(…) La radice del problema evidenziata da questi scritti è che il conflitto israelo-palestinese introduce complessità che non sono facilmente analizzabili da un punto di vista anarchico classico. La tensione tra l’impegno antimperialista degli anarchici da un lato, e il loro tradizionale rigetto in toto dello stato e del nazionalismo dall’altro, sembrerebbe metterli in una situazione di stallo di fronte alle lotte di liberazione nazionale dei popoli sottoposti a occupazione. La mancanza di riflessioni fresche sul tema crea una situazione in cui, così parrebbe, si può solo scegliere di ricadere nella formula onnicomprensiva della lotta di classe, oppure disimpegnarsi del tutto dal dibattito. Per comprendere come mai si arriva a questo, partiamo con l’analisi della critica anarchica al nazionalismo. |
Anarchismo e nazionalismo
Nella letteratura anarchica predomina la distinzione epistemologica tra il nazionalismo artificiale costruito dallo stato da un lato e, dall’altro, il sentimento di appartenenza al proprio popolo o gens – un raggruppamento naturale che sorge dalla condivisione di caratteristiche etniche, linguistiche e/o culturali. Michail Bakunin (1871: 324) argomentava che la ‘patria’ rappresenta un “modo di vivere e sentire” – cioè una cultura locale – che è “sempre il risultato incontrovertibile di un lungo processo storico”. Come tale, il profondo amore per la patria tra la “gente comune… è un amore reale, naturale”. Mentre Bakunin (e molti altri anarchici) non rifiutava affatto il sentimento di una comune appartenenza, tipicamente a una terra, era la corruzione di questo sentimento operata dalle istituzioni statali che essi rigettavano in quanto nazionalismo – ossia una lealtà superiore a uno stato-nazione. Un simile nazionalismo era, ed è, visto come uno strumento ideologico reazionario volto a creare una falsa unità e un falso interesse comune tra elementi altrimenti antagonisti all’interno di una singola società, a porre le classi oppresse lavoratrici di un paese contro quelle di un altro e a distogliere la loro attenzione dalla necessità di lottare contro gli oppressori attraverso linee internazionaliste. Perciò per Bakunin “il patriottismo politico, o l’amore per lo stato, non è la sincera espressione” dell’amore della gente comune per la madrepatria, ma piuttosto un’espressione “distorta dagli strumenti di una falsa astrazione, sempre a beneficio di una minoranza di sfruttatori” (ibidem).
Uno sviluppo maggiormente elaborato di quest’argomentazione fu apportato da Gustav Landauer, che vedeva nel popolo un’entità organica basata su un’unicità condivisa dello spirito (Geist) – ossia sentimenti, idee, valori, linguaggio e credenze – che unifica gli individui in una comunità. Per Landauer, lo ‘spirito popolare’ è la base della comunità; esso esisteva prima dello stato e tornerebbe a essere preminente in una società liberata. La presenza dello stato è ciò che impedisce a questo spirito di realizzare se stesso come “un’uguaglianza di individui – nel sentimento e nella realtà – che si determina per mezzo di uno spirito libero verso l’unione e l’armonia” (Landauer 1907). Landauer ritiene anche possibile possedere diverse identità: egli vedeva se stesso come un essere umano, un ebreo, un tedesco e un tedesco del sud. In un altro passaggio (1973/1910: 263) scriveva:
“Qualunque elemento imponderabile e ineffabile che porti con sé legami esclusivi, unità e anche diversità all’interno dell’umanità, mi rende felice. Se voglio trasformare il patriottismo, allora, non agirò con leggerezza contro la realtà nobile della nazione….ma contro il miscuglio tra stato e nazione, contro la confusione tra differenziazione e opposizione”.
Rudolf Rocker adottò la distinzione di Landauer nel suo Nazionalismo e Cultura, dove il popolo viene definito come “il risultato naturale dell’unità sociale, una associazione mutuale di uomini determinata da una certa similitudine delle condizioni di vita esterne, da un linguaggio comune e da caratteristiche speciali dovute al clima e all’ambiente geografico” (Rocker 1937: 200-1).
Tuttavia, Rocker chiarisce che è possibile parlare di popolo, come entità, solo in termini che siano spazialmente e temporalmente specifici. Questo perché, nel corso del tempo, “quando popoli e razze diverse arrivano a una maggiore unificazione, si producono sempre una ricostruzione culturale e nuovi stimoli sociali. Ogni nuova cultura inizia con una simile fusione di differenti elementi popolari, e assume da ciò la sua forma particolare” (346). D’altro canto, ciò che Rocker chiama “nazione” è l’idea essenzialista di una comunità unificata di interessi, spirito e razza, ed è quello che intende per creazione dello stato. Perciò, come Landauer e Bakunin, Rocker condanna come ‘nazionalismo’ quella superiore lealtà allo stato propria di una nazione. Allo stesso tempo, la tradizionale posizione anarchica sostiene che, senza la presenza ingombrante dello stato, si aprirebbe lo spazio per l’auto-determinazione e lo sviluppo mutualmente fecondo delle culture popolari locali.
Queste posizioni nei confronti del nazionalismo, tuttavia, avevano come punto di riferimento principale i nazionalismi europei associati agli stati allora esistenti. Molta meno attenzione ricevette la questione del nazionalismo nelle lotte di liberazione nazionale dei popoli senza stato. Kropotkin, per esempio, vedeva positivamente i movimenti di liberazione nazionale, sostenendo che la rimozione della dominazione straniera fosse una pre-condizione affinché i lavoratori acquistassero una propria coscienza sociale (Grauer 1994). Del resto, ciò che può essere una condizione necessaria non è detto che sia una condizione sufficiente, e si potrebbe sostenere, allo stesso modo, che gli sforzi per la liberazione nazionale possono concludersi solo con la creazione di nuovi nazionalismi sponsorizzati dagli stati.
Uno stato desiderabile?
Questa tensione salta prepotentemente all’occhio nel caso di Israele/Palestina. La grande maggioranza dei palestinesi vuole uno stato proprio accanto a Israele. Ma come fanno gli anarchici, che sostengono la lotta palestinese, a conciliare tutto ciò con i loro principi anti-stato? Come possono sostenere la creazione di un nuovo, ulteriore, stato in nome della ‘liberazione nazionale’, che è l’obiettivo esplicito o implicito di quasi tutti i palestinesi? Ciò che qui lavora è la critica anarchica secondo cui, negli sforzi per la propria liberazione nazionale, i palestinesi si stiano inchinando all’idea che lo stato sia un’istituzione desiderabile e si stiano prestando alle illusioni nazionaliste alimentate dalle élite dirigenti, che diventeranno solamente fonte della loro futura oppressione.
Questa è la logica che anima la posizione di McCarthy e quella dei sindacalisti britannici della Solidarity Federation, che dichiarano di “sostenere la lotta del popolo palestinese…e stare dalla parte di quegli israeliani che protestano contro il governo razzista… Ciò che non possiamo fare è sostenere la creazione di un ulteriore nuovo stato nel nome della ‘liberazione nazionale’ (Solidarity Federation 2002).
