La crisi della politica istituzionale italiana sta cercando affannosamente
di trovare una via di soluzione, spinta dal desiderio di ritrovare se stessa
e di riuscire ad identificare un assetto che le dia solide garanzie di stabilità. Ma il tutto sembra svolgersi con grande sofferenza e qualche inganno, al di là degli spudorati maquillage con cui soprattutto i due ex-poli stanno tentando affannosamente di imbellettarsi. Non è molto serio infatti prima sbandierare con grandissima foga che la famosa “porcata” del meccanismo elettorale sia inaccettabile, poi, una volta costrettisi ad andare ad elezioni anticipate, per puro bieco opportunismo di potere fare di tutto per mantenerla in tutta la sua sfracellante portata. In questa operazione poco difendibile, a dir il vero, si è particolarmente distinto il “banderuolismo militante” berlusconiano. Ma poi anche il veltronismo rampante sembra essersi subito adeguato senza tante smorfie e, da quel che finora s’è potuto vedere, con una certa spensierata efficienza.
Ma che sta succedendo veramente? Cerchiamo di leggerlo al di là della martellante propaganda mediatica, il cui compito, come sempre, non è altro che quello di ubriacarci e inebetirci per fini di mera estorsione di consenso indotto. Da ciò che si mostra con tutta evidenza, la chiave di lettura che dà senso a tutto il tramiscamento in atto è la pura e semplice gestione dei voti, da riuscire ad annettersi con abilità più o meno consumate e da ripescare nel mercato elettoralistico, che ormai ha la sua sede permanente nel teatro dello spettacolo dei media.
Anche questa campagna elettorale sta mostrando con forza la separazione sempre più netta tra la società e la politica istituzionale che la vorrebbe gestire. Ad uno sguardo disincantato e curioso, non può non apparire sempre più incolmabile la distanza tra coloro che lottano per conquistarsi il compito e il potere di decidere, suffragati dalle leggi vigenti, e l’insieme dei cittadini che devono e dovranno adeguarsi alle loro decisioni. Qual è infatti il fine dichiarato e continuamente sbandierato da tutti i protagonisti in campo per accedere alle agognate poltrone? La conquista della maggioranza per ottenere la legittimazione a governare.
Le mani più libere possibile
Tutto il dibattito politico degli ultimi anni è a tutti gli effetti incentrato sui sistemi elettorali e sulle regole di conduzione del parlamento e del senato, perché, al di là dell’ottenuta rappresentanza, il cui valore effettivo è di fatto legato esclusivamente all’estorsione del consenso dei voti, il problema vero per lor signori è quello di impostare un assetto efficiente in grado di assicurare la più completa libertà d’azione e di decisione a chi conquista l’agognata maggioranza. In pratica dunque tutto ’sto casino per ottenere la designazione ad avere la sicurezza del comando nell’esercizio governativo, entro i termini costituzionali s’intende. Legittimati dal consenso elettorale, pretendono di avere le mani più libere possibile per riuscire ad imporre a tutti ciò che loro aggrada. Tanto, una volta lassù, i cittadini votanti che li hanno delegati, sempre per costituzione, non hanno in realtà più nessun strumento concreto d’intervento e di controllo su ciò che faranno. Potranno solo godersi i risultati delle loro decisioni e del loro operato legislativo. Vicenda “munnezza” in Campania insegna.
Ciò che è ancora più evidente in questa campagna elettorale è lo stridore tra l’immagine propinata e i contenuti contrabbandati. C’è una manifesta disparità tra le modalità con cui si svolge la enunciata concorrenza tra i contendenti e l’obbiettivo che devono raggiungere. Ci presentano una immagine assimilabile a un “giano bifronte” della mitologia, in cui le due facce contrapposte di una stessa testa simboleggiano sia una contrapposizione insanabile sia due aspetti divergenti della stessa cosa. Si pubblicizzano per l’appunto come fossero avversari contrapposti, mentre in realtà hanno sia lo stesso identico obbiettivo, la concentrazione del potere della governabilità nelle mani del vincente, sia programmi e proposte molto simili, differenti al massimo negli aspetti di realizzabilità tecnica. Non è un caso, per esempio, che Berlusconi rimproveri a Veltroni di avergli copiato programmi e proposte e Veltroni faccia fatica a differenziarsi e giustificarsi.
