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Un passato rimosso

Emilio Calvesi è un reduce. Ma a differenza di altri reduci che spesso fremono per raccontare le loro imprese avventurose, Emilio Calvesi non ha nessuna voglia e soprattutto nessun interesse a ricordare. E a informare sulle proprie imprese. Perché Emilio “Paolo” Calvesi, reduce impunito, e a tutti sconosciuto, delle patrie battaglie degli anni settanta, che videro un contro gli altri armati Stato e movimenti, avrebbe solo da perdere se qualcuno venisse a sapere dei suoi trascorsi. Infatti anche lui, come tanti altri in quegli anni, si fece soldato nel giro della lotta armata, abbandonò le lotte di piazza per darsi alla clandestinità, prestò la capacità “guerrigliera” formatasi nei gagliardi servizi d’ordine dei collettivi romani, alla guerra per bande che imperversò sul finire del decennio. Nessuno più dovrebbe sapere cosa fece in quegli anni, e soprattutto nessuno dovrebbe più ricordare che anche lui colpì a morte, e probabilmente non solo una volta, un qualche “servo” del capitale.
Nessuno? O forse c’è qualcuno? Qualcuno in grado di riannodare la sua esistenza attuale con quella passata, in grado di rovesciare su una normalità ritrovata – fatta di famiglia “borghese” con moglie e figli e di avviato studio d’architettura nella pacificata città di Bologna – le tragedie e le tensioni di un passato con il quale, nonostante tutto, non ha più nulla a che fare. O con il quale, almeno, crede di non aver nulla a che fare.
Ma evidentemente qualcuno c’è, visto che ora gli arrivano puntuali e inquietanti messaggi, firmati da una misteriosa e sconosciuta Sonia, che lo richiamano alle responsabilità passate, rievocando fatti, episodi, persino oggetti, che secondo logica avrebbero dovuto appartenere solamente a lui e alla sua memoria. Un compagno di allora ancora in galera e invelenito dal suo averla fatta franca? Un pentito disposto a ricattarlo per trarre vantaggio dalla sua normalità benestante? Un sadico che accarezza il desiderio di fare provare cosa significhi essere braccati a chi un tempo braccava le proprie vittime? Chi insegue, dunque, come una nemesi, anche se non come un rimorso, l’antico combattente di quella folle lotta armata intrapresa contro, o a fianco, di un nemico apparentemente imbattibile?
Questa è la trama, il suggestivo filo conduttore del bel romanzo con il quale lo scrittore bolognese Stefano Tassinari riporta in superficie pensieri, emozioni, analisi, fatti e lotte, che oggi potrebbero sembrarci vecchi di secoli ma che, c’è poco da fare, ci hanno coinvolti tutti, tutti noi che in quegli anni fummo, anche se con modalità decisamente diverse, i volontari protagonisti di un grandioso movimento e di un altrettanto grandioso progetto di cambiamento (Stefano Tassinari, L’amore degli insorti, Milano, Marco Tropea editore, 2005).
Attraverso questo filo che ricuce un passato sepolto e faticosamente rimosso, poi crudelmente riaffiorato in un’attualità ormai estranea, l’autore ci porta a riflettere su tutte le contraddizioni e i dibattiti pubblici e privati di allora. E lo fa non solo senza sbavature retoriche ma anche senza le lenti deformanti con le quali da decenni, ormai, si opera una rilettura interessata e superficiale di quella storia. Costretto, infatti, da questa violenza sulla memoria, a rivedere, con la mente e con il cuore, le ragioni e i torti di quelle drammatiche scelte, costretto a interrogarsi a fondo, forse per la prima volta, su come e perché, a un certo punto, tanti giovani generosi e sensibili come lui si misero a sparare freddamente sul “nemico di classe”, l’architetto Calvesi (ma Calvesi, ovviamente, è solo il nome di copertura della sua nuova identità), riparato nella natia Roma in cui tutto nacque e da cui tutto partì, ripercorre il suo travagliato percorso politico. Dalle prime lotte studentesche ai collettivi di facoltà e di quartiere, dalle forme organizzative larghe e alla luce del sole a quelle sempre più “coperte” e clandestine. Ritrovando così le ragioni e le contraddizioni, tutte ormai ugualmente rimosse, di scelte che avrebbero trasformato radicalmente la sua esistenza. E per compiere le quali dovette anche abbandonare, dalla sera alla mattina, l’affetto forte e profondo che lo legava alla sua compagna, una “militante” bravissima, forse più brava e dura di lui, ma che però “non capì” e non volle capire che a un certo punto, a quel punto, si dovevano prendere altre strade. Perché si era in guerra e in guerra, pena il soccombere, si doveva combattere con le stesse armi del nemico.