Da una posizione simile derivano però due problemi. Primo, essa attira a sé la critica di essere paternalista, dal momento che gli anarchici prendono di essere più capaci dei palestinesi a discernere i loro ‘reali interessi’, gettando così a mare la necessità di accordare la solidarietà nei termini articolati dagli oppressi. In secondo luogo, e cosa ancor più importante, essa lascia gli anarchici con nient’altro se non vuote dichiarazioni di intenti, del genere: “stiamo dalla parte e sosteniamo tutti coloro che vengono oppressi da chiunque abbia il potere di farlo” (ibid.) o “ non occorre forzare lo stato di Israele a rispettare i diritti dei palestinesi, né appoggiare la formazione di un nuovo stato palestinese. Occorre invece iniziare a praticare la diserzione, il rifiuto, il sabotaggio, l’attacco, la distruzione contro ogni autorità costituita, ogni potere, ogni stato” (Friends of Al-Halladj 2002). Ancora, mentre tali sentimenti si accordano certamente alle aspirazioni a più lungo termine degli anarchici, finiscono anche per relegare gli anarchici a un ruolo irrilevante nella fase attuale. Da una parte, gli anarchici saranno certamente d’accordo sul fatto che la creazione di uno stato capitalista palestinese, attraverso negoziati tra governanti esistenti e futuri, significherebbe soltanto la “sottomissione dell’Intifada alla dirigenza compradora palestinese che fa solo gli interessi di Israele”, e che la globalizzazione neoliberista, o le iniziative per la cooperazione commerciale regionale come la zona mediterranea di libero scambio, stanno inscrivendo una traiettoria capitalista per la regione che finirà solo per incrementare la povertà economica e i dislivelli sociali, senza offrire soluzioni al problema dei rifugiati (Anarchist Communist Initiative 2005).
Dall’altra parte, disimpegnandosi dalla richiesta concreta palestinese di avere un proprio stato, questi anarchici non hanno nulla da proporre tranne “uno stile di vita totalmente differente e l’uguaglianza tra tutti gli abitanti della regione….una società anarchica e comunista senza classi” (ibid). Tutto ciò è molto bello e giusto, ma cosa succede nel frattempo?
Numerose contraddizioni
Ovviamente gli anarchici possono fare qualcosa di più concreto, in solidarietà con i palestinesi, del solo ribadire che “ci vuole una rivoluzione”, ma ogni azione in tal senso apparirebbe irrimediabilmente contaminata dalla questione dello stato, all’ordine del giorno. Il fatto che, tuttavia, gli anarchici siano coinvolti sul terreno in azioni di solidarietà con le comunità e i gruppi palestinesi, ci chiede di afferrare questo insidioso toro per le corna. A mio avviso, esistono almeno quattro risposte coerenti con le quali gli anarchici possano affrontare il dilemma del sostegno a uno stato palestinese.
La prima risposta, e quella più diretta, è riconoscere che sì, la contraddizione esiste davvero, ma occorre insistere che in una situazione limite, imperfetta, la solidarietà vale sempre la pena di essere praticata, anche se a prezzo dell’incoerenza. L’adesione alla richiesta di uno stato palestinese da parte degli anarchici può essere vista come una posizione pragmatica basata sull’impegno antimperialista o persino su preoccupazioni umanitarie più basilari. Non fa bene a nessuno dire ai palestinesi: “scusateci, lasceremo che restiate dei non-cittadini di un’occupazione brutale fino a quando non avremo abolito del tutto il capitalismo”. Per questa ragione, si può vedere in una qual sorta di rappresentanza statale l’unica risposta a breve termine, benché imperfetta, ai palestinesi e alla loro attuale oppressione. A ciò si lega l’ottica per la quale la solidarietà “non significa appoggiare coloro che condividono le tue stesse linee politiche. Significa sostenere coloro che lottano contro le ingiustizie, anche se le loro posizioni, i metodi, le linee politiche e gli obiettivi sono differenti dai tuoi” (ISM Canada 2004). Grazie a questo tipo di risposta, gli anarchici riconoscono sì una tensione irrisolta nelle loro politiche, ma esprimono un giudizio di valore specifico grazie al quale l’impegno antimperialista o umanitario di ciascuno ha la meglio su una politica anti-stato del tutto intransigente.
Un punto da enfatizzare in questo ragionamento è che gli stati sono solitamente ostili ai popoli senza stato (e a quelli nomadi). Gli ebrei prima della seconda guerra mondiale e i palestinesi sono solo due tra i tanti esempi di popoli oppressi e senza stato dell’epoca moderna. Si noti che, mentre molti ebrei erano cittadini (spesso di seconda classe) dei paesi europei agli inizi del ventesimo secolo, una primo passo importante verso l’Olocausto fu proprio la loro privazione del diritto di cittadinanza, che rese così gli ebrei dei senza patria.
Una seconda e differente risposta è quella di affermare che non c’è realmente alcuna contraddizione nel sostegno da parte degli anarchici alla creazione di uno stato palestinese. E ciò per la semplice ragione che i palestinesi vivono già sotto uno stato, Israele, e che la formazione di un nuovo stato palestinese determinerebbe solo un cambiamento quantitativo, non qualitativo. Gli anarchici si oppongono non a questo o quello stato, ma allo stato come modello generale di relazioni sociali e al principio che sta dietro a ciascuno di essi. Sarebbe fuorviante ridurre quest’opposizione a termini puramente quantitativi; il numero di stati esistenti al mondo non aggiunge né toglie nulla al giudizio degli anarchici su quanto il mondo reale si avvicini ai loro ideali. Se il mondo fosse retto da un unico stato, per esempio, per gli anarchici sarebbe un problema tanto quanto lo è la situazione attuale (se non di più), anche se il processo di creazione di quell’unico stato avrebbe comportato l’eliminazione di 190 stati. Da una prospettiva anarchica puramente anti-stato, dunque, per i palestinesi vivere sotto uno stato palestinese, invece che sotto a quello israeliano sarebbe, nella peggiore delle ipotesi, negativo nella stessa misura. In tale situazione, le considerazioni pragmatiche richiamate sopra nella prima risposta non devono più essere viste come uno scambio (compensazione, bilanciamento), ma come un avanzamento assolutamente positivo. Se occorre scegliere chi debba controllare la West Bank o Gaza, se uno stato israeliano o uno palestinese, mentre le relazioni sociali da trasformare alla radice rimangono le stesse, allora è certamente preferibile la seconda opzione. Un futuro stato palestinese, nonostante possa mantenere alla base il modello di relazioni sociali statali e capitaliste, e al di là di quanto possa essere corrotto o pseudo-democratico, sarebbe in ogni caso meno brutale di quanto sia attualmente lo stato israeliano nei confronti della popolazione palestinese. Il controllo di un’autorità civile, anche se molto peggiore dell’anarchia, è tuttavia molto migliore di un’occupazione militare, delle sue umiliazioni senza sosta e del controllo su ogni aspetto della vita quotidiana dei palestinesi.
