Il fascismo è una concezione religiosa, in cui l’uomo è veduto nel suo immanente rapporto con una legge superiore, con una Volontà obiettiva che trascende l’individuo particolaree lo eleva a membro consapevole di una società spirituale. (Benito Mussolini, Enciclopedia Italiana Treccani, 1932)
La storia delle relazioni politiche e delle connessioni ideologiche tra il
fascismo italiano e il potere religioso presenta non indifferenti difficoltà di lettura e interpretazione, difficoltà peraltro ancora riscontrabili oggi nell’analizzare i rapporti tra alcuni settori dell’estrema destra e dell’integralismo cattolico, oggetto della presente e impegnativa ricerca di Emanuele Del Medico.
Il fascismo italiano al suo sorgere nel 1919 aveva infatti un’identità senz’altro laica e persino quasi anticlericale; tra i suoi primi esponenti vi si trovano futuristi che come Marinetti volevano «svaticanare l’Italia», giovani affascinati dal pensiero anticristiano di Nietzsche oltre ad ex-repubblicani e nazionalisti di origine ebraica. Lo stesso Mussolini aveva un passato non soltanto di socialista ma di accanito avversario del clero e della religione, tanto da aver pronunciato e scritto radicali negazioni dell’esistenza di dio. Tale impostazione è riscontrabile chiaramente sia nel manifesto-programma del Partito politico futurista che si prefiggeva di «sostituire all’attuale anticlericalismo retorico e quietista un anticlericalismo d’azione, violento e reciso per sgombrare l’Italia e Roma dal suo medioevo teocratico», sia nel primo Programma dei Fasci Italiani di Combattimento che disponeva «il sequestro di tutti i beni delle Congregazioni religiose e l’abolizione di tutte le mense Vescovili, che costituiscono una enorme passività per la Nazione, e un privilegio di pochi».
Con Pavelic e con Franco
In seguito, nella sua marcia per la conquista del potere e durante il suo ventennale regime, il fascismo abbandonò progressivamente queste posizioni, per evidenti motivi di opportunità politica, giungendo a concludere con il Concordato il contenzioso ancora aperto tra Stato e Chiesa. Le trattative per risolvere il lungo dissidio erano state avviate nel 1926 nell’intento, sia da parte di Mussolini che di Pio XI, di giungere ad un accordo. Da una parte il fascismo, alla ricerca di riconoscimenti ufficiali, dichiarava di aver superato la dottrina liberale e la sua diffidenza verso l’influenza cattolica nella società, vedendo evidentemente nell’intesa con il Vaticano la possibilità di rafforzare il proprio potere; dall’altra il papa, riconoscendo il governo fascista come «legittimo e obbligatorio» e ringraziandolo per aver tutelato la libertà della Chiesa durante l’Anno Santo, era ben lieto di vedere scongiurati i pericoli della sovversione comunista e anarchica.
I Patti del Laterano, come è noto, furono firmati da Mussolini e dal cardinale Gasparri l’11 febbraio 1929; in essi venivano definitivamente stabiliti i rispettivi impegni tra Stato vaticano e Regno d’Italia. Da un punto di vista politico, la Chiesa cattolica otteneva così il controllo sulla famiglia e sull’istruzione, mentre Mussolini avrebbe potuto vigilare gli aderenti all’Azione Cattolica e poté contare sull’appoggio incondizionato del clero italiano alle elezioni “plebiscitarie” del 24 marzo 1929.