Realtà incomprensibile

Indubbiamente non si tratta del classico noir – non credo infatti che sia nella scoperta finale, con relativo scioglimento del mistero, l’aspetto centrale su cui punti l’autore – ma lascio comunque al lettore il piacere di indovinare, cosa che forse riuscirà a fare con un certo anticipo, chi sia il misterioso mittente dei messaggi. Anche perché mi pare che l’aspetto “misterioso” del romanzo, oltre ad essere il motore della costruzione narrativa, sia anche e soprattutto un efficace pretesto per indurre chi legge a porsi, sostanzialmente, gli stessi interrogativi che agitano il protagonista. E a confrontarsi, lui che magari ha partecipato a quegli avvenimenti, con un mondo, e con una generazione, ai quali quegli anni appaiono oggi come una realtà incomprensibile.
Realtà incomprensibile non solo perché le dinamiche attuali, anche quelle apparentemente antagoniste e di “lotta”, distano anni luce da quanto si muoveva e si pensava allora, ma anche perché quasi tutti i protagonisti di quegli anni e di quei fatti hanno operato, chi più o chi meno, con finalità differenti ma con identici risultati, una rimozione gigantesca: incapaci in maniera desolante di ridare un senso al loro passato (ma un senso c’era, diamine, se c’era!) epperò prontissimi a travisare artatamente e con finalità poco dignitose la storia e la cronaca passate. E a fianco dei “carnefici”, pronti, per far dimenticare gli irreparabili errori in cui caddero, a pentirsi ma non a rinunciare a pontificare e a impartire nuove direttive, ci sono le “vittime”, disposte a negare le ragioni delle lotte di quegli anni nell’auspicio che di lottare si smetta definitivamente.
Mi sembra questo il maggior merito di Tassinari, di avere offerto alla nostra riflessione una grande metafora della rimozione, denunciando il progetto, comune e condiviso tanto sul piano individuale quanto su quello collettivo, di annullare e privare definitivamente di senso gli anni che videro fiorire quelle forme estreme di antagonismo sociale. Senza ipocrisie il romanzo riporta alla luce, con la vivace dialettica vissuta allora, il dibattito, lotta armata sì lotta armata no, che negli anni settanta fu al cuore delle riflessioni di migliaia e migliaia di persone. Permettendo così, anche a un lettore oggi estraneo a quegli avvenimenti e a quei conflitti, di capire qualcosa senza dover indossare lenti deformanti.

“Compagni che sbagliano”

Come si è sicuramente capito, questa volta il Ritratto in piedi non affronta un libro sull’anarchismo in quanto tale. Infatti nelle pagine del romanzo non si parla pressoché mai di anarchici e, a parte un inevitabile accenno alla memoria di Pinelli, la trama si intreccia tutta con le vicende, allora senza dubbio più eclatanti ed esplosive, dell’Autonomia. Eppure, anche gli anarchici, come tutti i compagni e le compagne dei movimenti di quegli anni, possono comparire, a buon diritto, fra i protagonisti dell’Amore degli Insorti. Perché il dibattito sugli strumenti di lotta, sulle forme organizzative, sulle priorità, sugli obiettivi, sulle alleanze, sul mondo intero insomma, li riguardò appieno, portando uno spezzone di essi, seppur minoritario, a fare la stessa scelta altrettanto minoritaria, di Emilio Calvesi. Ed è piacevole riconoscere nelle pagine del libro di Tassinari la lucida vivezza con la quale si affacciarono quei dilemmi, quei sentimenti, quelle domande senza risposta e quelle risposte avventate e distruttive che fecero così intensamente parte del vissuto di tanti di noi.
E oggi che siamo a trent’anni dal 1977, da quell’anno per tanti aspetti fatidico che sembra aver davvero segnato un discrimine senza ritorno nella storia nostra e del nostro paese, non fa male trovare nuove occasioni per riflettere con serietà e onestà intellettuale sulle tragedie e le grandezze di allora. Consapevoli che non si può prescindere da tale riflessione se vogliamo comprendere come la drammatica insensatezza di certe scelte abbia permesso, a mio parere, l’affermarsi inarrestabile di una deriva che ancora ci opprime. Consapevoli anche di come la innegabile sincerità e radicalità di determinati percorsi, lungi dall’affermare presunte ragioni, spostava di fatto il piano della lotta su un terreno sempre più ingestibile e suicida. E quanti se ne fecero protagonisti divennero oggettivamente i carnefici e gli esecutori non del “nemico di classe” ma dei movimenti di massa. “Compagni che sbagliano” si diceva allora. E che abbiano sbagliato tanto, mi pare davvero innegabile!

