Rom, dalla “rieducazione”
allo sterminio
Il 3 luglio 1943 Guglielmo Casale, direttore del campo di concentramento fascista di Agnone, riceve la risposta che aspettava da mesi: la Direzione Didattica del Regno lo autorizza a creare una scuola interna al campo per educare i bambini “zingari” internati e, perciò, la maestra Carola Bonanni, orfana di guerra e insegnante in un paesino della zona, può continuare a insegnare disciplina e storia del fascismo anche ai piccoli rom con lo scopo di plasmarne le coscienze e renderli «soggetti graditi al regime».
È dalla documentazione di questa vicenda, la creazione di una scuola per i piccoli internati nel campo fascista per “zingari” di Agnone, che prende le mosse il libro di Luca Bravi “Rom e non –zingari”, appena uscito per le edizioni Cisu, che affronta la storia della persecuzione e della deportazione nazifascista dei rom in modo inconsueto rispetto a quelli finora conosciuti. L’idea, infatti, è quella di collocare la vicenda dello sterminio dei rom e dei sinti nel contesto della continuità del “progetto di rieducazione” che accompagna, da sempre, il rapporto degli stati europei con i rom. In questo modo l’autore, che da tempo si occupa dei pregiudizi e delle politiche di persecuzione verso i rom, evita e supera lo schema di ricerca più classico, quello che si è invece soffermato – secondo Bravi “troppo” e con “poco senso” – soprattutto sulla comparazione tra la politica fascista e quella nazista per cercare di capire se anche nel nostro paese, come nel Terzo Reich, la persecuzione dei rom fosse dettata da motivazioni razziali o se invece riguardasse solo ragioni di pubblica sicurezza. Quel che è interessante è che l’autore, dopo aver esaminato con accuratezza forze e debolezze di ciascuna interpretazione, ci conduce su una strada originale portandoci alla conclusione che entrambe le persecuzioni ebbero, nelle loro motivazioni, un fulcro sicuramente “razziale” che condannò il popolo rom allo sterminio.
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L’autore, naturalmente, ha ben presenti tutti i principali lavori, più o meno recenti, sulla deportazione nazista e fascista dei rom e, anzi, li utilizza come base da cui muovere con nuove deduzioni. Perché, nonostante la ricerca sulla persecuzione fascista dei rom stenti ancora oggi a trovare posto nella storiografica ufficiale, grazie agli studi dell’ultimo decennio si sa che anche in Italia esistevano campi di internamento e che anche in Italia i rom furono arrestati e deportati. Il fascismo, infatti, fin dalla seconda metà degli anni ’20, decretò una politica di persecuzione nei loro confronti che fu, prima, di espulsione forzata e poi, a partire dal 1940, di internamento. All’Archivio centrale dello Stato sono conservati i fascicoli personali degli arrestati, corrispondenze tra ministeri e prefetture che riguardano determinate persone rom negli anni che vanno dal 1928 al 1943. Sembra, e forse simbolicamente, di leggere storie di oggi: storie di giostrai, allevatori di cavalli, calderai che battono il rame e il ferro, uomini, donne, bambini che girovagano vendendo portafiori di vimini o stoffe ricamate e che vengono ripetutamente arrestati e espulsi dal territorio italiano nel quale cercano di continuare a vivere, sempre più accerchiati da norme e regole che glielo impediscono, trascinandoli, contemporaneamente, nella tragedia della seconda guerra mondiale. L’11 settembre 1940 una circolare firmata dal capo della polizia fascista, Arturo Bocchini, ordina di imprigionare “gli zingari” su tutto il territorio del Regno. Esistono documenti che raccontano con quale sollecitudine le prefetture si mettono al lavoro per arrestarli e documenti che attestano l’esistenza di prigionieri rom nei campi fascisti. Oltre a Vinchiaturo, Ferramonti, le Isole Tremiti e la Sardegna, ci sono luoghi dove la politica di internamento nei confronti di rom e sinti si fa chiara. In particolare a Boiano (Cb), Tossicia (Te) e Agnone, in provincia di Isernia. Quest’ultimo, a partire dalla seconda metà del 1941, quando vi vennero trasferiti anche tutti i rom fino ad allora prigionieri a Boiano, diventa il campo di internamento solo per gli “zingari”. Ed è qui, quindi, che la politica fascista contro i rom si fa esplicita.
