Rivista Anarchica Online


No Tav

Dal bastone alla carota
di Maria Matteo

 

Un movimento vivace, quello anti-Tav, che nell’ultimo anno e mezzo ha saputo mantenersi vivo e forte, moltiplicando le iniziative e allargando le proprie prospettive.

 

Quella sul Tav, il treno ad alta velocità tra Torino e Lione, è una partita che ormai da tempo ha assunto una valenza cruciale. Il governo, dopo la crisi “afgana” che ne ha determinato un’ulteriore stretta a destra, ha inserito il Tav tra i 12 punti prioritari del programma. Sanità, scuola, trasporti per i pendolari, misure contro l’inquinamento ed il riscaldamento climatico non vi compaiono, ma il Tav sì. Perché tanto accanimento? La retorica del progresso, dell’Europa che diventa sempre più lontana, la piccola Italia chiusa dall’arco alpino ed irrimediabilmente tagliata fuori dal grande mercato, dalla circolazione frenetica di merci, continua ad andare alla grande tra gli opinionisti e i gli “esperti” prezzolati.
Ma una cosa è la propaganda, volta a costruire consenso intorno alle proprie scelte, altra cosa sono i fatti. L’Osservatorio tecnico guidato commissario straordinario per la Torino Lione Mario Virano (non vi curate del conflitto di interessi: per quest’uomo è un’abitudine), dopo mesi di “stretto confronto”, ossia di estenuante trattativa su cifre e valutazioni sui flussi, pare abbia dovuto ammettere che la linea “storica”, ossia l’attuale linea internazionale tra Torino e Lione, è ben lungi dall’aver raggiunto la saturazione. Almeno così parrebbe dalle indiscrezioni che emergono sul primo quaderno prodotto dall’Osservatorio, ossia il tavolo tecnico inventato all’indomani della rivolta del dicembre 2005 per fermare la protesta dei No Tav. Da questi dati sembrerebbe emergere che una nuova linea di treni non serve. I No Tav l’hanno sempre sostenuto: chi la vuole costruire pensa soprattutto al profitto di amici e amici degli amici. Ferdinando Imposimato in un libro di ormai diversi anni fa, definì il Tav, allora solo un progetto nell’intera penisola, il futuro di tangentopoli, ossia un mezzo legale per sgraffignare montagne di denaro pubblico in modo “pulito”, senza correre rischi. Poi è venuta la legge obbiettivo, ossia la legge che consente di aggirare molte normative in difesa dell’ambiente, della sicurezza, dei lavoratori. In base a tale legge un’opera definita “prioritaria”, di interesse generale non è soggetta agli stessi vincoli e regole che invece chiunque, persino un cittadino che si voglia fare la veranda sul balcone, dovrebbe osservare. Un meccanismo perfetto. O quasi. Il Tav. dopo aver devastato mezza Italia, nel 2005 avrebbe dovuto sbarcare in Val Susa. Se non fosse stato per la resistenza popolare la devastazione di quest’angolo di nord ovest sarebbe ormai in corso. Nemmeno l’evidenza del disastro già compiuto sarebbe bastata a fermarlo. È sufficiente pensare che l’appalto per la costruzione del tunnel geognostico di Venaus, 10 km di galleria propedeutici alla costruzione del tunnel di base di 52 Km tra Venaus e S. Jean de Maurienne, era stato vinto dalla Cooperativa Cementieri e Muratori di Ravenna, le mani in pasta in metà dei lavori pubblici del paese, responsabile della devastazione del Mugello, dove – a oggi – gli 82 Km di gallerie realizzate provocando un inquinamento irreversibile oltre al taglio irrimediabile delle falde acquifere, sono state dichiarate “ammalorate”. Con questo splendido toscanismo si intende dire che le gallerie, fatte un po’ al risparmio, fanno acqua da tutte le parti e devono essere rifatte.
Le “evidenze” tecniche tuttavia cozzano con la logica perversa di chi ritiene – in media governo e opposizione uniti nella lotta – che l’unico problema sia trovare il modo di fare il Tav aggirando l’opposizione della popolazione. Punto. Il resto è retorica, la vacua retorica di chi da mesi e mesi sostiene sui giornali che il movimento ormai è disponibile alla trattativa, che basta solo rispettare i necessari tempi di maturazione, e altre simili amenità.