Massimo Ortalli

Brani tratti da L’amore degli insorti

Vent’anni di galera

di Stefano Tassinari

L'altra mattina era questo il mio stato d'animo iniziale. Un risveglio sereno dopo un sogno fastidioso. Uno spazio aperto alle congetture, non ai fatti concreti. Possibilità di equivoco, non di errore. Sono andato avanti mezz'ora con questo batti e ribatti, finché ha preso il sopravvento una specie di calcolo delle probabilità, giocato sui frammenti di memoria. Mentre s'accavallavano le abitudini quotidiane – doccia, barba, colazione, sigaretta – ho cominciato a riordinarli, facendo discendere da ognuno di loro un'eventuale ipotesi. La prima, la più stupida, è legata al desiderio di vendetta di qualcuno a cui è andata peggio. Vent'anni di galera possono distruggere la psiche e dopo, al momento dell'uscita, ci si può incazzare nel pensare a uno come te, con le tue stesse responsabilità, che non solo in galera non ci ha mai messo piede, ma che se la passa pure bene, anche per il fatto di essere svanito lasciandoti solo. Ora, io questa ipotesi non la ritengo molto credibile, ma mi ricordo di un compagno di Bari, un certo Fabio (il suo vero nome è Giancarlo De Girolamo, ma l'ho saputo dopo il suo arresto), ossessionato proprio da uno scenario di questo tipo. Con lui ho diviso un appartamento per qualche settimana e mi risuona ancora negli orecchi una sua minaccia ripetuta in più occasioni: se una volta fatto prigioniero, diceva, dovessi scoprire che qualcuno dei nostri rimasto in libertà fa il furbo, giuro che gliela farei pagare anche a trent'anni di distanza. Un'intenzione chiara, possibile da covare per così tanto tempo. Quindi, mi sono detto, dietro la firma di Sonia potrebbe nascondersi il compagno Fabio, deciso a riversare su di me tutto l'odio maturato in quasi mezza vita. Ma allora perché non aspettarmi sotto casa e spararmi due colpi in testa, anziché mettermi in guardia spedendomi una lettera? Forse per non rischiare un altro ventennio di carcere, oppure per non sprecare in un istante tutta la tensione accumulata dietro le sbarre.


La svolta

di Stefano Tassinari

La svolta, però, avvenne ai primi di febbraio del '75, e ancora una volta dentro la mensa. Una mattina ci furono scontri violentissimi lungo i viali della città universitaria, innescati dal nostro tentativo di cacciare un gruppo di fascisti dalla facoltà di Giurisprudenza. Dopo quasi quattro ore di guerriglia – guidata da un compagno molto alto, in seguito eletto parlamentare della sinistra moderata – poliziotti e carabinieri riuscirono a buttarci fuori dall'università, sfondando i cordoni proprio dalla parte di via De Lollis. In molti ci rifugiammo all'interno della mensa, subito attaccata con decine di lacrimogeni sparati direttamente contro le vetrate, ridotte in frantumi una dopo l'altra. I locali erano pieni di studenti, molti dei quali del tutto estranei agli eventi. Alba e io restammo attaccati l'una all'altro, ormai preparati al peggio. Poi, come d'incanto, un folto gruppo di portantini del vicino Policlinico arrivò a darci una mano, riuscendo – attraverso una splendida manovra di disturbo – a farsi rincorrere dagli sbirri, col risultato di aprirci una via di fuga. Ne approfittammo subito, finendo col nasconderci dentro al cimitero del Verano, dove non ebbero il coraggio di venirci a caricare. Lì, nascosti dietro una grande lapide, alleggerimmo la tensione dandoci un bacio spontaneo, senza pensare che stavamo cominciando una storia d'amore nel luogo meno romantico. Restammo tra croci e cappelle per più di due ore, fin quando intuimmo, dalla scomparsa del suono delle sirene e dall'assenza di rumori, che la situazione doveva essersi normalizzata. Fuori c'erano segni di battaglia ovunque: centinaia di bossoli di fumogeni erano sparsi in mezzo ai resti bruciati di auto e cassonetti, mentre la salita di via De Lollis era completamente ostruita da brandelli di porte d'appartamento, requisite a un camion di passaggio e utilizzate nei corpo a corpo. Ci avviammo tenendoci per mano verso la sede di via dei Campani, facendo attenzione alla presenza di possibili agenti in borghese con funzioni di rastrellamento. Dei fasci non ci preoccupammo: a San Lorenzo non avrebbero messo piede nemmeno se fossero stati in mille. Nelle strade del quartiere raccogliemmo voci inquietanti, secondo le quali, tra i nostri, c'erano stati diversi feriti da armi da fuoco, segno di un inasprimento dello scontro. Fatalmente, non riuscii a godere appieno della mia felicità personale, messa a dura prova dal senso d'impotenza che provai in quel frangente. Lasciai Alba davanti alla sede, dicendole che sarei tornato dopo aver fatto due o tre telefonate da una cabina. In realtà camminai lì intorno per una ventina di minuti, rimuginando su una domanda semplicissima: possiamo continuare a scendere in piazza muniti soltanto di bastoni, chiavi inglesi e bottiglie molotov mentre loro ci sparano addosso? Mi diedi una risposta negativa, e quella giornata, per me, rappresentò la seconda tappa di avvicinamento alla lotta armata.