Negli anni successivi, la politica del regime fascista conobbe in almeno due circostanze storiche un’estremizzazione dei toni propagandistici filocattolici e della sua convergenza con gli indirizzi delle gerarchie vaticane. In Croazia, l’appoggio italiano al movimento nazionalista Ustasha di Ante Pavelic giunse a rendersi co-responsabile delle atroci campagne di adesione forzata al cattolicesimo, a tutti gli effetti benedette da monsignor Stepinac – oggi dichiarato beato dall’attuale pontefice nonostante sia stato fondatamente accusato di complicità con vero e proprio genocidio etnico-religioso. I nazionalisti croati di Pavelic, oltre ad essere caratterizzati da un feroce anticomunismo, erano uniti dalla connotazione religiosa confessionale-cattolica data alla loro lotta; connotazione peraltro ben evidenziata dal loro stesso simbolo che vedeva uniti croce, candela, pugnale e pistola. In Spagna, l’intervento militare fascista a fianco degli ultracattolici falangisti del generale Franco assunse il carattere di autentica crociata a difesa della cattolicità minacciata dall’ateismo anarchico e bolscevico.
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«Tradizionalisti integrali»
Una volta crollato il fascismo e ricostituito a Verona nella sua variante repubblicana, la propaganda della Repubblica di Salò assunse toni di vero fanatismo religioso, ben testimoniato da appelli come il seguente: «snudate i vostri pugnali, affilateli e teneteli a portata di mano. Sono sacrosanti e benedetti: hanno la forma di croce, segno della lotta del bene contro il male, simbolo di vittoria». D’altra parte era stato lo stesso Pavolini, segretario del Partito Fascista Repubblicano, e comandante delle Brigate Nere, ad ordinare di «abbondare in cerimonie religiose dando ad esse carattere ufficiale» e di «fare in ogni occasione, in discorsi, in scritti, in trasmissioni radiofoniche, richiamo alla cristianità, a massime di santi e dottori della Chiesa, ad encicliche, il tutto con naturalezza e con serenità, sicché l’elemento religioso appaia strettamente legato alla nostra azione».
Ad affiancare, nella lotta antipartigiana, i reparti repubblichini vi furono numerosi cappellani di fede fascista quali il noto padre Eusebio, volontario nelle SS e poi capitano delle Brigate Nere, don Antonio Bruzzesi in servizio presso la brigata nera «Resega» o quel fra’ Ginepro facente parte della famigerata banda Koch; il loro organo fu «Crociata Italica», generosamente stampato nello stabilimento tipografico di proprietà del gerarca Farinacci. Dopo la Liberazione, nell’aprile del ’46, il persistere dei rapporti tra settori del clero e ambienti fascisti emerse platealmente nel corso delle indagini sul trafugamento della salma di Mussolini, in cui risultarono coinvolti vari frati e prelati, tanto da costringere il papa Pio XII ad intervenire per bloccare le indagini ed evitare lo scandalo.
Tale sintonia si ritroverà puntualmente nei decenni successivi, risaltando però nei primi anni Settanta, in piena strategia della tensione, quando a Milano il movimento anticomunista e populista della Maggioranza Silenziosa inserì tra i temi della sua propaganda quelli della Controriforma e della Restaurazione giungendo ad affermare: «Con noi sono Dio, la Tradizione, la Patria, la Civiltà». Altrettanto significativa un’intervista a Luciano Buonocore, segretario di tale movimento, in cui veniva dichiarato: «Noi siamo tradizionalisti integrali e, come tali, ci opponiamo a tutto quel processo storico che si può definire rivoluzionario. Per rivoluzione, intendo un processo unitario, orchestrato da un’intelligenza demoniaca, che si serve di uomini come suoi strumenti e che, ormai da cinque secoli, mira a capovolgere l’ordine sacrale, gerarchico ed organico incarnatosi nella cristianità medievale. Le fasi di tale processo sovversivo si possono individuare nella decadenza umanistico-rinascimentale, nella Riforma, nell’Illuminismo e nella Rivoluzione francese. Per finire poi nei moti liberali borghesi del Risorgimento. E, dramma dei nostri giorni, nel comunismo».
Sono ormai argomentazioni di trent’anni fa ma, come ben documenta il lavoro di ricerca di Del Medico, oggi le possiamo ritrovare pressoché invariate nella propaganda dei gruppi sia dell’integralismo cattolico sia dell’estrema destra che, pur aspirando ad appartenere alla categoria dell’eterno, pretende di presentarsi come “nuova”.