Rivista Anarchica Online


politica

Le sirenette del potere
di Carlo Oliva

 

A proposito della “diversità”della sinistra e di un intervento assai poco liberale del liberale Ernesto Galli della Loggia.

 

Spero che non vi siate concentrati, nello scorso mese di settembre, esclusivamente su Beppe Grillo e sulle relative polemiche, perché non sono certo mancati, allora, altri notevoli esempi di quella commistione tra alta comicità e bassa politica (o, se preferite, tra alta politica e bassa comicità) che caratterizza ormai da un bel pezzo il dibattito ideologico nazionale.
Per esempio, sarebbe stato un autentico peccato se vi foste persi il “fondo” scritto da Ernesto Galli della Loggia per il “Corriere della sera” e ivi pubblicato il 23 del mese. Si intitolava L’eterno mito della diversità e conteneva delle affermazioni davvero straordinarie. Il concetto base, per chi se lo sia perso, era quello per cui la sinistra italiana, inopinatamente graziata, nel biennio ’92-’93, dallo sconvolgimento di “Mani pulite”, non ha saputo approfittare della “inaspettata occasione” che la storia “benignamente” le aveva offerto, abbuonandole quel “radicalismo che ancora la pervadeva” e “concedendole di arrivare a quel governo a cui, con il Caf in piedi, non sarebbe certo mai arrivata”. Non ha capito, cioè, che “in quanto promossa dalla storia a sinistra riformista di governo senza esserlo” il suo primo compito doveva essere “quello di diventarlo davvero”, conducendo “una grande battaglia di rottura culturale rispetto al proprio stesso passato per cancellare dal suo popolo la mentalità radicale … che fin lì l’aveva caratterizzata”.
Un grosso guaio. Non ci siamo sbarazzati, noi di sinistra, da certe antiche fissazioni. Dall’idea che un “governo diverso dal nostro non può che fare leggi orribili le quali vanno subito cancellate”, che “la richiesta di galera per i delinquenti e di vie silenziose di notte è ‘di destra’”, che “ogni modifica alla legislazione del lavoro che non ha il placet sindacale è per ciò stesso un attentato alla libertà”, che “le tasse colpiscono i ricchi e dunque, ‘facendoli piangere’, non sono mai troppe” e che, naturalmente, “nei confronti degli immigrati clandestini o dei giovani dei centri sociali la legge e l’ordine sono una semplice optino”. E tutto questo, in sostanza, perché siamo sempre stati convinti “che l’avversario politico ha una qualità morale differente e in ogni caso neppure comparabile con la nostra”. È insomma “l’eterno mito” della propria diversità che ha sempre fregato (e sempre fregherà) le forze progressiste, precludendo loro qualsiasi prospettiva passata, presente e futura, di governare il paese senza far danni.
L’enunciazione può essere considerata un po’ carente, specie dal punto di vista dell’uso del congiuntivo, ma il concetto è abbastanza chiaro. E se qualcuno, magari, potrebbe chiedersi che male c’è, dopo tutto, nel voler essere diversi dagli altri, o a cosa mai servirebbe una sinistra che non fosse in qualche modo diversa dalla destra, per non dire di una destra che dalla sinistra non si distinguesse affatto, è evidente che non sono queste le preoccupazioni di fondo dell’illustre studioso. Lui si preoccupa soprattutto del fatto che “con questo ammasso di idee, di sentimenti e di pulsioni, radicate da decenni nel popolo di sinistra … e in qualche misura anche in loro stessi, nella loro identità politica, i dirigenti della sinistra che pure si diceva riformista, i conti, in questi quindici anni, hanno accuratamente evitato di farli.” Niente: hanno tirato innanzi attaccati come ostriche allo scoglio del proprio continuismo, alla “finzione del cammino ininterrotto e soprattutto coerente da Gramsci a Romano Prodi”, senza decidersi mai ad ammettere, una buona volta, che “nel ’48 De Gasperi ha salvato la libertà del Paese”, che “era giusto, come voleva Craxi, mettere i missili a Comiso”, che “la questione morale di Berlinguer” non portava da nessuna parte o ricordare ai compagni che “ammazzare o essere complici degli assassini”, guarda un po’, “forse è peggio che rubare”.