Riduzione della violenza
Una terza risposta, che ricalca il punto di vista di Kropotkin sopra riportato, è affermare che gli anarchici possano sostenere uno stato palestinese come scelta strategica, come passaggio auspicabile in una lotta a lungo termine. Nessuno può, in tutta onestà, aspettarsi che la situazione in Israele/Palestina possa fare un salto netto dalla realtà attuale all’anarchia. Perciò, la creazione di uno stato palestinese attraverso un accordo di pace con Israele, sebbene lontana da una reale ‘soluzione’, potrebbe rivelarsi uno sviluppo positivo nel percorso di un cambiamento sociale più radicale. La riduzione della violenza quotidiana da entrambe le parti può dare un grosso contributo all’apertura di uno spazio più ampio per le lotte sociali, economiche, ambientali e delle donne, e costituirebbe così un positivo avanzamento da un punto di vista strategico. Attualmente nella regione tutti i progetti di lotta libertaria sono messi al margine dal conflitto in corso. È molto difficile coinvolgere le persone su altre questioni sociali mentre dura il conflitto, perché esso riduce tutto il resto al silenzio. Pertanto, la realizzazione di uno stato palestinese costituirebbe la testa di ponte per la fioritura di una miriade di altre lotte sociali, in Israele e in qualunque enclave statale emerga sotto la direzione dell’élite palestinese. Per gli anarchici un tale processo significherebbe un passo avanti importante, all’interno di una strategia di lungo termine volta alla distruzione dello stato di Israele, di quello palestinese e di tutti gli altri stati oltre che del capitalismo, del patriarcato e così via.
Una quarta risposta consiste nel ribaltare completamente i termini della discussione, sostenendo che l’appoggio anarchico a uno stato palestinese è un punto fuorviante che induce perciò a un falso dibattito. In cosa consiste esattamente, infatti, questo ‘sostegno’ che gli anarchici dovrebbero accordare? Se il dibattito deve sfociare in una conclusione costruttiva, allora la questione da porre è se gli anarchici possano e debbano agire a sostegno di uno stato palestinese. Ma in cosa dovrebbe consistere quest’azione, a parte gli appelli, le petizioni, le manifestazioni e gli altri elementi della ‘politica delle richieste’ che gli anarchici tentano di superare? Difficilmente è possibile creare uno stato tramite l’azione diretta anarchica, e i politici che hanno effettivamente la possibilità di decidere se dare o meno infine ai palestinesi un proprio stato non si pongono certo il problema di chiedere agli anarchici la loro opinione. Viste in questa luce, le discussioni se gli anarchici debbano accordare o meno il loro sostegno a breve termine a uno stato palestinese suonano sempre più ridicole, visto che l’unico merito di un simile dibattito sarebbe quello di giungere a una piattaforma comune.
Da questo punto di vista, gli anarchici devono praticare azioni di solidarietà verso i palestinesi (e per lo stesso motivo verso i tibetani, gli abitanti di Papua Occidentale e i Saharawi), senza far riferimento alla questione dello stato. Gli atti quotidiani di resistenza a cui partecipano e che difendono gli anarchici in Palestina e Israele, sono passi concreti per aiutare a preservare la vita e la dignità della popolazione, e non sono passi necessariamente connessi con un progetto di stato. Non è detto che i palestinesi che vengono aiutati dagli anarchici a rimuovere i blocchi stradali, o nella raccolta delle olive sotto le minacce dei coloni, agiscano considerando questi passaggi utili alla la creazione di uno stato. Il punto è che, una volta che lo si osservi da una prospettiva strategica più a lungo termine, le azioni anarchiche hanno delle implicazioni che valgono la pena di essere praticate indipendentemente dal fatto di essere legate a un programma di indipendenza statale.
Con in testa un approccio di questo tipo, parrebbe che la via più costruttiva per proseguire l’indagine sia quella di analizzare cosa stanno già facendo in concreto sul terreno gli anarchici e i loro alleati. Arriviamo così alla seconda parte dell’articolo. La domanda centrale diventa ora: quali aspetti dell’impegno anarchico nelle lotte in Palestina/Israele mettono in mostra più chiaramente le caratteristiche strategie e attitudini anarchiche.
Collegare le questioni
Osservando il panorama del conflitto in Palestina/Israele, occorre essere consapevoli del fatto che la presenza anarchica sul terreno è scarsa e distribuita in maniera diseguale. Facendo una stima generosa esistono circa 300 persone politicamente attive in Israele che non disdegnano di denominarsi anarchiche, la maggioranza delle quali è costituita da giovani uomini e donne dai 16 ai 35 anni. Tra i palestinesi esiste una manciata di spiriti simili e molti alleati, ma nessun movimento anarchico attivo. A questo si aggiunge la presenza di alcuni anarchici nei progetti di solidarietà internazionale in loco, anzitutto attraverso l’International Solidarity Movement (ISM) diretto dai palestinesi. A dispetto del loro numero esiguo, gli anarchici e i loro alleati più stretti hanno avuto un notevole impatto. Analizzando il quadro delle attività anarchiche in Israele/Palestina emergono tre linee di intervento, tra loro intrecciate, che rimandano alle caratteristiche più generali delle politiche anarchiche globali, e sollevano al contempo alcune questioni che hanno ricevuto un’attenzione minore fuori dal contesto regionale. La prima di queste è la questione del collegamento delle lotte.
Probabilmente la forza più ovvia dell’anarchismo contemporaneo risiede nella sua piattaforma politica che tocca molteplici questioni, in un ordine del giorno consapevole che punta a integrare lotte differenti. In termini genealogici, la piattaforma deriva dal radicamento del movimento contemporaneo nell’intersezione tra i movimenti ecologisti, femministi, contro la guerra e il neoliberismo. In termini teorici, questa intersezione ha le sue radici nell’accento, posto dagli anarchici, sulla dominazione e la gerarchia in quanto basi di molteplici ingiustizie. Dando vita a reti che integrano i diversi gruppi e movimenti in cui sono attivi, gli anarchici possono facilitare il riconoscimento e il reciproco sostegno tra le lotte.
Questo tessuto è chiaramente presente nelle attività degli anarchici e degli altri movimenti radicali in Israele/Palestina, ove giunge ad assumere un profilo locale unico. Grazie alla loro attività, sono emerse connessioni molto più profonde e consapevoli tra l’occupazione, il sempre maggior dislivello sociale tra ricchi e poveri, lo sfruttamento dei lavoratori stranieri e locali, la condizione delle donne, il razzismo e la discriminazioni etniche, l’omofobia, l’inquinamento e il modello consumista.
Lesbiche, gay, queer...
