È già da un po’, con un’accelerazione negli ultimi tempi, che con sempre maggiore insistenza si straparla di “crisi della politica”. Ci si son buttati in parecchi. Commentatori politici, giornalisti di grido che fabbricano best-sellers sulle malefatte delle “caste” politiche nostrane, la Confindustria con Montezemolo in testa e una numerosa schiera degli stessi politici di professione. Ma anche il centrosinistra al gran completo e spezzoni del centro destra come per esempio Casini. L’unica star a distinguersi in questo corale lamento è il solito berlusca, sempre ben consigliato a scopi di induzione mediatica, che si diverte a blaterare che è la sinistra ad essere in crisi, mentre lui e la sua fitta corte stridono a squarciagola di spassarsela piuttosto bene (cosa perlomeno dubbia data l’attuale endemica scollatura tra le componenti storiche della sua coalizione).
Lasciamo subito perdere le comiche da avanspettacolo del ciarliero cavaliere nazionale e cerchiamo di capire il senso e la serietà di questa denuncia dello stato delle cose, sbandierata a gran voce con gran strombazzo mediatico. Da ciò che vorrebbero farci intendere sembra che sia la politica in quanto tale a vivere questa crisi. Lor signori la identificano soprattutto in due punti: la necessità sistematicamente elusa di riformare lo stato e le sue istituzioni ed i costi esorbitanti della politica che gravano sull’erario, cioè il denaro estorto a tutti noi con le tasse per erogare servizi di utilità pubblica.
Il libro La casta di Rizzo e Stella, uscito all’inizio di maggio e divenuto in breve un best-seller, documenta con sconvolgente spietatezza l’abnorme e sistematico sperpero del denaro pubblico perpetrato dai professionisti della politica di casa nostra, quelli che, votati nell’illusione di delegarli a rappresentanti di chi li elegge, dovrebbero garantire e fare gli interessi di tutti. Aerei di Stato che volano 37 ore al giorno, pronti al decollo per portare Sua Eccellenza anche a una festa a Parigi. Palazzi parlamentari presi in affitto a peso d'oro da scuderie di cavalli. Finanziamenti pubblici ai partiti quadruplicati rispetto a quando furono aboliti dal referendum. "Rimborsi" elettorali 180 volte più alti delle spese sostenute. Organici di presidenza nelle regioni più "virtuose" moltiplicati per tredici volte in venti anni. Spese di rappresentanza dei governatori regionali fino a dodici volte più alte di quelle del presidente della Repubblica tedesco. Province che continuano ad aumentare, lievitando a dismisura i costi della burocrazia, nonostante da decenni siano considerate inutili. Candidati "trombati" consolati con 5 buste paga. Autoblu ad ogni carica di un minimo rilievo, financo ai presidenti di circoscrizione, anch’esse ovviamente sulle spalle dei contribuenti. L’ingorda politica dei palazzi è soltanto un’oligarchia insaziabile che ha alluvionato l'intera società italiana.
Moralismo
d’accatto
Ma “Mani Pulite” non aveva fatto piazza pulita? La risposta viene direttamente da Davigo, ex pm del famoso pool contro la corruzione che a suo tempo affondò DC e PSI: «La corruzione è in costante aumento. Dopo tangentopoli non si è voltata pagina. Abbiamo preso le zebre lente, sono rimaste le più veloci. Anzi potremmo dire di aver migliorato la specie dei predatori. Sono rimasti i più forti e se fossero batteri potremmo dire di aver creato una specie resistente agli antibiotici. Sì! È peggio di allora. La corruzione è in espansione geometrica.» (1). Vien da chiedersi come mai solo in seguito allo scandalo, scatenato dalla denuncia mediatica, i politici di turno sbrodolino parole moralistiche facendo finta, solo ora, di aver a cuore la moralità della politica di cui sono protagonisti professionalmente. Vien il sospetto fondato che non ce la raccontino giusta. Dov’erano i vari Napolitano, Bertinotti, Prodi, D’Alema, Casini, Fini e tutti gli altri dell’“eletta” schiera? Dato il mestiere che fanno, per cui sono profumatamente pagati, non dovrebbero avere il “polso della situazione” e direttamente rendersi conto di ciò che avviene proprio nelle diverse amministrazioni che dirigono e in cui hanno ampiamente le mani in pasto?
