Rivista Anarchica Online


neonazisti

Assassini fascisti a Verona
di Maria Matteo

 

Nonostante i tentativi di ridurre il tutto a un deprecabile episodio isolato di teppismo, la barbara uccisione di Nicola Tommasoli non nasce dal nulla. E non a caso a Verona.

Tanto tuonò che piovve. Verona, ormai da anni laboratorio privilegiato della destra più nera, in un crescendo wagneriano di violenza squadrista, è stata teatro di un omicidio dei più efferati. Cinque ultras dell’Hellas Verona, noti neofascisti più volte protagonisti di aggressioni ai danni di immigrati, meridionali, esponenti di centri sociali hanno massacrato di botte Nicola Tommasoli, un ragazzo di 29 anni. A calci e pugni. A calci e pugni in faccia mentre era già a terra, inerme.
Era il Primo Maggio e nel centro di Verona ferveva la movida. Ai cinque fascisti forse non piacciono i capelli lunghi legati a coda di Nicola e gli saltano addosso con violenza inaudita. Il giovane muore dopo cinque giorni di agonia. La vittima appartiene ad una famiglia bene veronese e un omicidio tanto brutale non può nascondersi tra le pieghe della cronaca nera, sebbene per giorni i quotidiani si ostinino a descrivere l’episodio come una aggressione di bulli, balordi, teppisti. Sebbene dopo l’arresto dei cinque responsabili si apprenda che tre di loro erano già stati inquisiti – assieme ad altri 13 camerati – per aggressioni razziste e fasciste dentro e fuori dallo stadio, media, politici e poliziotti insistono a negare la matrice politica dell’omicidio.
Il neopresidente della Camera, Gianfranco Fini, durante una trasmissione TV, arriva a dire che il fatto di Verona è meno grave di quanto avvenuto in piazza a Torino il Primo Maggio. Per la cronaca i “fatti” di Torino sono riferiti all’ormai rituale rogo di bandiere israeliane e statunitensi ad opera degli autonomi. Un gesto che ha avuto ampia eco mediatica per le annunciate contestazioni alla Fiera del Libro di Torino, che, nel sessantesimo della fondazione, ha invitato come ospite d’onore lo stato di Israele.
Sebbene il mio approccio anarchico troverebbe più coerente il rogo di ogni bandiera, in primo luogo quella italiana, in nome della quale si tracciano confini tra gli uomini, nondimeno il paragonare un gesto simbolico con un omicidio la dice lunga del clima nel quale siamo immersi. Un clima per il quale la feroce aggressione fascista deve essere annegata nella cronaca nera, trasformata nell’azione fuori dall’ordinario di un piccolo branco di pazzi, forse di destra ma certo non organici ad un particolare gruppo. Sia Forza Nuova sia il Veneto Fronte Skinhead si sono affrettati a minacciare querele nei confronti di chi osasse asserire una collusione tra loro e i cinque squadristi assassini. Eppure è ormai certo che tre di loro siano tra i 17 naziskin ultras dell’Hellas Verona accusati di numerosissime aggressioni nel centro cittadino. Sappiamo che lo studente liceale era attivista del Blocco Studentesco e si era più volte distinto per le sue attività antisemite. Non a caso l’avvocato che lo difende è tale Roberto Bussinello, già candidato sindaco per Forza Nuova alle ultime elezioni comunali a Verona.
L’esplicita opera di depistaggio e disinformazione, la volontà inequivoca di nascondere la natura pienamente “politica” dell’aggressione sono un ulteriore segnale della sostanziale acquiescenza che tanta parte della classe politica del nostro paese ha nei confronti degli squadristi che operano ogni giorno sul territorio. Di fatto aggressioni, ferimenti, pestaggi sono pratica quotidiana che solo raramente giunge in cronaca, che ancor più raramente viene etichettata come violenza fascista. Specie quando le vittime sono socialmente deboli, come gli immigrati senza documenti, i venditori abusivi, i tossici, le prostitute, i mendicanti. Come dimenticare che Verona, nero atelier dove si sono anticipate tutte le tendenze che si sono poi manifestate come metastasi spaventose di un cancro inarrestabile, è la città di Ludwig, il duo neonazista che voleva fare pulizia ammazzando i soggetti individuati come indesiderabili?
Verona, da anni quelli che la vivono suggeriscono con acutezza di osservarla come specchio del nostro futuro prossimo, è governata dal leghista Tosi, sindaco eletto con un plebiscito, le cui contiguità con la destra più estrema non sono un mistero per nessuno. Nello stesso giorno dell’aggressione omicida, due anarchici sono stati malmenati e poi arrestati per aver bevuto una birra all’aperto seduti su uno scalino. Erano “colpevoli” di aver violato una delle tante norme emanate da Tosi, una di quelle che la sfrenata fantasia securitaria dei sindaci del Nord est ha messo in campo in difesa del decoro urbano turbato dalla presenza di poveri, senza tetto o semplici amanti di uno stile di vita meno rigido di quello che il bon ton da salotto piccolo borghese vorrebbe imporre. Tosi, un fascistello in giacca e fascia tricolore, si è appena distinto per i divieti e gli intralci imposti a chi voleva manifestare in occasione del 25 aprile in ricordo della Resistenza partigiana al nazifascismo.
Il clima in cui è maturato l’omicidio del primo maggio è un’atmosfera di sostanziale omertà – e di tacito assenso – nei confronti dello squadrismo di naziskin e ultras. Non è certo un caso che Tosi si sia più volte schierato in difesa degli ultras dell’Hellas Verona, nonostante il loro curriculum di violenze fosse tale da consigliare una maggior prudenza. Nel recente passato quelli dell’Hellas erano stati protagonisti di feroci aggressioni ai danni di vari esponenti dell’ormai sgomberato centro sociale “La Chimica”, che per un pelo non sono state mortali.