Un esempio di collegamento delle lotte contro l’occupazione con un differente programma libertario è l’attività di Kvisa Shchora (Black Laundry) – un gruppo per l’azione diretta formato da lesbiche, gay, bisessuali, transgender e altri contro l’occupazione e per la giustizia sociale. Fu creato in occasione del Gay Pride di Tel Aviv nel 2001, pochi mesi dopo l’inizio della seconda Intifada. Premendo su una celebrazione sino ad allora spoliticizzata e commerciale, circa 250 queer radicali vestiti di nero si unirono al corteo sotto gli slogan ‘Nessun Orgoglio nell’occupazione’ Da allora, il gruppo ha intrapreso azioni e si è sviluppato con un forte orientamento anti-autoritario, che sottolinea il legame tra le diverse forme di oppressione, le quali ‘alimentano lo stesso razzismo, lo stesso sciovinismo, e lo stesso militarismo che sorreggono l’oppressione e l’occupazione del popolo Palestinese… In una società militarizzata non c’è posto per il debole o per il diverso; lesbiche, gay, drag queen, transessuali, lavoratori immigrati, donne, ebrei sefarditi, arabi, palestinesi, poveri, disabili e altri’ (Black Laundry 2001). Negli ultimi anni la comunità queer radicale in Israele è cresciuta di numero e si è diffusa in maniera più capillare. Feste queer gratuite e pubbliche (le Queer’hana), spesso in concomitanza con gli eventi ‘ufficiali’ del Gay Pride, ne hanno aumentato la visibilità pubblica, mentre i legami con gli anarchici queer a livello mondiale si sono rafforzati grazie al percorso organizzativo finalizzato alla nona edizione del Queeruption – un raduno queer radicale libero e autogestito svoltosi nell’estate 2006 (si veda www.queeruption.org/q2006/).
La politica a 360° della rete radicali queer in Israele le conferisce un duplice ruolo: da un lato quello di promuovere la solidarietà con i palestinesi, oltre che l’anticapitalismo e l’antagonismo, nella tradizionale comunità GLBT; dall’altro, quello di sottolineare il tema della liberazione queer nel movimento contro l’occupazione. Secondo uno dei suoi membri, mentre molti attivisti all’inizio non comprendevano il significato di manifestare in quanto queer contro l’occupazione, ‘dopo molte azioni e discussioni la nostra visibilità viene ora accettata e ben accolta. Lo stesso non si può dire dei nostri partners palestinesi, per cui nei territori di solito torniamo al coperto’ (Ayalon 2004). Quest’ultima realtà dei fatti ha anche portato i queer anarchici a prendere contatti e offrire solidarietà ai GLBP palestinesi, che incontrano ancor meno accettazione all’interno della loro società di quanto non accada ai queer israeliani.
Un’altra relazione interessante da esaminare in questo contesto è quella tra i gruppi per la liberazione animale e le lotte anarchiche. Mentre una partecipazione trasversale ai due movimenti rimane relativamente ridotta a livello globale, i due movimenti hanno evidenti caratteristiche condivise (l’attitudine allo scontro, l’uso dell’azione diretta, un’estrema decentralizzazione, radici nella sottocultura punk). Più di recente i gruppi animalisti come lo SHAC hanno iniziato a colpire le infrastrutture delle aziende che fanno test sugli animali. Pur restando una scelta tattica, ciò implica anche un’analisi più profonda dei legami tra lo sfruttamento animale e le altre forme di dominio, una direzione esplorata da alcuni scritti con crescente intensità negli ultimi anni (Dominick 1995, Anonymous10 1999, homefries 2004). Le ultime tendenze della repressione statale, compresa la restrizione al diritto di manifestare e la legislazione contro il sabotaggio economico, stanno iniziando a generare una significativa solidarietà e cooperazione tra i due movimenti, e singoli attivisti del movimento animalista hanno iniziato di recente a prendere contatti con gli anarchici, un processo che inizia a fertilizzare un interessante terreno trasversale.
Programma animalista e anticapitalista
In Israele, il peso ridotto della componente radicale ha determinato una realtà differente, nella quale esiste effettivamente una grande sovrapposizione tra i due movimenti. L’esempio più significativo è Ma’avak Ehad (One Struggle), un gruppo di affinità che combina l’anarchismo esplicito con un programma di azione animalista, e i cui membri sono realmente attivi anche nelle lotte contro l’occupazione. Ancora, la combinazione dei programmi si coniuga con l’obiettivo specifico di ‘evidenziare la connessione tra tutte le diverse forme di oppressione, e quindi anche delle diverse lotte contro di esse’ (One Struggle 2002). L’esplicito programma anticapitalista ed ecologista di Ma’avak Ehad aggiunge anche una rara critica radicale della relazione tra il capitalismo e il conflitto israelo-palestinese. Mentre quest’ultimo viene indagato molto bene dal punto di vista economico (si veda per esempio Nitzan and Bichler 2002), la consapevolezza di questa connessioni è lontana dal diffondersi nel discorso pubblico, risultando solo in certa retorica politica del tipo ‘soldi per i servizi sociali, non per le colonie!’. L’enfasi posta sulla liberazione animale crea un ulteriore ponte importantissimo: richiamando l’attenzione sui diritti degli animali all’interno dei movimenti per la pace e la giustizia sociale, ma anche incoraggiando la resistenza all’occupazione nella comunità vegetariana e vegana. Allestendo dei banchetti di Food not Bombs, il gruppo evidenzia i legami significativi tra la povertà, il militarismo e lo sfruttamento animale, che sono punti molto sensibili nel contesto israeliano. Infine, alcuni membri di questo gruppo sono stati tra i fondatori degli Anarchici contro il Muro.
Un terzo esempio in questa linea è costituito da New Profile, un’organizzazione femminista che sfida l’ordine sociale militarista di Israele. Le sue attività ricadono in due categorie. In primo luogo essa svolge un lavoro di educazione sui legami tra il militarismo nella società israeliana e il patriarcato, la disuguaglianza e la violenza sociale, e agisce per “disseminare e realizzare i principi democratici e femministi all’interno del sistema educativo israeliano, sfidando un sistema che promuove l’obbedienza cieca e la glorificazione del servizio militare” (Aviram 2003). Le attività in questo campo comprendono dibattiti nelle scuole che promuovono un pensiero critico e non gerarchico, e seminari per gruppi su consenso, risoluzione dei conflitti e processi democratici.
Secondo, New Profile è il più radicale dei quattro gruppi di refusenik israeliani, e quello in cui si organizzano prevalentemente gli anarchici che rifiutano il servizio militare. Il gruppo organizza campagne per il diritto all’obiezione di coscienza e il suo sito web offre guide complete al rifiuto della leva sia per gli uomini che per le donne. Mette inoltre in funzione una rete di ‘commilitoni’ a sostegno dei refusenik prima, durante e dopo la carcerazione, prepara seminari per giovani che sono ancora in dubbio sul rifiutare o sottrarsi o meno al servizio militare, e conduce campagne per sostenere e riconoscere la lotta delle donne refusenik. La posizione femminista radicale e antimilitarista del gruppo, oltre che essere un messaggio importante per la società, crea anche un ponte significativo tra le femministe e il movimento dei refusenik, ancora timido nel prendere di petto l’immaginario essenziale a cui molti refusenik – prevalentemente maschi della sinistra sionista tradizionale – continuano ad aderire.