Questione chiusa?

Il buon senso dovrebbe suggerire che, una volta condivisa l’opinione che l’attuale linea tra Torino e Lione basta e avanza, la questione Tav è chiusa con soddisfazione di tutti.
Invece no.
In una recente intervista al bisettimanale Valsusino “Luna Nuova” Mario Virano ha dichiarato che: “A nessuno sfugge che per passare alla discussione dei tracciati occorra prima un passaggio politico. (…). Il tavolo di Palazzo Chigi (il tavolo politico che affianca quello tecnico, N.d.A.) dovrà dirci se possiamo passare a questa discussione: che significa iniziare a parlare del ‘come’”. E poi ancora “Noi abbiamo aperto ‘la grande area del se’, cioè l’Osservatorio ha fatto in modo che si passasse dalle certezze di chi diceva No Tav e Sì Tav al confronto sulle alternative.”
L’intervista prosegue poi all’insegna della certezza che il “come Tav” sia ormai condiviso anche dagli amministratori locali, l’unico dubbio è sui tempi: subito per rispondere all’Europa che entro luglio vuole che vengano presentati i progetti da finanziare o tra cinque anni – previo “potenziamento” della linea attuale. In chiusura al giornalista che chiede se i sindaci della Bassa Valle Susa saranno disposti a continuare a sedersi al tavolo risponde “con i sindaci ho concordato quattro punti. Quando parlo con loro non mi pare che ci sia l’intenzione di non discutere del quarto punto”. Il quarto punto, dopo quelli sulle potenzialità della linea attuale, sul flusso merci attraverso i valichi alpini e sul nodo di Torino, è appunto quello sui tracciati. Il “come” Tav.
Virano, il mediatore, l’esperto di pubbliche relazioni, l’uomo della vaselina come lo chiamano i No Tav, sta facendo il suo lavoro. Un lavoro sporco per il quale è lautamente pagato.
E i sindaci della Valle No Tav che fanno? Con certezza è difficile dirlo, poiché ormai da mesi eludono il confronto, non rendono pubblici i verbali delle loro riunioni, mal sopportano l’autonomia del movimento, che pur considerandoli parte della lotta, non si ritiene in alcun modo subordinato alle loro scelte.
Mentre scrivo siamo alla vigilia della riunione (fissata per il 13 giugno) del tavolo di Palazzo Chigi, in cui verrà presentato il primo quaderno dell’Osservatorio, che tutti danno per stampato ma nessuno ha visto. Sapremo solo dopo quest’incontro se la fiducia di Virano nel passaggio al “come Tav” dei sindaci della Bassa Val Susa sia o meno ben riposta. Al momento ci permettiamo di dubitarne, nonostante i segnali di distacco tra amministratori locali e movimento No Tav si stiano moltiplicando. La caustica maldisposizione degli anarchici verso la politica istituzionale – foss’anche a livello locale – potrebbe indurre a pensare che se la vaselina non è ben spalmata, il risultato potrebbe essere dubbio. In altre parole i tempi potrebbero non essere maturi. D’altro canto lo stesso Virano nell’intervista sopra citata ammette che prima del Tav vero e proprio ci vorranno almeno 5 anni di ammodernamenti della linea storica.