Fino a prova contraria

di Stefano Tassinari

Sono concetti diversi, lo so, e comportamenti talvolta opposti, ma a tenerli insieme c'è la stessa radice, lo stesso bisogno di sovvertire quell'ordine stabilito che, in egual misura, ci ha stretto le manette ai polsi e anche ai semplici pensieri. Io lo posso dire soltanto a queste pareti, ma se fossi libero di farlo lo farei, senza il timore di venire fulminato dagli sguardi, e circondato dal disprezzo di chi continua a credere che siamo stati noi a rovinare tutto. E che cosa significa, poi, "rovinare tutto"? Secondo loro avremmo dovuto partecipare a un grande gioco di simulazione, scrivendo "viale Lenin" al posto di "corso Traiano", e dopo tutti contenti a contare le fiches che abbiamo guadagnato? Oppure scendere in piazza, come facevamo, a gridare: «Dieci, cento, mille Vietnam!», e poi tornare a casa, la sera, a guardare la televisione? O riempire le strade di bandiere rosse con l'effigie del Che, studiare a fondo il suo libro La guerra di guerriglia, mandare soldi ai combattenti di mezzo mondo, cantare a squarciagola: «E allora lotta, lotta di lunga durata, lotta di popolo armata, lotta continua sarà» o, meglio ancora, «Stato e padrone, fate attenzione, nasce il partito dell'insurrezione… Agnelli, Pirelli, Restivo, Colombo, non più parole ma pioggia di piombo», e alla fine organizzare un cineforum con i film sul Terzo mondo, promuovere un dibattito sulla resistenza del popolo Saharawi o fare uno sciopero della fame contro il genocidio degli abitanti di Timor Est? Certo, c'è chi si è accontentato di questo, senza capire quanta distanza ci fosse tra quelle parole apprese o cantate e una pratica che non ha mai dato fastidio a nessuno. Io no, io non ce l'ho fatta a convivere con l'ipocrisia, a far risuonare le strade con un boato di sillabe ritmate e rimate, a gareggiare da un capo all'altro di un corteo a chi lanciava lo slogan più trucido, a gridare con l'espressione dura: «Per i compagni uccisi non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto!» o «Contro lo Stato della violenza, ora e sempre resistenza», e poi a dormire sonni tranquilli nel mio letto, immaginando gli scogli a picco delle mie prossime vacanze. Io no, io non ce l'ho fatta ad aspettare tempi migliori, a limare documenti fino al mattino per poi affermare soddisfatto: «Abbiamo spostato a sinistra l'asse del partito», a spendere le mie giornate per reclutare un militante in più mentre, intorno a noi, i piccoli fuochi diventavano incendi.
Allora ero convinto che non ci fossero alternative alla strada su cui mi stavo incamminando. Adesso so che qualcosa di diverso si poteva fare, a patto di sentirsi davvero dalla stessa parte. Tra me e Alba, per esempio, qual è la differenza? Che io ho preso le armi e lei no, ma io non ero più indignato di quanto non lo fosse lei. Dalla stessa matrice sono usciti due fogli diversi. È possibile? Sì, se tra un passaggio di colore e l'altro qualunque cosa, anche il più classico dei granelli di polvere, finisce dentro gli ingranaggi. Lei mi andava bene comunque, perché la sua passione non era inferiore alla mia. Ma tutti gli altri, tutti quelli che si sono riparati in una nicchia, spacciando la mancanza di coraggio per l'intelligente intuizione di rosicchiare il sistema dall'interno?
Basta, non ho voglia di fare altri commenti. Mi rode solo di essere il bersaglio immobile di una macchinazione, costretto a tacere e a vergognarmi un po’ ogni qual volta mi tocca di sciorinare le mie generalità fittizie, ripetendo a memoria: «Calvesi Paolo Emilio, nato a Roma il, residente a Bologna in, professione architetto, sposato, due figli, cittadino benestante in regola col fisco e con le leggi».
Fino a prova contraria.