Guerra tra i poveri

La violenza fascista, tuttavia, per quanto nascosta, minimizzata, coperta dalle destre istituzionali ad essa contigue, non è che la manifestazione più cruda di una tendenza più generale che attraversa il corpo sociale e trova espressione politica compiuta nella destra più estrema ma ha ormai solide radici in quella che un tempo si definiva la sinistra.
Agli sceriffi leghisti del Nord-Est corrispondono sceriffi democratici, di origine post-comunista come Cofferati a Bologna o Chiamparino a Torino. Al di là di alcune rozzezze formali, i provvedimenti cofferatiani nei confronti di chi di notte “bivacca” per strada o dei poveri che mendicano non sono sostanzialmente differenti da quelli degli emuli dello “sceriffo” per eccellenza, quel Gentilini, che già qualche anno fa aprì a Treviso la guerra alle panchine, luoghi dove possono trovare riposo troppi indesiderabili poveracci e pertanto da rimuovere.
Passo a passo, regolamento dopo regolamento, le nostre città si stanno trasformando sotto la spinta di un’emergenza sicurezza costantemente evocata, sebbene le statistiche la smentiscano sistematicamente. Telecamere a tutti gli angoli, guardiani armati, divieti di ogni sorta ne segnano il territorio e, ancor più, la coscienza civile, trasformata in mera cura del bon ton. Tra volontari padani e ronde democratiche si moltiplicano i controlli – e i soprusi – sul territorio, tra il plauso sempre più forte di tanti. Troppi. Forse i più.
Inutile chiudere gli occhi e fingere di non vedere una realtà tanto sgradevole quanto ormai inscritta nel nostro vivere quotidiano. I picchiatori fascisti sono liberi di agire perché intorno a loro c’è un ambito culturale diffuso che ne consente la crescita e che ne copre omertosamente le gesta. La sinistra istituzionale non ha fatto che inseguire la destra più retriva su una china che si è sempre più accentuata, sino ad aprire un vero e proprio baratro nel quale stiamo lentamente scivolando.
È il baratro del fascismo che ritorna, che ritorna nelle strade, che ritorna nelle leggi sempre più razziste e liberticide, che ritorna, e questo è il peggio, tra noi tutti, gente comune che fa fatica ad arrivare alla fine del mese, gente che non ha i soldi per pagare il fitto o il mutuo, gente che la disoccupazione e la precarietà obbligano ad un’esistenza sempre più miserabile, gente che sta tramutando il sano odio di classe, l’odio per i padroni che ci sfruttano e ci rubano la vita, nell’odio per gli ultimi, per chi sta peggio di noi, gli immigrati poveri in cerca di un’opportunità di vita.

Paura del futuro

I governi di questi anni, i governi di “destra” e quelli di “sinistra” hanno fatto la stessa politica, distruggendo poco a poco i piccoli margini di libertà e di giustizia sociale strappati con la lotta nei decenni precedenti.
Nella parte di Nord dove vivo negli anni sessanta e settanta la lotta per la casa, i trasporti, i servizi, le scuole, il salario, i tempi di lavoro creò un ponte con gli immigrati di allora, la gente del Sud e dell’Est venuta in cerca di un’occupazione.
Il collante potente che rese possibile superare pregiudizi e diffidenze fu la consapevolezza che il nemico non è l’immigrato che ti vive accanto ma chi marcia alla tua testa, chi lucra ogni giorno sulla vita di chi è forzato a sottoporsi alla schiavitù salariata.
Oggi la guerra tra poveri, l’odio per gli immigrati sono lo scenario in cui affondano le mani i fascisti, trovando sempre più consensi nei quartieri popolari, tra i giovani dall’orizzonte sempre più precario, che scacciano la paura del futuro, rifugiandosi in una culla identitaria, che si rafforza nella negazione, anche violenta, anche bestiale, dell’altro. Sino al punto di massacrare un ragazzo perché porta i capelli un po’ più lunghi.