In difesa delle case palestinesi
Una seconda linea di intervento in Palestina/Israele in cui si rispecchiano le metodologie globali è quella che prevede la disobbedienza civile e l’azione diretta, in particolare all’interno del contesto delle lotte contro l’occupazione fin dall’inizio della seconda Intifada. Queste tattiche sono ovviamente centrali nel repertorio politico anarchico, per l’enfasi che pongono sull’azione senza mediazioni per trasformare la realtà – sia essa distruggere e prevenire, o creare e predisporre – piuttosto che fare appello a un soggetto esterno affinché eserciti un potere per proprio conto.
Il terreno privilegiato dell’impegno anarchico nella disobbedienza civile e nell’azione diretta in Palestina/Israele è il sostegno quotidiano alla resistenza non-violenta palestinese. Lo sviluppo di questa posizione può essere abbastanza nettamente suddiviso in due periodi. Il primo va dall’estate del 2001 alla primavera del 2003, quando l’organo centrale per le iniziative di solidarietà mediante azione diretta era costituito dall’International Solidarity Movement, un coordinamento guidato dai palestinesi e attraverso il quale gli attivisti europei e nord americani, tra cui molti anticapitalisti, sono arrivati nei territori occupati per accompagnare le azioni non-violente (Sandercock et al 2004). L’ISM è divenuto attivo prima della recrudescenza delle invasioni dello stato di Israele e degli attacchi ai centri abitati della popolazione palestinese. Tra le sue azioni si annoverano le catene umane, formate per bloccare l’intervento dei soldati mentre i palestinesi abbattevano i blocchi stradali, tenevano manifestazioni di massa o violavano collettivamente il coprifuoco per poter andare a scuola, raccogliere le olive o giocare a calcio. Cosa molto interessante, gli organizzatori stimano che da un quarto a un terzo dei volontari dell’ISM fossero ebrei. Con l’escalation della violenza, l’ISM è stato spinto a focalizzare il proprio intervento sempre di più sulla protezione e il prestarsi come scudo umano, tentando allo stesso tempo di attirare l’attenzione del mondo sulla repressione subita dai palestinesi attraverso la presenza ‘in diretta’ di testimoni internazionali. Durante le invasioni dell’estate del 2002, in un momento in cui un coinvolgimento più proattivo sarebbe stato inevitabilmente soppresso con la forza brutale, gli attivisti dell’ISM rimanevano nelle case dei palestinesi che rischiavano la demolizione, giravano con le ambulanze, scortavano i lavoratori dei servizi pubblici che riparavano le infrastrutture, e trasportavano cibo e medicinali alle comunità sotto assedio. In quello che fu il dramma più amplificato dai media in questa fase, gli internazionali rimasero chiusi per settimane a Betlemme nella Chiesa della Natività posta sotto assedio assieme agli abitanti, ai religiosi e ai militanti armati. Per un certo periodo, ciò che facevano gli internazionali era dettato da quando, dove e come l’esercito israeliano avrebbe colpito. Con il rifluire della violenza, tuttavia, l’enfasi sulle operazioni difensive è diminuita e l’ISM è tornato a essere proattivo, con manifestazioni per rompere il coprifuoco e una giornata internazionale di azione nell’estate 2002.
Sebbene l’ISM e i gruppi di solidarietà a esso affini non siano nominalmente anarchici e includano una vasta e variegata schiera di partecipanti che rappresentano un’ampia gamma di posizioni politiche, si possono tuttavia individuare due chiare connessioni con l’anarchismo.
Primo, in termini di identità dei partecipanti, le iniziative di solidarietà internazionale in Palestina hanno visto una presenza maggioritaria e continuativa degli anarchici, che si erano prima fatti le ossa con le mobilitazioni anticapitaliste e nelle organizzazioni di base in Nord America e in Europa. Questi network hanno pertanto costituito i principale veicolo di coinvolgimento sul terreno degli anarchici a livello internazionale in Palestina. Secondo, e in modo più sostanziale, si può sostenere che la fonte principale di affinità degli anarchici con l’ISM è che esso mostra in maniera preminente molte delle caratteristiche della cultura politica anarchica: l’assenza di una appartenenza formale, di una politica complessiva e di gruppi dirigenti ufficiali; un modello organizzativo decentralizzato basato su gruppi di affinità autonomi, discussioni assembleari e un modello decisionale fondato sul consenso; un’attenzione strategica verso campagne a breve termine e tattiche creative che sottolineano l’azione diretta e il rafforzamento della base. Tali affinità si possono evincere da un documento dell’ISM canadese (ibid.) in merito alla necessità di spostarsi da “un modello di attivismo arrogante e ‘saccente’ in direzione di un reale modello di attivismo ‘solidale’”, la cui enfasi sull’azione diretta contiene molte parole chiave del linguaggio politico anarchico:
Solidarietà significa molto più che fare opere di ‘carità’ per lavarsi la coscienza. Occorre fare di più che limitarsi testimoniare o documentare le atrocità, sebbene anche questi siano compiti fondamentali del nostro lavoro. L’ISM intende la solidarietà come il dovere di prendere attivamente parte alla resistenza all’occupazione, di schierarsi, di mettere i nostri corpi in prima linea e di usare il privilegio relativo che ci accordano i nostri passaporti o, in alcuni casi, il colore della nostra pelle – prima e principalmente nei modi che ci sono effettivamente richiesti dai palestinesi, ma anche in modi che aiutino a costruire fiducia e ad allargare la rete di mutuo appoggio.
Occorre sottolineare comunque che queste affinità con l’anarchismo non sono il risultato di nessuna influenza diretta da parte del movimento anarchico occidentale. Piuttosto, esse sono il punto di convergenza tra l’anarchismo e l’endemica tradizione di resistenza popolare palestinese. I palestinesi hanno un orientamento duraturo verso la disobbedienza civile e l’azione non-violenta, che è continuato fin dalla prima intifada, un’insurrezione organizzata attraverso comitati popolari e largamente indipendente dalla leadership dell’OLP, che ha incluso manifestazioni di massa, scioperi generali, rifiuto di pagare le tasse, boicottaggio dei prodotti israeliani, graffiti politici e creazione di progetti di mutuo appoggio e di scuole alternative e sotterranee.