Il campo di Agnone si trovava a 850 metri di altezza, nell’ex convento di San Bernardino, concesso ai funzionari fascisti dalla complicità consapevole della curia. Le condizioni di vita erano terribili, c’erano fame e freddo, <si mangiavano i vermi>, come testimoniano gli ex internati rom fra i quali qualcuno ricorda anche due prigionieri morti di stenti. I documenti attestano che nel luglio 1942 gli “zingari” erano 250, e parlano della scuola, che esiste dal gennaio 1943 per educare i piccoli rom e <toglierli dalle loro abitudini randagie e amorali>.
Ed è, appunto, sulla scuola che concentra la sua attenzione Luca Bravi, capace di collocarne lo scopo “educativo” all’interno della politica peculiare della razza italiana, ma anche all’interno del contesto dei rapporti tra rom e non-rom che va oltre il periodo della dittatura. Che così diventa, esattamente come accade nel caso della Germania hitleriana, la materializzazione della concezione dei rom da parte dei non-rom, con tutta la violenza che contraddistingue le politiche di quel periodo. Gli scienziati si mettono, quindi, al servizio del potere e elaborano teorie in cui esplicitano contenuti razzisti: i “vagabondi tipici etnici detti zingari” di cui si scriveva già negli anni ’30, “socialmente pericolosi”, che secondo Lombroso delinquevano perché naturalmente inclini a farlo, sono gli stessi “eterni randagi”, con “proprietà psicomorali istituzionali intrinseche nel materiale ereditario” che costituiscono uno “sfavorevole apporto razziale” degli scritti dei fascisti teorici della razza come Guido Landra o Renato Semizzi.
Solo che, aggiunge Bravi, quello che diventa chiaro studiando le politiche fasciste è la considerazione della resistenza che il popolo rom ha sempre posto di fronte a ogni tentativo di imposizione al cambiamento fin dal tempo delle politiche assimilazioniste di Maria Teresa d’Austria nel ‘700. Gli “zingari” resistono, conservano tratti culturali propri, restano un popolo che non si può “educare” e che va avanti con la propria storia. E allora l’individuazione dell’elemento genetico diviene il sintomo del fallimento educativo da parte dello stato, che non può mutare le tendenze di una razza, forse solo, in alcuni casi, il comportamento del singolo. Come accade, per esempio, proprio ad Agnone dove alla fine delle lezioni, il 30 giugno 1943, gli allievi hanno ottenuto risultati positivi e otto di loro hanno superato l’esame finale.
È evidente, scrive infine l’autore, che il “problema zingaro” durante la dittatura fascista fu affrontato come questione di sicurezza pubblica, ma proprio in tale ambito conobbe una sua peculiare teorizzazione a livello di scienza razziale che non può essere trascurata. “Vagabondo”, “ozioso”, “girovago”, “pericoloso” sono aggettivi che si associano all’essere parte di un gruppo, e non esiste salvezza. Da questo punto di vista il libro riesce così ad analizzare il mondo dei non-rom e quello dei rom in una visione di insieme, in cui, in tutti i momenti storici, compreso quello della dittatura fascista, si mantiene e riproduce lo stato di negoziazione tra il gruppo culturalmente egemone e quello definito come “asociale”. Rom e non-rom, ed è questa la ragione del titolo del libro, rappresentano la stessa storia, in cui la visione dei non-rom appare statica, perché propone per sempre una visione condivisa dello “zingaro”, in cui si ripete il fallimento del modello di rieducazione che, quindi, trascina gli “zingari” ad Agnone come ad Auschwitz. Perché, per il legislatore, la minaccia diventa concreta nel momento in cui, sul suo territorio, appare una carovano o un campo di “zingari”.