In verità non c’è affatto da meravigliarsi, perché nel senso e nella sostanza non sono né antitetici né contrapposti, come ci vorrebbero far credere per interessi d’immagine, mentre rappresentano due aspetti similari dello stesso identico fronte. Assistiamo così ad una tensione semplificatrice volta a concentrare tutte le energie sul gigantismo delle formazioni in lizza. È comprensibile! Del resto la semplificazione è tipica di logiche dittatoriali, oligarchiche e monocratiche, le quali per esercitare il potere al meglio hanno bisogno della massima capacità di controllo, quindi sono spinte a ridurre al minimo le manifestazioni della complessità sociale. Secondo le logiche del comando gerarchico la complessità sociale si governa annullandola, perché se la si fa esprimere rischia di essere non più controllabile. Ecco allora gli appelli al cosiddetto “voto utile”, spiegato a chiare lettere come spendibile solo per le due formazioni che i sondaggi danno maggioritarie. In questa logica tutte le altre, più o meno grandi che siano, sono vissute solo come rompiballe: solo due hanno ragione, indipendentemente da ciò che propugnano, perché solo una delle due ha possibilità di vincere.
In questo modo non si fa altro che incoraggiare e sostenere logiche oligarchiche impositive, pur se mascherate da superficiali patine “fintodemocratiche”. La bipolarità imposta attraverso meccanismi e regole di incanalamento è una tecnologia di semplificazione, esclusivamente funzionale al controllo dei voti, quindi della volontà dei votanti. Siccome la realtà delle cose è invece complessa, succede che da una parte si umiliano e si elidono le differenze, determinando una forte spinta all’omologazione dei programmi e delle idee (sic! più che altro abbozzi), dall’altra si fanno dei pasticci: Berlusconi tenta di costringere tutti a fondersi nel Pdl, salvo accettare, non si capisce bene perché se non per opportunismo elettorale, il simbolo leghista; Veltroni annuncia con gran solennità che correrà da solo, poi accetta il simbolo dipietrista che promette di fondersi dopo (perché poi non lo fa subito?) ed annette opportunisticamente sia radicali che fondamentalisti cattolici, scatenando le ire del vaticano e creandosi uno scontro in casa mentre il Pd è ancora in via di formazione.
Quale rappresentanza?
Questa logica di annessione e semplificazione rischia di riproporre, questa volta non internamente alle coalizioni bensì dentro le formazioni univoche, gli stessi casini ingestibili che hanno affossato il governo Prodi. Siccome inoltre si può ridurre e semplificare soltanto dittatorialmente, mentre non si può apparire dittatori perché formalmente siamo in “democrazia”, succede che la complessità rispunta non in modo naturale ma compresso. Si formano vari rivoli e miniforze politiche a latere dei due maggiorenti, che si agganciano ad aspetti particolari e che inevitabilmente erodono con la loro critica la “festa d’inglobamento” sperata dai due del “voto utile”.
Dov’è finito il senso della rappresentanza, continuamente sbandierato da dopo la rivoluzione francese? Già rappresentanza è parola polisemica, che storicamente comprende e racchiude ben più di un significato, non certamente quello oligarchico che stanno cercando di appiopparle. Già è anche discutibile che sia solo rappresentanza partitica: si eleggono infatti i partiti e gli uomini dei loro apparati di potere e clientelari. Già è pure discutibile che il lavoro d’immagine, lo specchietto per le allodole, sia tutto concentrato sulla visibilità dei leader, perché mediaticamente oggi un partito è il suo leader. Se poi pensiamo che il concetto di rappresentanza è sorto perché il popolo scegliesse dei propri rappresentanti cui dare un mandato di cui dovevano rendere conto, il senso delle origini è completamente scomparso dalla scena. Nel modo in cui sta avvenendo il tutto viene ridotto a una bieca parata, con forti accenti carnascialeschi, del consenso ai più forti. Alla faccia della rappresentanza del popolo, che ufficialmente è ancora il titolare dell’esercizio del governo.