Un Bertinotti particolarmente frenetico si diverte a proporre soluzioni, sommamente preoccupato della “crisi della politica”. Prima fa sapere che bisogna attuare una grande riforma della politica agendo su costi e regolamenti, poi assieme a Marini, incalzati entrambi dal Quirinale, qualche giorno dopo declama che lor signori lavoreranno di più e costeranno di meno. Come se queste tardive e postume rassicurazioni potessero incidere in una struttura che per decenni si è consolidata nell’ingrasso e nella spartizione della torta a vari livelli. Come se la famosa “crisi della politica”, di cui decanta le non virtù, fosse circoscrivibile e limitabile a questi episodi di corruzione endemica, strutturale e sistematica, in cui sono coinvolti in un modo o nell’altro tutti i politicanti, o direttamente o con l’omertà o con la cecità e l’indifferenza. Se crisi c’è ha ben altre ragioni e la corruzione dilagante è solo la conseguenza di queste.
Prima di tutto cerchiamo di capirci qualcosa. Può la politica in quanto tale entrare in crisi? La questione è controversa e nient’affatto scontata e, come sempre, dipende più dal significato che le si vuole attribuire che da ciò che effettivamente vuol dire. In questo caso c’è forte il sospetto che i politici di professione che la denunciano parlino di crisi della politica in generale per dire, molto più banalmente, che in realtà è in crisi il loro modo di vivere la politica e di farla. In altre parole parlano a nuora perché suocera intenda. Il loro vero scopo rimane, infatti, lo strombazzamento mediatico per imbonire e rimbecillire la massa che li deve eleggere, inducendo a credere che il problema politico si risolva nel e rimanga circoscritto al sistema di potere vigente.
Purtroppo per loro la politica in quanto tale abbraccia invece uno spazio simbolico e d’influenza molto più ampio e significativo. Il fatto che si trovi in crisi l’assetto istituzionale con tutto ciò che vi ruota attorno, ammesso che effettivamente lo sia, significa semplicemente che la crisi di cui parlano riguarda in specifico quella sfera d’intervento. Così si può affermare che alla radice del problema che denunciano alla fin fine c’è uno scollamento, un insieme sempre più vasto di incomprensioni e un potenziale conflitto sempre più permanente, tra la direzione politica statuale e istituzionale e la società nel suo complesso da questa diretta.
Ma la politica è un’altra cosa
L’impianto di comando e di direzione su cui si sorregge la struttura politica in atto, allo stesso tempo centrale e centralizzata, è sempre meno capace d’interpretare le tendenze e i bisogni dell’insieme sociale per cui opera ed esiste. Questa incapacità ormai endemica, che si manifesta con intensità e modi molto similari sia che al timone ci sia una destra sia che ci sia una sinistra sia che ci sia un centro, dipende sia dalla forma della struttura, tarata e impostata sulle burocrazie dei partiti, sia dalle elite leaderistiche, sia dai contenuti e dal senso che questi vogliono dare alla direzione di marcia, oltre che dal modo in cui lo fanno. Possiamo allora tranquillamente dire che il modello di riferimento e di operatività funziona sempre meno, o che addirittura funziona molto male, dal momento che ha continuamente bisogno di essere tarato ed assestato.