Una bella riflessione, soprattutto per il presente.
Giovanna Boursier
Settecentesco
e realistico
Quello di Sommariva è un nome noto fra i “nostri”, nel senso che alcune sue opere sono uscite presso editori con la vocazione della controcultura: Malatempora e Sicilia punto L. L’urgenza ha fatto correre la sua penna verso opere di carattere spiccatamente militante, ma Marco è sopratutto un poeta dei bassifondi, un inviato speciale presso il bar dell’angolo, dove succedono cose tanto straordinarie quanto invisibili all’incauto che confidi nei telegiornali per conoscere la realtà.
Ora Marco è giunto all’importante traguardo di un romanzo pubblicato presso Marco Tropea, editore che ha uno spiccato interesse per le vicende e gli autori libertari (è l’editore di Manfredi, Tassinari, di quel pugno di libri che Pietro Valpreda scrisse assieme a Colaprico, e di innumerevoli altri...), ma che è presente con grande visibilità nelle librerie. A questo traguardo Sommariva si presenta con un romanzo già uscito presso Sicilia punto L, ma completamente riscritto per l’occasione.
Il venditore di pianeti (Marco Tropea editore, Milano 2007) è un romanzo settecentesco, utile e, alla sua stralunata maniera, realistico. Un romanzo della formazione. Un romanzo della ricerca.
Non una tranche de vie, un casuale spezzone nell’arco sfuggente del tempo, ma un romanzo che mira a far fare un percorso al suo lettore che, al seguito dell’io narrante, s’immerge nei gironi umani dell’inferno quotidiano. Genova periferica, paesone pieno di vitalità con le sue anacronistiche osterie, è il teatro delle gesta umane e di quei pianeti allo sbando che sono i personaggi del romanzo.
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Quello di Sommariva è un modo di intendere la letteratura impegnata profondamente diverso da quella dei noir o delle spy-stories, volte a dirimere e far conoscere fatti oscuri e oscure trame (poco)fanta e (tanto)politiche che usano negli ultimi anni. Qui si illuminano belle idee alla luce di incontri con uomini tanto eccezionali quanto poco illustri, dietro la cui eccessiva esuberanza, dietro i cui tratti dalla fortissima caratterizzazione, si intravede il commovente colore della vita vissuta. Non dubitiamo che chi conosce bene Marco potrà riconoscere nel suo romanzo alcuni personaggi che davvero esistono attorno a lui, ma anch’io che pure non lo conosco (insomma l’ho sfiorato una o due volte, ma oltre una stretta di mano non c’è stato tempo di andare) mi pare di riconoscere e riconoscermi in quei suoi personaggi.
E questo è il bello del suo scrivere.
Alessio Lega
URSS, brutalità e
statalizzazione
Per anni il collasso dell’URSS ci ha fornito continue rivelazioni. L’improvvisa apertura degli archivi sovietici ha riguardato solo alcune fonti che si sono chiuse all’inizio della presidenza Putin. Alla fine è mancato un quadro d’insieme capace di fornire uno schema di lettura adeguato per la comprensione degli eventi sovietici dell’ultimo secolo. Il libro di Andrea Graziosi (L’URSS di Lenin e di Stalin. Storia dell’Unione Sovietica, 1914-1945, Il Mulino, Bologna 2007) è primo testo veramente capace di rielaborare le nuove fonti e di darne una lettura complessiva. Si tratta di una specie di manuale universitario di secondo livello, una forma di approfondimento sistematico che cerca di dipanare l’intricatissima matassa della storia sovietica. Dico di secondo livello perché il testo è di difficile lettura e presuppone un ampio spettro di competenze non solo storiche. Per l’autore, l’URSS è diventata una grande potenza mondiale malgrado Stalin e non grazie a Stalin.