Spiegare che cos’è l’anarchia
Quindi, il primo punto da mettere in evidenza riguardo le particolarità del coinvolgimento degli anarchici nell’azione diretta in Palestina ha a che vedere con la sua forte dimostrazione di anti-avanguardismo. In tutte queste azioni gli anarchici e i loro alleati hanno partecipato deliberatamente come sostenitori e aderenti, piuttosto che come promotori. L’etica dell’ISM e degli altri gruppi di solidarietà, spinge affinché siano i membri della comunità palestinese e i loro rappresentanti ad assumere la guida, basandosi sul principio che l’assunzione delle decisioni e il controllo delle azioni debbano essere proporzionali a quanto potenzialmente uno possa essere colpito dalle reazioni alle stesse. Di conseguenza, i membri dell’ISM sono stati attenti a sottolineare che “gli internazionali non possono comportarsi come quelli che vengono per insegnare ai palestinesi qualcosa sulla ‘pace’, sulla ‘non-violenza’ o sulla ‘moralità’ e la ‘democrazia’, o su qualunque altra cosa che molti in occidente tipicamente (e in modo arrogante e sbagliato) concepiscono come di esclusivo dominio dell’attivismo e dei valori occidentali” (ibid.). Allo stesso modo, Yossi Bar-Tal ha affermato che “non stiamo lavorando in Palestina per educare…. Non distribuiremmo mai dei volantini in arabo per spiegare cos’è l’anarchia e perché uno dovrebbe unirsi a noi, perché non è questo il nostro modo di agire…non siamo lì per educare, perché finché loro vivranno sotto l’occupazione del nostro stato, non abbiamo ragione di andare lì e predicare” (Lakoff 2005). La stessa logica è stata applicata all’idea della disobbedienza e dell’azione diretta. In uno scenario simile, ogni tentativo di definire il contributo in termini di azione diretta – per esempio trapiantando tattiche elaborate dagli schemi occidentali – si rivolterebbe contro gli anarchici in quanto sarebbe visto come un intervento arrogante. Perciò in questo caso il legame con gli anarchici si ha più in termini di supporto alle esistenti forme di resistenza popolare in cui hanno esperienze affini, piuttosto che in termini di importazione, da parte degli anarchici, delle proprie politiche all’interno di un’arena del tutto nuova.
La primavera del 2003 ha marcato un evidente periodo di transizione per l’azione diretta in Israele/Palestina, con il passaggio del centro di gravità delle iniziative di solidarietà dall’ISM agli attivisti israeliani. La ragione di questo avvicendamento si trova nella profonda crisi interna all’ISM, seguita alla rapida successione di eventi tragici che hanno portato a un abbassamento del suo profilo e alla creazione di un vuoto che è stato riempito dagli Anarchici contro il Muro, che proprio in questo periodo hanno iniziato a organizzarsi.
Due fattori hanno contribuito al riflusso delle attività dell’ISM. Il primo è stato l’assassinio di due suoi volontari a Gaza. Il 16 marzo, Rachel Corrie venne travolta da un bulldozer militare israeliano che stava provando a ostacolare durante la demolizione di una casa a Rafah. Sempre nella stessa zona, l’11 aprile un altro internazionale, Tom Hurndall, venne raggiunto alla testa da un proiettile sparato da un cecchino israeliano, entrò in coma e morì nove mesi più tardi. Sebbene le uccisioni abbiano sollevato le proteste internazionali, aumentato il prestigio dell’ISM e sottolineato ulteriormente la brutalità dell’occupazione, esse hanno anche evidenziato l’immenso rischio che accompagnava le iniziative di solidarietà internazionale e portò molti attivisti a pensarci due volte prima di andare in Palestina. Il secondo fattore fu una campagna concertata da Israele per associare l’ISM al terrorismo, cui è seguita l’adozione di misure restrittive nei confronti dell’organizzazione. Nella notte del 27 marzo, mentre era in corso un periodo di coprifuoco e di arresti a Jenin, un ventitreenne palestinese di nome Shadi Sukiya giunse nell’ufficio dell’ISM a Jenin, fradicio e tremante; gli furono dati dei vestiti di ricambio, una bevanda calda e un panino. Poco dopo arrivarono i soldati israeliani e arrestarono Sukiya, accusandolo di essere un membro di alto livello della Jihad Islamica. L’esercitò affermò anche di aver trovato una pistola nell’ufficio, ma in seguito ritrattò. Il 25 aprile, due giovani musulmani britannici, Asif Hanif e Omar Khan Sharif parteciparono a una commemorazione pubblica in onore di Rachel Corrie organizzata dall’ISM. Cinque giorni dopo i due portarono a termine un attentato suicida in un ristorante di Tel Aviv. Nonostante il fatto che in entrambi i casi i contatti fossero stati minimi e i volontari dell’ISM non avevano idea di chi fossero i loro ospiti, il governo israeliano utilizzò quegli eventi come pretesto per accusare pubblicamente l’organizzazione di dare ospitalità ai terroristi e proseguì con l’opera di repressione dell’organizzazione. Il 9 maggio l’esercito fece un’incursione nell’ufficio stampa dell’ISM a Beit Sahour, sequestrando computer, videocassette, CD e documenti. Anche se non è stato confermato, si pensa che tra i materiali prelevati ci fosse una lista completa dei volontari passati e presenti dell’ISM, compresi i loro indirizzi e i numeri di passaporto. Ciò ha permesso agli apparati di sicurezza israeliani di ampliare le ‘liste nere’ di internazionali ‘non benvenuti’, con il risultato, nei mesi successivi, di un aumento delle deportazioni e del rifiuto dei permessi di ingresso in Israele. Posti insieme, questi eventi hanno messo in crisi l’ISM e ridotto sensibilmente il flusso di internazionali verso la Palestina, sebbene a piccoli numeri continuino ad arrivare sino a oggi.
Nel frattempo, sempre nella primavera del 2003, alcuni israeliani che cooperavano alle azioni dirette praticate con i gruppi di affinità dell’ISM e con altri internazionali, hanno avvertito sempre di più l’esigenza di dare maggiore visibilità alla propria resistenza in quanto israeliani, e hanno dato vita a un gruppo autonomo che lavora assieme ai palestinesi e agli internazionali. In quello stesso periodo è seriamente iniziata la costruzione della barriera di segregazione sul versante occidentale della Cisgiordania (la barriera è costituita per il 95% da una rete di recinzioni e trincee per impedire l’accesso ai veicoli, e per il 5% restante da mura vere e proprie. Per altri dettagli, si veda PENGON 2003, PLO-NAD 2006). Dopo qualche azione contro la barriera, sia in Israele che in Palestina, un piccolo gruppo ha cominciato a riunirsi e a costruirsi una reputazione di affidabilità in quanto militanti israeliani per l’azione diretta, animati dalla volontà di lottare assieme ai palestinesi locali. Nel marzo 2003 il villaggio di Mas’ha ha invitato il gruppo a organizzare un campeggio di protesta sulla terra del villaggio che stava per essere confiscata per il Muro (in seguito è stato preso il 96% della terra di Mas’ha). Il campo di protesta è divenuto un centro di lotta e informazione contro la costruzione già pianificata della barriera in quell’area e in tutta la West Bank. Per quattro mesi più di mille internazionali e israeliani hanno preso parte al campeggio, per informarsi sulla situazione e partecipare alla lotta. Durante il campeggio è nato un gruppo per l’azione diretta denominatosi Anarchists Against the Wall (Anarchici contro il muro). Dopo lo sgombero del campeggio nell’estate 2003, con più di 90 arresti, il gruppo ha continuato a partecipare a molte azioni comuni in tutti i territori occupati. Contando su un numero complessivo di circa cento militanti attivi, il gruppo è stato presente a manifestazioni e azioni con cadenza settimanale in villaggi come Salem, Anin, Biddu, Beit Awwa, Budrus, Dir Balut, Beit Surik e Beit Likia. In alcune di queste azioni gli abitanti palestinesi dei villaggi e gli anarchici hanno tentato di abbattere e tagliare parti della recinzione o di aprirvi dei varchi. Dal 2005 il gruppo è rimasto attivo prevalentemente nel villaggio di Bil’in, divenuto un simbolo della comune lotta.
