piuttosto per cogliere la contraddizione e la follia del nostro sistema educativo.
Infine, la distruzione della memoria: è quello che Perticari indica come la necessità della costruzione di un archivio della memoria offesa, e Mantegazza come la necessità della restituzione della dimensione politica della memoria, il che significa de-privatizzare le memorie, ri-socializzarle, fare divenire patrimonio della collettività e dell’umanità (BN, 32).
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I difetti
dell’educazione presente
Consideriamo per un momento più da vicino quello che è ancora, almeno formalmente, l’ambiente per eccellenza della formazione delle nuove generazioni. Anche a coloro che non se ne occupano, saltano all’occhio subito alcuni macroscopici problemi, non solo strutturali, ma anche di impostazione culturale.
Mantegazza ne indica tre, che in realtà non riguardano solo la scuola, ma più in generale ciò che si potrebbe chiamare la politica dell’educazione.
- L’uso distorto della storia: discronia tra le discipline, la mancanza di un’adeguata contestualizzazione storica del pensiero e delle opere, in particolare in alcune discipline (quelle scientifiche che in molti casi producono più che sapere critico un rafforzamento del principio di autorità), e infine un uso improprio delle narrazioni biografiche e autobiografiche per annacquare o rimuovere in contesto storico. Tutto ciò produce il tramonto della coscienza storica che a sua volta si traduce in un’accettazione acritica del presente.
- La personalizzazione narcisistica che in realtà svuota di ogni potere i soggetti in formazione e che è un prodotto delle logiche aziendali e di marketing applicate nel campo dell’educazione: la personalizzazione del prodotto, tipico della logica del postfordismo, segue la stessa logica della pseudovicinanza al singolo e di pseudovalorizzazione della sua identità (BN, 63).
- La diffusione delle logiche del laissez-faire nella scuola portano anche al dilagare dell’ignoranza e a una riduzione secca del tasso di pensiero critico che è funzionale alle logiche del dominio.
A questi si potrebbero aggiungere tanti altri elementi che vanno a completare il puzzle di una istituzione in crisi. Perticari che è particolarmente attento alla dimensione dell’incontro nella relazione educativa, scrive che la scuola e l’università di oggi riconducono la bellezza e l’imprevedibilità del rapporto con gli studenti a una prospettiva di programmazione didattica, progettazione, post-programmazione del tutto funzionale a questo tipo di industrializzazione culturale (EI, 115).
Forse tutto questo insieme di problemi si possono inquadrare in una delle questioni di fondo per tutti quelli che si occupano di educazione e che si può formulare così: che ne è dell’educazione ai tempi dell’Industria culturale globalizzata?
L’educazione
può salvarci?
Entrambi, Perticari e Mantegazza, propongono in qualche modo una svolta che è prima di tutto nello sguardo, nel prestare attenzione alle questioni più rilevanti e, seppure in modo diverso, pensano che in questa nostra che è stata definita epoca delle passioni tristi, sia possibile combattere l’impotenza politica dal concreto dell’insegnamento (EI,48). Nei due testi si intrecciano alla riflessione teorica osservazioni sulla pratica quotidiana a scuola e sulle svolte possibili a partire dal quotidiano. Mantegazza parla di contravveleni, in relazione ai buchi neri che ovviamente vengono articolati nel libro, ma che qui mi limito a sintetizzare così con qualche citazione:
- la storia passata a contropelo, fare storia per pensare e praticare un altro possibile paradigma di sviluppo e di convivenza umana;
- una pedagogia del prepolitico, ossia presidiare gli spazi di giuntura, gli interstizi tra dimensioni emotive (private) e spazio della politica; l’utopia ha ancora la forza di mediare tra dimensione razionale e dimensioni pre-azionali o a-razionali;
- pensare di più, ovverosia l’esperienza educativa è tale proprio perché è sensata, perché è un’esperienza al quadrato, un’esperienza che si è data il tempo e lo spazio della riflessione, una esperienza sulla quale il soggetto si è piegato con paziente tenacia per farla diventare significativa.
Per Perticari, l’imperativo dell’educazione è l’altro, sviluppare la capacità di immaginare l’altro, senza farne un nemico da distruggere, un inferiore da colonizzare, un simile da ignorare. E così nel processo dell’insegnamento/apprendimento (processo circolare, non lineare), è necessario praticare quello che Perticari chiama insegnamento di ritorno: il mio maestro è il subalterno o la subalterna, l’oppresso, quell’oggetto chiamato studente, l’altro che non devo ridurre a me per poterlo comprendere. Al di fuori però di ogni logica duale, falsa, che riduce l’insegnamento/apprendimento a un rapporto tra l’IO e il TU. Anzi oggi proprio questa atomizzazione produce un’ulteriore emergenza all’interno di quella che è stata definita l’epoca del narcisismo.
Un’educazione che educa solamente il singolo: questa la deriva cui sta andando incontro la pedagogia del XXI secolo. Un servizio in demand, a domanda individuale, come la pizzeria a domicilio che conosce i tuoi gusti e serve con rapidità ed efficienza e cortesia, ma soprattutto non connette mai il tuo caso a quello dell’altro o dell’altra e non ti porta mai a riflettere sul servizio stesso e sul suo senso (BN, 62). In questo isolamento che poi in buona parte dei casi è solitudine senza riscatto sta una delle ragioni dell’impotenza che chiude la speranza. E ciò non avviene senza sforzo. Entrambi dedicano pagine appassionate a indicare la necessità di pensare di più, della fatica del concetto in un mondo di sfuggire alla banalità e alla semplificazione. Ma anche la necessità di rafforzare in tutti gli ambiti scolastici e culturali la capacità di vita sociale e di discussione pubblica.
Non si tratta di pensare la trasformazione epistemica dell’educazione; ma un’educazione che punti alla trasformazione epistemica delle democrazie iperindustriali attraverso una pratica sociale della responsabilità fondata su una rinnovata capacità di immaginare l’altro e il pianeta (EI, 15).