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Josif Vissarionovic Dzugasvili "Stalin" (1879-1953) |
L’analisi inizia con il boom economico e culturale dell’epoca zarista, che ha il suo culmine nella terrificante catastrofe della Prima Guerra Mondiale. Dopo due anni di duri combattimenti, lo stato zarista, verso la fine del 1916, inizia a dissolversi. Al suo posto, la Rivoluzione del Febbraio 1917 cerca di costruire un nuovo stato centralizzato fondato sull’autorità della Duma, il parlamento. Il tentativo fallisce in pochi mesi. Nell’Ottobre del 1917, un piccolo partito rivoluzionario, la corrente Bolscevica del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, con l’appoggio dei Soviet di Pietrogrado e di Mosca, prende il potere.
Lo zarismo aveva lasciato in eredità una forte tradizione statalista e lo stato aveva gestito il processo di industrializzazione a marce forzate dei decenni precedenti. Per i bolscevichi, la visibilità dello stato in questo processo confermava la superiorità dell’interventismo statale sulle dinamiche di mercato e implicitamente il grosso delle tesi marxiste dell’epoca.
Dopo l’entrata in guerra, si era esasperato il modello preesistente. Si era costruito un sistema annonario di distribuzione delle risorse agricole che favoriva l’esercito e le città, sulla base di un sistema di imposte in natura a cui erano sottoposte le campagne. Questo sistema è ripreso dai bolscevichi che utilizzano il sistema annonario prima beneficiando chi partecipa alla rivoluzione e poi riproducono i precedenti rapporti con le campagne dell’epoca zarista. Alla fine i bolscevichi riuscirono a costruire un esercito rivoluzionario capace di vincere una guerra civile realmente spaventosa.
In questa fase le variabili decisive sono due.
La prima, già riconosciuta e dibattuta all’epoca di Lenin, è il processo di statalizzazione. L’esperimento bolscevico è coscientemente ultrastatalista. Il modello è il dirigismo politico dell’economia di guerra tedesca a cui è dato un nuovo contenuto politico proletario e rivoluzionario. Questo modello è comune sia ai bolscevichi, sia ai menscevichi, sia ad alcuni settori rivoluzionari, sia paradossalmente al grosso della burocrazia zarista ormai in cerca di un nuovo stato.
La seconda è la crescente brutalità delle varie svolte storiche. Dopo la guerra mondiale e due rivoluzioni, la guerra civile è l’ennesima catastrofe. In pochi mesi si formano una trentina di stati locali in lotta fra loro. Un’assoluta brutalità contamina ogni attore militare e politico. Tutto il peggio dell’età staliniana è sperimentato durante la guerra civile a partire dalle deportazioni di massa seguite alla sconfitta dell’esercito contadino dell’anarchico Machno in Ucraina.
Fra queste due variabili la meno compresa è la seconda. Uno stato autoritario fondato sui soviet dei lavoratori urbani non avrebbe portato alla democrazia parlamentare ma sarebbe stato sufficiente per fare un servizio sanitario decente. Invece la guerra civile seleziona una generazione di militanti politici estranei al dibattito teorico ma da un’assoluta fedeltà a un gruppo dirigente capace di ogni abuso. I membri del partito (e i loro familiari) vivono inoltre in una struttura paracastale in cui un ad uno status politico corrisponde anche la possibilità di accedere a beni e servizi. La mancata adesione entusiastica ad ogni nuova linea propugnata dal centro del partito determinerebbe la fine della carriera del capofamiglia e la caduta sociale dell’intero gruppo familiare.
In questo contesto la NEP è solo una parentesi. Il paese ha l’assoluta necessità di un attimo di pace, mentre all’interno del gruppo dirigente si decide chi avrebbe governato il paese. Le tre frazioni (i buchariniani, i trockisti e gli stalinisti) si scontrano ma non rendono mai pubblico il dibattito che rimane confinato agli alti vertici del partito. Il monopolio politico delle scelte e l’assenza di una qualche forma di pubblicità mostrano che già negli anni Venti la retorica rivoluzionaria e le scelte dei vertici del partito-stato, possono essere assolutamente divergenti. La rivoluzione si sta rapidamente svuotando dall’interno.