Quei cinque squadristi veronesi, divenuti assassini in questa livida primavera, sono la punta di un iceberg la cui parte sommersa è ben più ampia. La loro ferocia è la stessa di chi promulga leggi razziste o provvedimenti di esclusione sociale, la loro mano è la medesima dei politici che prendono le distanze o minimizzano, il loro orizzonte culturale è quello di tanta gente che ci vive accanto ogni giorno.
E la cosiddetta “sinistra radicale”, quella ormai extraparlamentare dopo la sconfitta elettorale, sappia che non può credersi assolta, perché il suo coinvolgimento è quasi complicità. La sua è la parabola amara del “realismo politico”, dietro cui si cela la mera logica del potere per il potere.
Il “realismo” che, di compromesso in compromesso, ha portato ad accettare tutto: dalla guerra ai cpt, dalle norme più liberticide alle grandi opere, dalla distruzione dell’ambiente alla fine delle tutele per chi lavora, dalla precarietà a vita al razzismo di Stato.
Viviamo tempi grami, tempi di paura e di ferocia, tempi che richiedono impegno e tenacia. Serve l’impegno di tutti, perché al fascismo che avanza occorre tagliare le radici culturali e materiali. Non basta parlare di libertà, solidarietà, eguaglianza: occorre ri-collocarle al centro di un agire che, per essere realistico, non può che essere rivoluzionario.

Maria Matteo

Quelle nottate assurde nei rifugi delle Dolomiti

Il giovane assassinato a Verona nel ricordo del suo amico del cuore. Che denuncia il clima nella città scaligera: silenzio, ipocrisia, caccia al diverso.

Tutti, talvolta anche le persone più care, mi hanno sempre ascoltato increduli e dubbiosi quando raccontavo loro il disagio, la tensione, la nevrosi, la rabbia e la violenza che leggevo nei volti di chi sfilava per le vie del centro di Verona.
Quando la sera del primo maggio mi sono trovato a dire, con orrore, «doveva scapparci il morto», mi sono anche reso conto di cosa significhi annullare quella distanza tra te e il dolore, tra te e la «vittima»: quel morto era Nicola Tommasoli. Sì, il «nostro» Nicola; lui che, insieme alla sua famiglia, mi ha accompagnato per ben 15 anni di vita, dalle serate più serene alle nottate più assurde nei rifugi delle Dolomiti.
E apprendere, oggi, nel 2008, che un amico di una tranquillità e spontaneità – e lo dico senza retorica – memorabili, è stato massacrato da un gruppo di neofascisti veronesi che lo hanno colpito ancora e ancora a scarpate sulla testa mentre era per terra indifeso, non trova una giustificazione. Nazisti che tutti accanto a me in questa città accettano nel silenzio dell’ipocrisia, perché al servizio della «Verona bene», della «Verona della moda» della Verona delle ordinanze contro i rom e pro «buon costume»; ragazzi di diciotto anni, il cui vanto è la «normalità» (Liberi, belli e ribelli il loro motto). È da tempo che si vive questo clima di caccia al diverso, questa necessità di un «capro espiatorio», ma mi chiedo perché, per uscire questa verità doveva morire Nicola.
Questo mi chiedo. Tutti devono sapere che tra i tre amici la vittima è stata lui solo perché aveva il codino e «vestiva da sinistra»… e Nicola, lo sanno tutti quelli che lo conoscono, non ha mai vestito in modo da essere di sinistra. Lui ai vestiti non ci dava quel peso ossessivo che ci danno i nevrotici veronesi. Quella sera dunque, in via Leoni, per un puro caso non sono passato io al posto suo. Per un trama assurda del destino. Allora io mi dico, mi convinco di essere qui a testimoniare.
È così che muore parte di me, con Nicola, che aveva soli 29 anni: ma io grido, ancora e ancora, che chi sapeva e ha permesso, chi ha assecondato con “ma” e “comunque”, chiunque abbia sminuito o fomentato in questa città l’odio per ogni diversità, si deve considerare un assassino!
Si nasconde il niente, il nulla davanti e dietro questa azione: un senso non può esistere. Ma la morte di Nicola invece è reale. Reale come le parole che non riesco a dire ai genitori: ad una famiglia libera veramente, da credo politici quanto religiosi, che dimostra la sua generosità e grandezza ben oltre la vita del figlio.

Federico Premi