Un sasso nello stagno

Ma forse è meglio lasciare la parola al presidente della Comunità Montana Bassa Val Susa Antonio Ferrentino che, in un’intervista al quotidiano “Liberazione” del 7 giugno, ha dichiarato: “La linea ad alta velocità Torino-Lione è ormai seriamente messa in discussione e finalmente si apre il dibattito – negato da tempo – su come utilizzare al meglio le esistenti infrastrutture.” E poi ribadisce che gli attuali progetti richiederebbero “5 anni per il loro sviluppo” e quindi la scadenza europea del 20 luglio per la presentazione dei progetti da finanziare è improponibile”.
La settimana precedente il quotidiano “Repubblica” aveva presentato in anteprima un nuovo tracciato per la Torino Lione, un tracciato che prevede ancora il tunnel di base di 50 KM ma che, spostandosi sulla riva destra della Dora, comporterebbe l’utilizzo della linea storica, opportunamente potenziata e forse anche interrata. Tutti i protagonisti della vicenda – da Virano a Ferrentino – negano che quest’ipotesi sia sul tappeto, anche se Virano sostiene, sia pure informalmente “che in tanti si sono posti il problema di come affrontare in modo diverso l’attraversamento della Val Susa”. Forse “Repubblica” sta cominciando a buttare un sasso nello stagno? Staremo a vedere.
Il ogni caso è fuor di dubbio che il commissario governativo stia cercando di trovare una soluzione all’italiana, una di quelle che consentano a tutti di cantare vittoria. Impresa invero non facilissima ma indispensabile alla stentata vita di un governo in crisi di consensi presso il proprio stesso elettorato. Nelle recenti elezioni in Val Susa, la candidata DS al comune di Avigliana ha visto confermata la propria poltrona ma l’astensionismo ha avuto un’impennata mai vista. D’altro canto proprio la campagna elettorale ad Avigliana ha contribuito a mettere in evidenza un peggioramento dei rapporti tra i No Tav e i sindaci della Bassa Val Susa, che ormai da tempo covava.
La scelta di Carla Mattioli, sindaco DS a caccia di una riconferma, di invitare Piero Fassino, il più noto dei suoi concittadini e colleghi di partito ad un incontro preelettorale non è stata gradita dai No Tav, che hanno organizzato un presidio nella piazza antistante la sala di piazza Conte Rosso. Il giorno precedente le notizie arrivate dal presidio antidiscarica di Serre avevano infiammato gli animi, perché le manganellate distribuite dal sinistro Amato alla gente di Serre ricordavano le botte generosamente elargite dal destro Pisanu a Venaus il 6 dicembre 2005. Nel pomeriggio di quello stesso giorno alcune centinaia di No Tav si erano recate a “prendere il treno” a Borgone, ed il traffico sulla Torino Lione era stato bloccato per una buona ora. Niente da stupirsi che al presidio contro Fassino – che ebbe un’improvvisa indisposizione e non si presentò – facessero capolino due striscioni, uno “Serre Libera” e l’altro “Governo Prodi governo fascista”. Al successivo Comitato di Coordinamento, l’assemblea diretta da Ferrentino, il luogo nel quale da un anno e mezzo si metteva in scena la rappresentazione della cosiddetta democrazia partecipativa, le rimostranze del Presidente della Comunità montana caddero nel vuoto al punto che la successiva conferenza dei sindaci sancì la fine dei Comitati di Coordinamento. La democrazia partecipativa va bene finché i sudditi si limitano ad applaudire.

Resistenza popolare

Un ulteriore segnale del solco apertosi tra istituzioni locali e movimento si ebbe lunedì 4 giugno, quando diverse centinaia di No Tav, riunitisi di fronte a Villa Ferro a Bussoleno, sede della Comunità Montana, per chiedere trasparenza ai sindaci riuniti in vista dell’importante riunione del tavolo di Palazzo Chigi, si sono trovati i cancelli sbarrati e carabinieri e Digos a vigilare. Appare chiaro che i sindaci, fors’anche pressati dal governo amico, in questo momento vogliono ballare da soli.
Viene il dubbio che il lento lavorio di Virano & C. stia cominciando a dare i primi risultati. Quello che Virano e quelli come lui paiono dimenticare e che sinora il Tav non è passato perché la resistenza popolare lo ha fermato. Indubbia peraltro la vivacità di un movimento che nell’ultimo anno e mezzo, mentre si spegnevano i riflettori dei media, ha saputo mantenersi vivo e forte, moltiplicando le iniziative e allargando le proprie prospettive. L’opposizione al Tav si è estesa ai tir ed al raddoppio del tunnel autostradale del Frejus ed all’inquinamento delle acciaierie Beltrame. La solidarietà fattiva con i mille luoghi della resistenza alla barbarie capitalista nonché la critica ad un’idea di sviluppo foriera di ingiustizia e devastazione ambientale e sociale ne sono il solido humus.
Certo, oggi il terreno appare scivoloso, ma in tanti abbiamo ripreso ad ingrassare gli scarponi.

Maria Matteo