Il punto di svolta si ha, secondo Graziosi, nel 1926 quando il partito decide di procedere verso un tipo di industrializzazione a tappe forzate. La decisione che lancia il complesso militar-industriale viene presa anche su indicazione di Trockij che in questa fase è uno dei leader principali del gruppo dirigente sovietico. Grazie alla possibilità di manipolare la domanda aggregata, le deboli strutture centrali di pianificazione optano per sviluppare i settori dell’industria pesante con un meccanismo di sussidi a pioggia distribuiti in tutti i settori considerati prioritari. Queste politiche economiche generano una notevole domanda di fattori di produzione e portano nel giro di alcuni semestri a forme di accaparramento e di scarsità relativa. Gli organismi di pianificazione centrali non comprendono le ragioni dell’improvvisa scarsità di beni di consumo sui mercati cittadini. Graziosi mostra chiaramente che la causa della crisi della NEP è la decisione dei vertici bolscevichi di fare investimenti giganteschi nell’industria pesante. L’incapacità di comprendere le ragioni dell’improvvisa mancanza (relativa) di generi alimentari nelle città porta i vertici del partito a interpretare la crisi come una scelta delle campagne di opporsi al governo.
Di fronte a una congiuntura così mal compresa, Stalin, forte dell’appoggio dei quadri intermedi del partito, opta per un aperto scontro con le campagne e lancia la collettivizzazione forzata e il primo piano quinquennale. Non è questo il luogo per puntualizzare una delle più sconvolgenti tragedie del Novecento. Il tentativo prometeico di creare un’industria pesante in grado di produrre un apparato bellico moderno, dipende dalla possibilità di ricavare un surplus crescente dal settore agricolo con cui comprare tecnologia straniera e con cui costruire dal nulla nuove zone economiche. L’estrazione del surplus dall’agricoltura avviene al di fuori dei meccanismi di mercato; la produzione agricola è estorta con la forza. Quando Stalin decide la collettivizzazione forzata, crea un meccanismo di scambio ineguale e un sistema generalizzato di sfruttamento semifeudale che ha alla base il lavoro forzato dei lavoratori agricoli. Il tentativo di modernizzare il paese porta ad una completa dissonanza fra la retorica rivoluzionaria e la società sovietica. La variante sovietica del marxismo negli anni Trenta diventa vuota fraseologia.
Per tutti gli anni Trenta il sistema economico sovietico non funziona mai a dovere. Il periodo delle grandi collettivizzazioni è un’epoca di catastrofe economica con un PIL che in quattro anni diminuisce di almeno il 20%. L’eliminazione fisica e le deportazioni di milioni di uomini portano al raggiungimento della piena occupazione nelle aree di vecchia industrializzazione della Russia europea. Stalin elimina fisicamente la disoccupazione.
Il regime staliniano riesce a costruire, lo stesso, un complesso militar-industriale di grandi dimensioni e di buona qualità. Il fatto che il sistema sia in perdita non è considerato un problema anche perché era stato costruito per ragioni politiche e non economiche. Il punto è che queste politiche possono avere successo solo sul breve periodo. L’economia pianificata non è un sistema per superare le crisi cicliche prodotte dall’anarchia del mercato ma un modo per costringere il sistema economico a servire fini non economici. I problemi strutturali dell’economia sovietica sono evidenti già nella prima epoca staliniana con un costante declino dell’efficienza degli investimenti e della produttività del lavoro. Tutto indica che il controllo reale che il sistema staliniano ha sulla società sovietica è veramente mediocre.