Ma dove sono finiti i partiti, che dopo la rivoluzione francese erano le strutture collettive portatrici di idee forti di differenti tipi di società? Qui non abbiamo più partiti! Bensì stiamo assistendo ad una continua ridefinizione delle forze politiche in campo, tutta all’insegna della reimpostazione degli assetti istituzionali. Non ci sono più idee e ideali, ma apparati più o meno grandi legati a tecnologie di gestione, che si differenziano tra loro per interessi, lobby, clientele e tecniche amministrative. Fa perciò tenerezza il tentativo contrabbandato della destra di Storace, che si propone come riserva di valori da salvaguardare. Se fosse vero non avrebbe fatto quella scelta solo dopo che gli è stato negato, a differenza della lega, la presenza del simbolo nel Pdl. Se avesse potuto mantenere il logo della destra appena nata, i suoi “irrinunciabili” valori si sarebbero mescolati nell’indifferenziato berlusconiano.
Una piccola riflessione a parte merita la sinistra arcobaleno, cartello elettorale che fonde gli ex della ormai obsoleta cosiddetta sinistra radicale, Rc, Pdci, verdi e gli scissionisti dal Pd. Il suo leader designato Bertinotti sta cercando abilmente di assegnarle la nobiltà di rappresentare una nuova sinistra plurale, portatrice sia dei valori tradizionali della sinistra, libertà uguaglianza e giustizia sociale, sia di quelli ambientalisti femministi e pacifisti, inesistenti quando storicamente la sinistra prese avvio. In più sta cercando di rispolverare, tirandola fuori dal cassetto in cui da decenni l’avevano rinchiusa, la vecchia gloriosa “lotta di classe”. Sempre Bertinotti con grande orgoglio ogni volta che può ci tiene a sottolineare: “Noi siamo di parte!”.
Voglia di rincorsa
Ecco fabbricata con maestria una nuova identità che rischia di avere una sua credibilità di tutto rispetto da spendere con qualche “onesto guadagno”. C’è solo da chiedersi come mai tutto questo po’ po’ di roba salti fuori solo ora. Non dimentichiamoci che anch’essi sono stati costretti a formarsi dopo aver rimproverato aspramente a Veltroni di voler correre da solo. Vista l’impossibilità di modificare la legge elettorale subito dopo la caduta del governo Prodi, gli arcobalenisti erano del tutto disponibili a riformare la coalizione di centrosinistra, per cui non esisterebbero se non ne fossero stati forzati. Ma dato che si sono sentiti obbligati dagli eventi, allora cercano di approfittarne per capire e decidere che cosa sono e perché vogliono esserci come entità separata. Un’immagine giustificativa con un’apparenza di dignità spendibile dovranno pur darla, se vogliono capitalizzare un po’ di consensi nel campo loro proprio. Intanto si propongono elegantemente con un superbo superabusato arcobaleno che fa bella mostra di sé.
Tutto questo bailamme propagandistico, messo in moto in quattro e quattr’otto perché i tempi stringono, può benissimo essere riassunto da uno degli slogan preferiti di Veltroni: “L’Italia deve riprendere a correre”. Riassume bene il senso della tensione ora in marcia, rappresentativo di tutto lo spirito che sta muovendo le volontà politiche in lizza: la voglia di rincorsa per riprendersi il posto perduto di potenza economica nel mondo. Sono invece arciconvinto che bisognerebbe fermarsi. Verso che cosa dobbiamo continuare a correre?
Edgar Morin fin dal 1972 ci metteva in guardia dalla crescita economica legata a uno sconsiderato sviluppo industriale per fini di profitto. Ma dove crediamo di poter andare? Ho presenti le desertificazioni di vaste zone degli oceani fotografate dai satelliti, dove non esiste più plancton e le forme vita sono state annullate, oppure le due enormi chiazze oceaniche, concentrazioni di rifiuti umani scaricati nelle acque oceaniche, che ugualmente stanno annichilendo le possibilità di vita. Sono simboliche e paradigmatiche dei risultati della frenetica corsa che induce alla follia di una continua esasperata distruzione. Dobbiamo fermarci! Siamo ancora in tempo. Per ripensare e ridefinire, dal basso e collettivamente, i sistemi di relazione sociali, politici ed economici, all’insegna di una bio/politica dedita finalmente alla vita e non più al suo sfruttamento. Non lo si può certo fare con la riproposizione stantia del riscatto propagandata ancora una volta per ottenere consensi e voti.