Violenza/non violenza
La comparsa di israeliani che organizzavano azioni dirette assieme ai palestinesi ha, col tempo, destabilizzato la legittimazione indiscutibile del Muro e ha colpito la sensibilità dell’opinione pubblica israeliana a un livello tale che gli internazionali non erano mai riusciti a raggiungere. Ciò non è stato tanto dovuto alla tipologia di azioni, che sono essenzialmente le stesse, ma all’identità dei partecipanti. Azioni simili, ma intraprese da israeliani, risultano molto più trasgressive e provocatorie agli occhi dell’opinione pubblica israeliana, non abituata a vedere i propri concittadini mettere in pericolo i propri corpi per sostenere i diritti dei palestinesi. I dirigenti di base palestinesi hanno interesse a portare avanti una tale cooperazione, con l’obiettivo di influenzare l’opinione pubblica israeliana, e più nello specifico perché sperano che la presenza di israeliani serva a moderare le reazioni dei soldati. Sebbene la maggioranza dell’opinione pubblica veda gli anarchici nella migliore delle ipotesi come dei fuorviati, dei giovani un po’ eccentrici, o nella peggiore come dei traditori, è impossibile negare che le loro azioni dirette abbiano avuto un certo impatto sulla consapevolezza della più ampia società israeliana, specialmente attorno al tema della barriera. La cooperazione tra israeliani e palestinesi nell’azione militante è intrinsecamente efficace, poiché decreta un sensazionale ribaltamento a 90° della prospettiva: la retorica del conflitto ‘orizzontale’ tra israeliani e palestinesi è scalzata da quello ‘verticale’ tra popoli e governanti.
Ci sono altri due punti da segnalare sulle pratiche di azione diretta in Palestina/Israele analizzate sopra.
Il primo riguarda la speciale intersezione, nell’attuale contesto, tra l’azione diretta e il tema della violenza politica. Pur riconoscendo la legittimità di un’insurrezione armata organizzata (che non sia però diretta contro i civili), l’ISM e gli Anarchici contro il Muro partecipano solo alle azioni di resistenza non-violenta dei palestinesi. Ciò ha l’obiettivo di dare visibilità agli aspetti non-violenti della lotta palestinese, che di fatto costituiscono la maggior parte delle attività contro il muro, e con i quali è più facile identificarsi per l’opinione pubblica internazionale. Ora, questo punto fornisce un interessante contraltare ai dibattiti sulla violenza che si tengono nei circoli anarchici in Europa e Nord America. L’accettazione dell’esistenza di ‘tattiche diverse’ garantisce agli anarchici una posizione più comoda di quella degli attivisti strettamente non-violenti, riguardo al panorama della lotta in Palestina/Israele. In questo contesto l’aspetto non-violento dell’azione diretta gioca un ruolo del tutto differente, dal momento che si colloca sullo sfondo di un conflitto altamente violento e nel quale la lotta armata è la norma, più che l’eccezione. Praticando unicamente forme di azione non-violenta, senza peraltro condannare la resistenza armata, l’ISM e gli anarchici hanno, a modo loro, articolato anche una diversità di posizioni tattiche. Laddove i sostenitori di una versione più rigida e ideologica della non-violenza (per esempio nella tradizione ghandiana) possono vivere un conflitto profondo nel gestire una posizione simile, gli anarchici occidentali, che hanno preso le distanze dalla non-violenza rigidamente intesa, possono più facilmente accettarla, anche se in questo caso sono loro ad assumere una scelta non-violenta. In Palestina, dunque, gli anarchici si sono trovati a essere collocati agli antipodi dell’equazione delle ‘tattiche diverse’, neutralizzando l’accusa che questa formula sia solamente un eufemismo per la violenza (Lakey 2002) e dimostrando che anche loro sono impegnati a intraprendere azioni puramente non-violente, se si presentano certe condizioni.
Il secondo punto da evidenziare in questo contesto riguarda il livello fuori dal comune di violenza da parte dello stato che gli anarchici israeliani edvono affrontare, e la conseguente diffusione nei loro ranghi di patologie quali lo stress post-traumatico e l’esaurimento. La frequenza delle esperienze subite dagli anarchici israeliani per mano della repressione statale, pur se ovviamente paragonabile solo in minima parte alla brutalità letale diretta contro la popolazione palestinese, è certamente considerevole se raffrontata alle esperienze fatte dagli anarchici in Europa e in Nord America. L’esposizione ai gas lacrimogeni e alle manganellate ha assunto una cadenza settimanale regolare, che si abbina all’uso di bombe assordanti, dei proiettili di gomma e persino delle munizioni normali. In un’occasione un manifestante israeliano è stato colpito con una pallottola alla coscia ed è quasi morto a causa della conseguente emorragia, in un’altra un attivista è stato colpito alla testa da un proiettile di gomma ed è rimasto per lungo tempo in condizioni critiche. Inoltre ci sono stati innumerevoli ferimenti da parte dei soldati e della polizia di frontiera durante le manifestazioni contro il muro. L’esercito ha anche iniziato a usare le manifestazioni nella West Bank come occasioni per testare nuove armi ‘non letali’ come le pepper balls (palline rosse di plastica trasparente contenenti una polvere altamente irritante) e il Tze’aka (‘urlo’ in ebraico), un’onda sonora assordante della durata di circa un minuto emessa da uno strumento montato su un automezzo, che provoca nausea e perdita dell’equilibrio (Rose 2006).