Alla fine degli anni Trenta, il sistema sovietico entra in una profonda crisi morale, politica ed economica. Il governo impegnato nel Terrore lascia l’economia senza guida politica e in piena stagnazione. La crisi è così profonda che la produzione di ghisa, acciaio e autoveicoli diminuisce per anni. La soluzione trovata da Stalin è quella di criminalizzare la forza di lavoro e di accentrare tutto il potere su di sé e su alcuni collaboratori.
Alla fine Stalin ha fortuna. Viene salvato dalla Seconda Guerra Mondiale. Il sistema da lui sviluppato è già insostenibile alla fine degli anni Trenta. La Grande Guerra Patriottica è il fortunato evento che riesce prima a giustificare l’ingiustificabile e a permettere la sua persistenza. Il sistema sovietico era nato in condizioni estreme. L’attacco tedesco lo aveva riportato al suo antico elemento.
Con il senno di poi possiamo dire che già da subito parecchie cose erano chiare. Solo il disperato bisogno di illusioni spinge milioni di persone a vedere un paradiso in quella terra martoriata. Nel 1918 il binomio brutalità/statalizzazione è già ampiamente visibile. Non voglio dare interpretazioni troppo nette; il paese usciva da una guerra mondiale, c’era la guerra civile, Lenin non era Stalin, ma tutto era già lì, bastava vedere le cose. Poi venne il peggio.
Alfio Neri
L’incontenibile espansione
della finanza
L’esplosione della crisi dei mutui subprime, l’ascesa quasi inarrestabile dei prezzi di petrolio, materie prime e beni agricoli, il peso sempre più determinante dell’economia cinese sulla scena mondiale: anche nelle cronache quotidiane cominciano ad imporsi con forza alcuni fenomeni, inediti quantomeno per le loro dimensioni, che rappresentano altrettanti evidenti sintomi delle profonde trasformazioni subite dagli assetti economico-sociali e politici globali negli anni più recenti.
Alessandro Volpi (Senza Misura. I limiti del lessico globale, BFS, Pisa 2008, pagg. 140, euro 13,00) sceglie di descrivere e interpretare queste trasformazioni, partendo dalla necessità di rimuovere paradigmi ormai inadeguati perché legati a stagioni manifestamente superate. Quello con cui ci si deve confrontare, scrive Volpi, è uno scenario assai difficile da decifrare con le chiavi di lettura tradizionali perché ormai in gran parte del pianeta l’economia reale e “formalizzata” «costituisce solo una parte del tutto e forse neppure la principale». Tale mutamento, per molti versi spiazzante, va ricondotto alla crescita a ritmi esponenziali del processo di finanziarizzazione e al dilagare delle economie informali, alimentate anche dai conflitti divenuti inesorabilmente endemici in molte aree del globo e dalla progressiva precarizzazione dei rapporti di lavoro. Finanziarizzazione e economie informali, avendo acquisito caratteri strutturali, determinano profonde ricadute sugli equilibri delle strutture statali e delle comunità in ogni continente configurando un mondo fatto di società e di mercati senza misura, dove l’inadeguatezza delle consolidate categorie interpretative, sostiene l’autore, ribadisce con forza l’inesorabile inattualità del modello di sviluppo fordista, simbolicamente incarnata dai manifesti limiti del suo principale metronomo, il PIL.
In particolare l’incontenibile espansione dell’“industria” finanziaria, fenomeno analizzato da Volpi con dovizia di particolari, realizza una ricchezza – di gran lunga “virtuale” – dal valore nominale 10-12 volte superiore a quello prodotto dall’economia reale grazie anche alla trasformazione di milioni di cittadini in soggetti finanziari in cerca della sicurezza sociale una volta garantita dal Welfare State. Tale finanziarizzazione «popolare» rende urgente una revisione dei modelli politici di rappresentazione sociale: la politica nei paesi economicamente più avanzati, «continua a privilegiare letture che partono dalla raffigurazione dei ceti produttivi», destinati a divenire marginali, non tributando la dovuta attenzione alle nuove soggettività “di massa” costituite dai piccoli azionisti, dai titolari di fondi previdenziali, dai sempre più numerosi debitori “per necessità” e perdendo di vista i nuovi contorni della povertà sociale.