Ma la politica come noi la intendiamo, e come ci sembra dovrebb’essere intesa, è tutt’altra cosa. Il concetto e l’idea di politica vanno presi nella loro estensione più lata. Esprimono, infatti, un ambito specifico, che è l’ambito della gestione delle cose, cui non si può sottrarre nessun tipo di società, nemmeno una ipotetica e da noi auspicata società anarchica. Ogni contesto sociale, ogni ambito comunitario, per quanto possa essere esteso e indipendentemente da come decide di strutturarsi, per sussistere deve trovare necessariamente delle modalità di gestione, ovviamente consone e congrue coi suoi presupposti fondanti, altrimenti è destinato a dare forfait e a chiudere bottega. Le cose, in particolare quelle di appartenenza collettiva, hanno sempre necessità di essere gestite, o governate (che è la stessa cosa), altrimenti affondano. Così la gestione, qualsiasi gestione, implica sempre il prendere delle decisioni e trovare la maniera di applicarle. È per questo che l’ambito della politica, che è l’ambito della gestione, è anche l’ambito della decisionalità.
Se la si prende nella sua accezione originaria, di ineludibile ambito della decisionalità in seno alla società, diventa perciò privo di senso parlare di “crisi della politica”, come stanno facendo con sempre più frequenza i nostri politicanti, perché la politica c’è, continua ad esserci e ci sarà sempre, indipendentemente da come viene gestita. Soprattutto dobbiamo tener conto che non può non esserci. Essa, infatti, riferendosi alla ricerca della comprensione e delle soluzioni per identificare il come gestire la complessità sociale, non può che essere intesa come un luogo, insieme simbolico e riflessivo, di sperimentazione permanente, atto a comprendere cosa si vuole, come lo si vuole e perché lo si vuole. Potrà allora succedere che si determini una fase di stallo, o un momento di grande inefficienza, o ancora un’incapacità strutturale di agire, non certamente un tracollo della politica in quanto tale. Ed è proprio ciò che sta succedendo nel belpaese, sempre più affetto da una crisi d’interpretazione del senso politico da parte della sua struttura gestionale.
Quella che è in atto in realtà è una crisi di sistema, sempre più incapace di gestire e interpretare la società che deve e vuole governare. Non abbiamo dunque a che fare con una crisi della politica, ma con una crisi della logica e del senso del governare da parte della struttura statale e dei partiti che ne sono gli interpreti. Quella che sta crollando, perché si sta smascherando, è la finzione rappresentativa che dovrebbe giustificare la sovranità popolare e la titolarità istituzionale. Mentre vengono eletti per rappresentare chi li elegge, appare sempre più chiaro che nei fatti lor signori non rappresentano nessuno, se non se stessi e i partiti in cui sono inquadrati. Contemporaneamente sta prendendo sempre più forza, supportata e spinta dal bisogno di governabilità, l’emergenza di forze lobbistiche e leaderistiche per la gestione in proprio del potere politico, che secondo il dettato costituzionale dovrebbe invece funzionare come attuazione di un non ben definito bene comune del popolo.
La cosiddetta “crisi della politica” che in realtà, come abbiamo visto, è crisi delle istituzioni e dei partiti, apre così un varco potenziale ad un’idea di politica di realizzazione innovativa. L’idea, non nuova in sé perché in forma teorica consapevole esiste da almeno due secoli, è quella libertaria e anarchica, che ripudia le lobbie e le istituzioni centralizzate come senso e metodo di gestione della società, per realizzare un’autogestione collettiva attraverso le metodologie della democrazia diretta. Ciò che sarebbe nuovo risiede nelle capacità e possibilità di renderla operativa e diffusa all’insieme della complessità sociale.
Ma questa possibilità di dare un senso libertario nuovo al varco potenziale aperto dalla crisi delle politiche istituzionali vigenti, non è né automatica né certa. È solo una possibilità. Quando si apre un varco può essere riempito in molti modi. È indispensabile comprendere che non c’è nessuna certezza di quale sarà quello che prenderà piede. Al contrario di quello che pensavano Marx ed Hegel, fautori di un determinismo storicistico, non c’è nessuna predeterminazione nel processo del divenire storico. Tutto dipende da una molteplicità di fattori estremamente complessa. Ma dipende anche molto dalla capacità e dall’intelligenza di coloro che si muovono sul piano dell’innovazione. Per gli anarchici e i libertari si è aperta una possibilità. Sta a noi saperne usare con giovamento e intelligenza. Dobbiamo però essere soprattutto consapevoli che non è né facile né a portata di mano.