Una nuova fase
Queste esperienze hanno portato al diffondersi dello stress post-traumatico (PTS), un fenomeno che inizia solo ora a essere conosciuto e affrontato all’interno dei circoli anarchici a livello internazionale. Sulla scia della repressione, numerosi militanti hanno iniziato a toccare con mano i sintomi dello stress post-traumatico nella sfera emotiva, come l’ansia, il senso di colpa, la depressione, l’irritabilità e il senso di alienazione e isolamento; i sintomi a livello cognitivo come i pensieri negativi, i continui flashback e le immagini ossessive, gli incubi, gli attacchi di panico e di iper-vigilanza; e infine gli effetti fisici come l’affaticamento, l’innalzamento della pressione, le difficoltà respiratorie e visive, l’alterazione del ciclo mestruale e la tensione muscolare. Sfortunatamente, fino a pochissimo tempo fa gli anarchici non hanno prestato un’attenzione particolare a questi problemi e non sono stati in grado di creare uno spazio per affrontarli. In conseguenza all’accumulo di stress non adeguatamente trattato, l’iniziativa ha visto grosse quantità di attivisti colpiti da esaurimento e che si sono ritirati dall’attività, determinando in tal modo una mancanza di continuità nel gruppo. Solo una manciata dei militanti fondatori rimane tutt’ora attiva, mentre gli attivisti nuovi e giovani che si uniscono oggi sperimentano subito le stesse difficoltà.
L’insuccesso nell’affrontare lo stress post-traumatico e l’esaurimento può risalire alle dinamiche interne del gruppo: l’attenzione focalizzata a breve termine sull’organizzazione della prossima manifestazione, amplificata dalla mancanza di una discussione più strategica sugli obiettivi di lungo periodo e sulla sostenibilità del gruppo; e, cosa forse ancor più inquietante, la riproduzione acritica, almeno fra alcuni militanti, di un’impostazione etica e culturale che enfatizza il sacrificio personale, la capacità di recupero e la tenacia, dando luogo a una diffusa riluttanza a far emergere gli effetti psicologici di una regolare esposizione alla repressione per paura di essere considerati ‘deboli’. La medesima logica di breve termine è stata anche responsabile dell’incontrollato sviluppo di gerarchie informali nel gruppo, motivate dalla diversità di esperienze, dal tempo e dalle energie personali messe in gioco e dall’accesso alle risorse e alle reti. Nei mesi passati, tuttavia, hanno iniziato a comparire alcuni promettenti cambiamenti. Due membri di un collettivo britannico che si occupa di traumi (una rete di attivisti, addestrati a trattare lo stress post-traumatico, che lavora per far aumentare il livello di consapevolezza del problema all’interno del movimento) si sono uniti ai loro partner israeliani nel paese e hanno cominciato a costruire a livello locale un gruppo con gli stessi obiettivi (per informazioni sulle attività del gruppo britannico, si veda: www.activist-trauma.net).
Sebbene all’inizio fosse nata come rete di sostegno alle iniziative dell’imminente Queeruption, quest’iniziativa è stata subito recepita con entusiasmo da una schiera molto più vasta di militanti, compresi quelli che partecipano agli Anarchici contro il Muro, che hanno potuto per la prima volta dare un nome a ciò che avevano vissuto e sentirsi a loro agio nel chiedere un aiuto. Ancora più di recente è iniziata una seria discussione sulla questione della leadership e del potere all’interno del gruppo, con una crescente consapevolezza della necessità di re-distribuire le responsabilità, decentralizzare la comunicazione e condividere le risorse e le capacità. Questi progressi possono demarcare una nuova fase nelle attività degli anarchici israeliani, dando vita a un movimento più sostenibile e creando spazio per l’elaborazione di programmi di lavoro più a lungo termine (…).
Marco Fusi group.
Refusnik tango
Marco Fusi, clarinettista comasco ed anarchico, è il fondatore e leader di una formazione che da anni si esibisce nei in alcuni dei più prestigiosi palchi nazionali ed esteri (come, ad esempio, quello del Club Tenco di Sanremo) e che vanta collaborazioni con musicisti importanti, tra cui Moni Ovadia, e riconoscimenti di personalità del mondo della cultura come Lidia Ravera.
Il repertorio del gruppo si basa su composizioni originale dello stesso Fusi e su brani tradizionali ed è imperniato sul Klezmer (genere musicale nato all’interno delle comunità ebraiche dell’ Europa dell’est) e sulle sue contaminazioni con generi musicali quali il jazz, il tango, la musica araba, quella gitana, il folklore dell’Est Europa. Il titolo dell’ultimo lavoro del gruppo di Marco Fusi è “Refusnik tango”. Tale titolo (ispirato ad una composizione di Marco Fusi) racchiude in sé il significato che si vuol dare allo spettacolo, improntato da un forte impegno civile.
I refusnik sono infatti quei pacifisti israeliani che sono stati incarcerati perché si rifiutano di combattere nei territori occupati. Ci sono in Israele diverse associazioni che si occupano della difesa dei diritti di queste persone, un movimento di obiettori di coscienza della prima intifada, che dal 1982 hanno come fine quello di fornire appoggio ed assistenza a quei militari obiettori di coscienza che si rifiutano di prestare servizio nei territori occupati. Durante lo spettacolo alla musica si affianca la poesia: vengono infatti lette le composizioni del poeta e obiettore di coscienza israelianoYitzchak Laor, che nel 1972 è stato uno dei primi due riservisti a dichiarare il suo «rifiuto selettivo» a prestare servizio nei territori occupati, rifiuto che gli costò la detenzione.
La loro disobbedienza senza precedenti fece grande scalpore a quel tempo, suscitando una condanna decisa tra la maggior parte dell’opinione pubblica israeliana. In Israele, Laor ormai è un poeta famoso, scrittore e critico letterario.
Lo scopo dello spettacolo va al di là del semplice intrattenimento: il fine infatti è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’attività di questo movimento.
Infatti le esigenze di informazione giornalistica non consentono alla stampa, anche quella attenta a questa tematica, di pubblicizzare in maniera continuativa la situazione di questi obiettori, mentre invece oggi più che mai è forte il bisogno che non cali il silenzio su questa realtà. In questo momento infatti il numero di obiettori di coscienza che è stato rinchiuso nelle carceri israeliane è molto alto (oltre 1000, visto che Israele ha poco più di 6.000.000 di abitanti, è come se in proporzione 50.000-60.000 soldati americani si fossero rifiutati di combattere in Iraq) e le autorità israeliane stanno facendo una forte pressione dal punto di vista morale ed economico per cercare di bloccare questo movimento.
L’intento è quello di fare in modo che ogni concerto sia un occasione in cui si possa parlare di questo fenomeno, sia attraverso i mass-media sia con la comunicazione diretta al pubblico durante l’ esibizione. In questo modo nel corso dell’anno è possibile tenere accesi i riflettori su questa piccola ma importante realtà evitando che su di essa cada l’oblio. I concerti inoltre sono l’occasione in cui è possibile chiedere alla gente di sostenere attivamente queste persone. Inoltre Fusi ha recentemente organizzato a Milano, presso il centro culturale S. Fedele, un suo concerto, cui sono intervenuti come ospiti musicisti come Richy Gianco e che è stato sostenuto da importanti nomi della cultura come Dario Fo, Moni Ovadia e Massimo Carlotto. Il ricavato è stato devoluto alle organizzazioni che si occupano di difendere e sostenere questi obiettori.