La conseguente, progressiva, atomizzazione delle società globali è ulteriormente favorita dalle economie informali, elemento spesso dominante in ampie regioni, dal continente africano a quello asiatico all’America Latina. Queste attività, per l’appunto non misurabili perché “invisibili” alle discipline normative, rappresentano la principale, stentata fonte di sopravvivenza per le masse di lavoratori sottopagati delle fabbriche e delle microimprese del Sud del mondo e più in generale per gli abitanti che popolano gli slums in continua dilatazione, facendo risaltare con grande evidenza la crisi del modello dello stato postcoloniale. Al contempo, fa notare l’autore, l’estesa informalità è anche il portato della divisione del lavoro impostasi a livello mondiale, che vede il cosiddetto Sud del mondo garantire, grazie agli infimi costi della manodopera, l’afflusso nei paesi più ricchi di merci alla portata dei copiosi ceti in via di impoverimento e il contestuale raffreddamento dell’inflazione mondiale, requisito fondamentale proprio per sostenere l’incessante esigenza di liquidità proveniente dalla corsa dell’“industria” finanziaria.
Un fondamentale ingranaggio di questa fragile architettura è la Cina, ormai assurta a potenza mondiale grazie alle ineguagliabili potenzialità della propria economia, questa volta sì assai reale. Il colosso asiatico, al quale Volpi dedica una approfondita analisi, è fonte di stabilità, ad esempio per il citato – cruciale – contributo in termini di contenimento dell’inflazione mondiale, ma allo stesso tempo altera i consolidati equilibri internazionali, come testimonia l’impatto sui prezzi di fonti energetiche e materie prime della massiccia domanda proveniente da Pechino ma anche il crescente protagonismo sui mercati esteri di aziende e – sottolinea Volpi – dei fondi d’investimento cinesi. Una Cina che, in virtù del suo «capitalismo popolare di stato» dove la pianificazione e le compagnie statali giocano ancora un ruolo determinante, è anche la protagonista, insieme alla Russia di Putin, al Venezuela di Chavez e ad altre importanti economie emergenti, di una nuova «globalizzazione pubblica», caratterizzata dal rafforzamento degli stati nazionali, o meglio di alcuni decisivi centri di potere economico riportati sotto controllo pubblico in molti paesi, senza peraltro che ciò comporti una rifondazione dei modelli di stato sociale novecenteschi.
Tali considerazioni spingono l’autore ad interrogarsi sulla stessa categoria di “globalizzazione”, una prospettiva perseguita con decisione – seppur con diversi approcci e finalità – prima negli anni della Reaganomics e poi in quelli del “clintonismo”, ma mai compiutamente realizzatasi. Proprio l’emergere di nuove potenze mondiali, e l’eterogeneità – per certi versi irriducibile – delle loro economie rispetto a quelle del “Nord del mondo” aiutano infatti a riconoscere uno scenario globale frammentato in aree assai amalgamate al loro interno, ma pure fortemente separate tra loro. Di fronte a un simile quadro sono molte le «incertezze» che prospetta il futuro: il sistema economico mondiale sta viaggiando al di sopra dei propri mezzi, sostiene in sostanza Volpi, trascinato da un lato dalle speculazioni finanziarie senza regola e dall’altro dalla davvero smisurata capacità produttiva della Cina e dei paesi emergenti, anch’essa priva di freni normativi in termini di diritti dei lavoratori, di contenimento dei danni ambientali e di sfruttamento delle limitate risorse naturali del pianeta. Resta da verificare quanto tale modello possa durare: l’esplosione della bolla dei mutui subprime e l’irrefrenabile corsa dei prezzi dei beni agricoli sono solo i più visibili tra i segnali che dovrebbero preoccupare.
