Dal 1976 in qua, l’epidemia delle idee è diventata oggetto di ricerca biologica o pressoché biologica. Da quando, cioè, Richard Dawkins pubblicò Il gene egoista estendendo l’idea del “gene” come unità minima biologica – un gene che farebbe di tutto pur di replicarsi – all’ipotesi di un “meme” come unità minima culturale – un meme che farebbe altrettanto di tutto pur di insediarsi più a lungo possibile nei cervelli degli esseri umani.
Molti anni prima – nella seconda metà dell’Ottocento –, tuttavia, pari interesse avevano suscitato quegli studi di psicologia sociale che avevano messo in evidenza i processi in merito ai quali certi comportamenti diventavano collettivi, nell’inconsapevolezza dei più. Singoli individui che improvvisamente acquisiscono i caratteri della “massa” – assecondando la metafora fisica. Gustave Le Bon, l’inventore della “psicologia delle folle”, venne letto e riletto perfino da Mussolini.
È in questo clima culturale che, il 15 dicembre del 1923, viene rappresentata per la prima volta a Parigi, Knock o il trionfo della medicina di Jules Romains (1885-1972, pseudonimo di Louis Henri Farigoule). Il suo primo interprete fu Louis Jouvet. Io la vidi molti anni dopo sia nell’interpretazione di Sergio Tofano che in quella di Alberto Lionello e, fatto piuttosto strano per uno cui il teatro, come forma espressiva, poco ha mai detto, ne rimasi folgorato. In effetti, l’aspetto teatrale dell’opera non mi ha mai interessato quanto il suo aspetto squisitamente ideologico. Ci posso riragionare sopra oggi grazie al fatto che il testo è finalmente di nuovo disponibile, ben curato da Max Bruschi e edito da Liberilibri di Macerata.
Allora: Knock acquista quel che oggi diremmo uno studio medico – una condotta – da Parpalaid. Costui, chiaramente, gli rifila un bidone. Siamo in un paesino di montagna, l’aria è salubre e la gente è sana, e anche quando non lo fosse si guarda bene dall’andare dal medico o dal farmacista. Parpalaid prende la prima rata e scappa verso la grande città. Knock capisce, ma – le difficoltà, a volte, aguzzano l’ingegno – decide di allestire il suo “esperimento sociale”. La sua tesi di laurea si intitolava Il cosiddetto stato di salute ed il suo principio ispiratore sta tutto nella consapevolezza che “un uomo sano è un malato che non sa di esserlo”. Dà il via, dunque, al suo processo di medicalizzazione e, in quattro e quattrotto, la sana popolazione montanara si ritrova a letto con il comodino strabordante di medicine. Pochi mesi dopo, allorché Parpalaid torna per incassare la sua seconda rata, l’alberghetto locale è già una clinica, il farmacista è ricco, l’economia conosce vette di impensabile floridità e tutti ma proprio tutti partecipano di una superiore coscienza medica. Knock può perfino permettersi di curare gratuitamente i poveri.
Il virus della medicalizzazione si è diffuso e, inflessibile, ha mietuto le sue vittime. L’esperimento sociale è pienamente riuscito. Jules Romains, amaramente e con precisione chirurgica, dimostra la sua tesi. Anche la scienza dipende dalla retorica, a maggior ragione una scienza come quella medica, modello di sopraffazione, caratterizzata dall’asimmetria di un rapporto che lega il medico – con il suo apparato linguistico – e il paziente – messo nelle condizioni di non nuocere, in una sorta di ascolto fideistico. Quando scrive, Romains non può sapere che, nei successivi anni Sessanta, questa asimmetria verrà posta in discussione – almeno due volte: con il movimento antipsichiatrico e con la critica femminista alla ginecologia –, ma è proprio da eventi consimili – poco più che sprazzi di luce in un universo plumbeo – che, forse, il suo scetticismo radicale riceve ulteriori conferme. I processi che lui schematicamente descrive costituiscono in effetti la matrice di ogni colonizzazione della mente altrui. Si pensi alla psicoanalisi: i sogni, il mangiarsi le unghie o le pellicine, la pipì a letto, i lapsus, il cambio di una acconciatura, il vizio del fumo, perfino il mal di denti… cosa ha trascurato di categorizzare come “sintomo”? Nulla.
Ma il monito di Romains non finisce qui. Al suo ritorno, Parpalaid – un po’ per il proprio tornaconto, un po’, chi lo sa, per autentica indignazione – accusa Knock di aver ingannato tanti innocenti, lo pone di fronte a quella che lui ritiene essere nefandezza morale manifesta e prova a riprendersi la condotta. L’opposizione che riscontra, tuttavia, non è neppure quella di Knock medesimo, ma quella del popolo ingannato che, a qualsiasi costo, vuole tenersi stretto il proprio “padrone” minacciando delle peggiori ritorsioni colui che vorrebbe trasformarsi in liberatore. Con il che si comprendono certi destini elettorali, più e meno vicini alla nostra storia di attualità. Dittatori e ciarlatani, neo-ricchi e protervi ignoranti, untorelli di facili promesse non cadono sotto il peso delle loro palesi contraddizioni. Capita anche che, in assenza di alternative politiche davvero rivoluzionarie, ricevano i voti non più o non più soltanto dai pochi chiamati a spartirsi la torta del potere, ma proprio da coloro che, sfruttati, sono destinati ad essere sfruttati ancora di più. Una certa proletarizzazione del voto a Berlusconi è anche il derivato di questo cortocircuito culturale.
Felice Accame
P.s.: Prima del salvifico arrivo di Knock, i paesani – sani e irridenti – chiamavano Parpalaid “Ravachol”, ovvero con un nome che un posto nella storia dell’anarchia se lo merita davvero. Si faceva chiamare Ravachol, infatti, François Koenigstein (1859-1892), un poveretto dalla vita segnata – fra povertà e disperazione, furti e accuse di omicidio, lavori forzati, evasione e attentati dinamitardi – che finisce sotto la ghigliottina. “Ravage” stava per “danno”, “rovina”, “devastazione”, “saccheggio”; “ravine” è il “torrente”; il tutto proviene da “ravir” che, più o meno, traduceva il latino “rapere”, anche “portar via”, volendo.
P.p.s.: Curiosamente, che io sappia, a Knock sono stati dedicati ben quattro film. Nel 1925 a firma di René Hervieu, nel 1933 a doppia firma di Louis Jouvet (co-regista e attore) e Roger Goupillières, nel 1950 a firma di Guy Lefranc e nel 1967 a firma di Vittorio Cottafavi. Mentre, fra i suoi grandi interpreti teatrali, andrebbe ricordato anche Enrico Maria Salerno (nel 1986 e nel 1987). |