Scacco al re.
Matto?
Come la racconti la storia di un genio degli scacchi? Di un campione che cresce
feroce, perché «un bambino…senza un genitore divent(a) un lupo»? Come la tracci la sintesi di un uomo che si incastra male nella Storia perché derubrica i contesti, uccide le convinzioni, identifica particolari per sputargli addosso?
Re in fuga (Mondadori, 2008) è il libro di Vittorio Giacopini dedicato a Bobby Fischer, campione mondiale di scacchi.
Americano, figlio di immigrati europei di origine ebraica, Fischer il pensatore singolo. Dissociato da un Mondo che lo spiava fin da bambino. Nell’epoca di McCarthy e la caccia alle streghe. I racconti dell’FBI, che seguiva la madre Regina per sospetta attività anti-americana. Spia dei russi… La cultura del sospetto, a cui sfuggire con la libertà delle parole, emotivo fino all’anti-intelligenza comunicativa.
Giacopini racconta Fischer con occhi partecipi, lucidi. Già Grande Maestro a 14 anni, il piccolo paradosso moderno non può comprendere la Storia e dunque le passa attraverso. Come Alice Nello Specchio, Bobby è alienato ovunque tranne nel suo Mondo di pezzi bianchi e neri. Un “piccolo miracolo degli scacchi”, come scriveva Regina a Chrušcëv in occasione dei campionati di Mosca del ‘57.
Sono parole calibrate quelle di Giacopini, che fissano l’uomo mentre il Mondo avanza, stringe, schiaccia. E il libro lo segue, dentro la mente, negli eventi. Dal Chess Club di Brooklyn di Carmine Nigro, alle 10 partite vinte in simultanea al Capoblanca Chess Club. Fino a battere, a soli 13 anni, nella “partita del Secolo” Donald Byrne, il wasp arrogante, l’esemplare della borghesia bianca. Fino all’Incontro del secolo del 1972 contro Boris Spasskij.
Se il Fischer che ricorda il Mondo è il campione americano che, dopo l’Eternità, batte i russi – dal Kgb agli invincibili zelanti, l’Armata del Male del Gioco più feroce del Mondo – il profilo che ci restituisce il libro delinea il Campione immortale, mai riconosciuto, che lascia il regno a Karpov nel ’75 senza giocare. Come se scomparire fosse l’unica arma. Contro la confusione che lo forzava. Ad alzare il tiro, in infiniti j’accuse. Di parole brucianti, scriteriate. Un flusso di posizioni estreme, radicali.
Parola che pretendeva la Libertà del giocatore prima che del Gioco. E calibrava male il colpo, di necessità, per renderlo più individuale – come nel ’96 quando, in piena Epoca Tecnologica, brevetta il Fischer-Random, scacchiera in cui tutti i pezzi (tranne i pedoni) possono essere ricombinati fino a 960 varianti. La sua personale spiazzante mossa contro il dominio delle Macchine negli Scacchi.
Giacopini precisa, forma, elabora, chiude. Segue Fischer fino alla “rivincita del XX secolo” in Jugoslavia, durante l’embargo ONU, che gli costerà il carcere. Fino agli ultimi giorni, di esilio tra la neve, nelle terre di fuoco e ghiaccio d’Islanda.
Un libro dannatamente bello, scorrettamente onesto, emotivo. Dalla nota dell’autore a pag. 273 «Questo romanzo racconta (anche) fatti realmente accaduti (…) tutto il resto è invenzione, interpretazione arbitraria, tradimento. (…) Il “vero” Fischer sta su un altro pianeta (e chi sia, davvero, chi sia stato davvero, resta affar suo, semplicemente)».
Mauro Garofalo
Dalla parte
sbagliata
L’autorecensione è un genere da mettere sicuramente al bando, quasi quanto le “recensioni di scambio” che si leggono spesso su giornali e riviste, con i reciproci favori che autori amici si fanno all’insaputa dei lettori. Da vecchio abbonato e collaboratore (saltuario) di A mi permetto di segnalare un libro che ho curato, accettando il rischio d’essere respinto per... conflitto d’interessi. Ma il libro-intervista con Francesco Gesualdi, uscito per Terre di mezzo/Altreconomia con il titolo Dalla parte sbagliata del mondo, sottotitolo “Da Barbiana al consumo critico: storia e opinioni di un militante. Intervista con Francesco Gesualdi” (200 pagine, 12 euro) non è un’opera di svago, bensì un contributo ‘militante’ che mi piacerebbe fosse letto e considerato in ambito libertario.
Francesco – per tutti Francuccio – Gesualdi, con il suo Centro nuovo modello di sviluppo, è l’attivista che ha introdotto il consumo critico in Italia, avviando le prime campagne di boicottaggio contro alcune fra le principali multinazionali, da Del Monte a Nike, da Chiquita a Chicco/Artsana. Sono campagne che hanno contribuito a distribuire ‘saperi’ attorno ai meccanismi del capitalismo globalizzato e a tessere le prime reti fra organizzazioni di base. Il Centro Nuovo modello di sviluppo ha curato la notissima Guida al consumo critico (uscirà presto l’ottava edizione), autentico manuale a disposizione dei ‘dissidenti’ che attraverso le scelte di consumo vogliono negare il proprio consenso al sistema dominante. Francuccio è un personaggio quasi sconosciuto per i media ufficiali, ed è poco noto anche nel ristretto ambito della politica istituzionale, ma è un punto di riferimento importante per quel pulviscolo di reti e associazioni che hanno contribuito negli ultimi anni all’affermazione del movimento dei movimenti.