Alessandro Breccia
Surrealismo
e anarchia
Il surrealismo è un fenomeno eminentemente francese, anche se non è limitato a una singola nazionalità. Come il movimento anarchico, è transnazionale. Il che è perfettamente espresso nel libro olandese Surrealisme en Anarchisme, [Surrealismo e anarchia], splendidamente scritto da Dick Gevers (Uitgeverij Iris, Amsterdam 2007, pagg. 132, euro 12,50).
Questo libro racconta come è perché il surrealismo sia nato in Francia, Per questo l’autore è particolarmente attento alla figura di André Breton. Tuttavia, le sue pagine toccano anche il tema del rapporto tra surrealismo e movimento anarchico. La cosa non deve sorprendere: entrambi i movimenti vogliono rompere con qualsiasi autorità, con qualsiasi costrizione, con qualsiasi regola prestabilita.
Il surrealismo si sviluppa dopo (o piuttosto in seguito a) la Prima Guerra mondiale. Si presenta come il movimento che vuole rinnovare la poesia. Certo, ha anche rapporti con l’ateismo, ma su questo argomento c’è già il libro di Guy Ducornet, Surréalisme et Athéisme (Ginkgo, Paris 2007). Il surrealismo si dichiara rivoluzionario e si fa chiamare anarchico. Non si possono mettere solo toppe a una società che ha saputo generare l’orrore di una guerra mondiale: essa va completamente distrutta e, così facendo, se ne deve creare una nuova. È come il credo di Bakunin: “Il piacere della distruzione è contemporaneamente un desiderio creatore.”
Nel frattempo la storia ci ha insegnato che non ci si sbarazza tanto in fretta di questa orribile società e, per giunta, l’orrore può essere tanto spaventoso, come dimostra la Seconda Guerra mondiale. Sembra che il credo di Bakunin debba essere inteso in senso pragmatico, come rivolta permanente contro l’ordine costituito e una resistenza davanti a qualsiasi espressione di potere. In questa prospettiva, il movimento surrealista e quello anarchico hanno una storia simile, come dimostra Dick Gevers.
Evidentemente, Gevers, anch’egli anarchico e direttore di una piccola
casa editrice anarchica, che si chiama IRIS anarchiste, nommé IRIS (http://members.chello.nl/t.gevers/adres.html), descrive il comportamento rimarchevole di alcuni surrealisti francesi, parla dell’adesione di qualcuno di loro al partito comunista, l’adesione al comunismo di Mosca, seguito da un passaggio al trotskismo. Su Le Libertaire (dell’ 11 gennaio 1952), André Breton rilevava questa adesione con il titolo La claire tour (“La chiara svolta”). In conclusione pare che l’anarchia resti una costante nel surrealismo: anche Gevers. Enfin, il apparaît que l’anarchisme est resté une constante dans le surréalisme, anche Gevers lo pensa.
Il suo libro è diviso in due parti. La prima riguarda lo studio sul tema “surrealismo e anarchia”, elaborato in diversi capitoli intitolati “Anarchia e arte”, “Processi e tecniche del surrealismo” e “La Seconda Guerra mondiale il dopoguerra”. La seconda parte contiene testi di Bréton tradotti in olandese. Si trovano inoltre numerose immagini e disegni, foto di artisti surrealisti, fra i quali l’unico olandese, Rik Lina.
Lina è attivo ancora oggi e collabora, per esempio, con la rivista “Brumes Blondes” (Centro di ricerche surrealiste in Olanda).
Sulla copertina del libro di Gevers è riprodotta un’immagine di questo artista (il suo sito: http://www.riklina-art.nl/).
Anche se il libro è scritto in olandese, la ricchezza delle imagini e delle fotografie lo rende attraente anche per chi non legge questa lingua. Si possono capire le immagini anche senza sapere le lingue; se no che cosa vorrebbe dire “l’immaginazione al potere”.
Thom Holterman
(traduzione dal francese
di Guido Lagomarsino) |