Emozioni assediate

di Stefano Tassinari

Nella visione li vedo muoversi a schiera, circondare interi edifici, sfasciare a colpi di piccone le porte di casa di persone ignare, mettersi in tasca tutto quello che trovano, a partire dai soldi, minacciare chiunque protesti e poi tornare in strada, sudati e orgogliosi, a urlare ai quattro venti che "la legge lo consente". E vero, la legge consentiva loro queste e altre nefandezze, come sequestrare i "sospetti" per tre giorni senza avvisare le famiglie e gli avvocati, blindare per anni la gente in una cella senza processarla, confinare su un'isola gli indesiderabili, riempire di microfoni migliaia di vite e puntare un mitra in faccia a chiunque avesse l'aria di non starci. Anche per questo ho preso in mano un’arma, solo che oggi nessuno si ricorda delle cause, ma solo degli effetti, in primo luogo i morti, sempre e soltanto i loro. E di quelli non ho pietà, se non di alcuni, uccisi per caso o per calcoli sbagliati. La gran parte era responsabile di qualcosa: di aver utilizzato le proprie conoscenze per fottere gli operai, di essere stati i promotori di centinaia di arresti illegali, di aver diretto partiti corrotti, organizzato le stragi di stato, preso ordini dagli americani, promosso e finanziato gruppi golpisti e coperto i traffici della mafia. Per non parlare dei cosiddetti pesci piccoli, che magari se la sono cavata a buon mercato, con un po' di spavento o qualche buco nelle gambe: speculatori immobiliari, caporali, pennivendoli, mandanti di stupri politici contro le operaie sindacalizzate, tutta gente che, in quell'Italia, non avrebbe mai fatto un solo giorno di galera. Gente di rispetto, amici degli amici, carrieristi massoni, riciclatori di denaro sporco... Tutti tranquilli, finché non siamo arrivati noi a farli vivere con la paura, a farli girare con la scorta, a farli passare, di colpo, dal ruolo di potenti e intoccabili a quello di deboli e vulnerabili. E se in mezzo a loro c'è finita qualche brava persona mi dispiace, ma in guerra è così, da sempre, e le guerre non le abbiamo inventate noi, casomai ce le hanno fatte subire.
Mi torna tutto su, di nuovo, e ogni volta che mi accade è come se il diaframma mi si bloccasse all'altezza del cuore, stringendo d'assedio il mio respiro e le mie emozioni. Capita ancor di più quando con la memoria sale anche la domanda che non riesco a tollerare, quell'imbarazzante "a cos'è servito?" dalla risposta scontata. A niente, hanno detto in tanti, voltando il viso dall'altra parte. A far marcire in galera migliaia di compagni, ha aggiunto qualcuno. A rafforzare il loro potere, ha chiosato qualcun altro, mentre per l'uomo della strada, le istituzioni, le televisioni, il sentire comune, il sentito dire, il politicamente corretto, i nuovi angeli della non violenza, i giudicanti e anche certi giudicati è stato tutto un generare lutti, seminare tempeste, aizzare odio, creare fratture insanabili e trascinare il paese nella barbarie, come se treni, stazioni e aerei saltati in aria fossero stati esempi di convivenza civile...

Brani tratti da: Stefano Tassinari, L’amore degli insorti, Marco Tropea Editore, Milano, 2005.