Vecchio vezzo

Interessante, no? E non soltanto per la disinvoltura con la quale, sotto il fragile schermo dell’articolo professorale, si ritorna al vecchio vezzo di definire i propri avversari come settari, iniqui, sediziosi e, visto che ci siamo, assassini, mentre gli amici al massimo rubano, ma che volete che sia: ammazzare è peggio. Il pezzo è notevole, soprattutto, per la raffigurazione grottesca, parodistica quasi, delle posizioni della controparte, come può personalmente testimoniare chiunque abbia qualche ricordo, qualche esperienza personale, della realtà ideologica della sinistra italiana, dalla “doppiezza” di Togliatti, alle polemiche antilibertarie di quell’Amendola che ebbe a definire simpaticamente il movimento del ’68 come “la maschera rossa della Gestapo”, dall’austerità antimodernista e paraclericale di Berlinguer all’atlantismo bombardiero di D’Alema, per non dire del sistema di valori dell’elettorato che ha sempre appoggiato e sostenuto costoro. La storia della sinistra italiana, in realtà, è una storia di strenuo moderatismo, a volte un po’ opportunista, più spesso assolutamente sincero e sempre, comunque, alquanto aggressivo nei confronti delle proprie ali radicali. Il massimalismo vi è comparso, il più delle volte, come puro flatus vocis, come un inconcludente marasma verbale destinato ad ammutolirsi di botto di fronte alle minime lusinghe del potere (come ha dimostrato, una volta di più, la recente evoluzione di un partito come quello della Rifondazione Comunista). E voler cambiare il segno di questa storia, scoprendovi una coerenza del tutto diversa, altro non significa che voler cambiare, per fini propri, le carte in tavola.
Non varrebbe la pena, naturalmente, di prendersela con un singolo articolo, dovuto, per di più, alla penna di un commentatore uso a centrare con precisione ben maggiore il bersaglio. A chiunque può capitare di lasciarsi sfuggire, occasionalmente, qualche clamorosa cazzata. Ma il fatto è che le idee di questo tipo circolano da un pezzo sulla grande stampa nazionale. Sono tanti, tantissimi i polemisti che si dichiarano comunque insoddisfatti degli infiniti mea culpa di una sinistra che, dopo tutto, sul tema De Gasperi si è già calata abbondantemente le braghe, su Craxi sta per farlo, Berlinguer lo ha lasciato scivolare senza problemi nel dimenticatoio, si è battuta e continua a battersi con implacabile zelo contro qualsiasi soluzione politica della crisi degli “anni di piombo”, le leggi di Berlusconi si è ben guardata dall’abrogarle e ha fatto propria buona parte della legislazione sul lavoro e la previdenza del centrodestra. A tali campioni del radicalismo, come se nulla fosse, si continua a chiedere di fare uno sforzo in più, di rinunciare a un pezzo ulteriore del proprio patrimonio genetico, di calpestare simboli e testi del proprio passato con l’entusiasmo di cui, a quanto si dice, davano prova un tempo i mercanti occidentali desiderosi di essere ammessi nei fondachi dell’impero giapponese. In realtà, ai loro critici nessun mea culpa sembra bastare e la domanda che emerge dai loro argomenti, sotto sotto, è quella di un definitivo harakiri.

Ernesto Galli della Loggia

Monopolio ideologico

Tutto questo si fa, di solito, in nome dei principi liberali. Ma è un ben strano liberalismo quello di chi chiede, come condizione preliminare a qualsiasi dialogo, che l’interlocutore rinunci alla propria identità, che cassi qualsiasi possibile differenza e, in sostanza, che si uniformi in toto alle proprie istanze. Chi chiede agli altri di rinunciare alle proprie specificità non si limita a chiedere un’abiura – una richiesta, peraltro, in cui la sinistra storica ha avuto anch’essa modo di esercitarsi – ma esprime, senza neanche rendersene conto, una pulsione di uniformità, una volontà di monopolio ideologico che con il liberalismo, per quel che possiamo saperne noi, ha ben poco a che fare e riflette invece le pratiche di ben altri ismi del secolo breve. Inviti del genere, a rigor di logica, dovrebbero essere respinti senza indugio al mittente. È un peccato che a sinistra siano ben pochi a rendersene conto, sedotti come sono tutti quanti dal sogno di cooptazione in quel po’ po’ di classe dirigente che da sempre, nel variare apparente degli orpelli ideologici, inesorabilmente ci governa. È proprio vero che di fronte al canto delle sirene del potere tutti diventano, non che sordi, muti e paralitici. E nessuno, ovviamente, riflette sul destino di quell’altra sirenetta di cui narra la favola, quella che, per il desiderio struggente di diventare ciò che non era si trovò a non poter essere più né se stessa né altro. Le favole, si sa, sono tristi e portano anche sfiga. Eppure ogni tanto potrebbero servire anche loro…

Carlo Oliva