Allievo prediletto di don Lorenzo Milani alla scuola di Barbiana, Gesualdi tiene moltissimo a definirsi militante: nel libro-intervista ripercorre le tappe della propria vicenda umana e politica, dall’impiego in fabbrica al breve e infelice impegno nel sindacato; dalla scelta di espatriare in Bangladesh, per condividere fino in fondo la sorte degli ultimi, alla scelta di tornare in Italia – “dalla parte sbagliata del mondo” – fino alla nascita del Centro e alle lotte per la giustizia sociale e l’eguaglianza. Da poco in pensione, ha lavorato per molti anni come infermiere nella sanità pubblica.
Francuccio, da autodidatta rigoroso, ha cercato nella sua vita di unire sempre pensiero e azione – “il pensiero fine a se stesso non ci interessa” – ed è autore, fra le altre pubblicazioni, di “Sobrietà. Dallo spreco di pochi ai diritti per tutti” (Feltrinelli 2005), un libro nel quale prova a immaginare un sistema economico in cui le risorse disponibili siano utilizzate per garantire a tutti la dignità. È un testo affascinante, nel quale Gesualdi si impegna per rispondere ai quesiti che chiunque pone quando si ipotizza un’economia che faccia i conti con i limiti imposti dalla natura: che fine fanno i posti di lavoro, i servizi garantiti dallo stato eccetera eccetera. Domande fondamentali, che non si possono eludere. Quel che emerge con più chiarezza, sia in Sobrietà, sia nel libro-intervista appena uscito, è un fortissimo richiamo a mettere al centro della “nuova societa’” da costruire l’economia pubblica, intesa come una forma di produzione e di scambio che abbia l’interesse collettivo come assoluta priorità. Francuccio immagina, a partire dalle esperienze di ‘altra economia’ già esistenti in Italia e nel mondo, un’economia che riscopre il valore del radicamento locale, della piccola scala, della partecipazione, dell’autentico federalismo, del controllo democratico dal basso. La critica al potere è lucida e fortissima, radicata nella visione antiborghese e nonviolenta appresa a Barbiana. La “nuova economia” dovrebbe guardare con interesse – nell’opinione di Francuccio – alle antiche esperienze di socialismo, mutualismo, collettivismo per ‘recuperare’ ciò che può essere ancora attuale. “Dovremmo anche chiederci – dice fra l’altro – se sono mai esistite società autenticamente anarchiche”.
Su questo punto, assume un rilievo particolare la critica ai teorici della decrescita, che hanno introdotto un concetto prezioso, affine a quello di sobrietà, ma senza considerare, o sottovalutando, la dimensione pubblica, restando quindi impastoiati nelle logiche mercantili. “L’economia alternativa – dice Francuccio – deve avere tre dimensioni: pubblica, del mercato, del fai da te. Sono tre grandi sfere e ciascuna deve avere una funzione secondo una precisa gerarchia. Io dico che l’economia di mercato in questa gerarchia va messa all’ultimo posto. Su questo non ho dubbi. Sostengo questa tesi non perché io sia contro i padroni – sono anche contro i padroni – ma perché l’economia privata, di mercato, si occupa dei desideri, non della dignità”.
Lorenzo Guadagnucci
Storie di
carcere
Colpire al cuore. Senza adagiarsi su facile retoriche e senza comode autocensure che tanta produzione audiovisiva contemporanea oggi tende a fare. Un discorso diretto, dichiarato e “frontale” è quello che troviamo nei video “Isola” e “Cattura”, realizzati da Alessandro De Filippo (autore che ha maturato marcate esperienze con il Collettivo Cane CapoVolto e che proviene anche dalla didattica nell’ambito cinematografico). Due lavori audiovisivi girati nel carcere Bicocca a Catania e che rientrano in un importante piano di collaborazione tra la struttura carceraria e l’Università. “Isola” racconta, attraverso un montaggio di testimonianze di diversi detenuti, l’isolamento diurno che vivono gli ergastolani, il cui quadro di vita (o quel che resta della vita tra rinunce e silenzi) è decisamente dirompente e gioca dei brutti tiri alla normalità. “Cattura” è la storia di un carcerato costretto a delinquere per povertà.
Nei due video di Alessandro De Filippo non c’è mai compiacimento o ammiccamento provocatorio, c’è invece il racconto asciutto, lasciato nel pulsare della narrazione diretta dei diversi carcerati, che seguiamo nel racconto del loro vissuto e guardiamo nelle pieghe composite dei loro volti o rintracciamo nei segmenti dei loro spazi “d’abitazione”. Storie dove la realtà sembra un mondo distante, intangibile e mitico.
La principale forza espressiva di De Filippo si ritrova – da un lato – nel recupero di quella “frontalità” tipica del cinema pasoliniano e – dall’altro- nel tentativo di insistere con un desiderio di chiarezza ed universalità del miglior sguardo cinematografico. Un duplice lavoro, questo di De Filippo, che nella lucida ed appassionata scansione recupera il taglio “naturale” della narrazione: sia quando mostra i corpi dei carcerati, sia quando ne sottolinea emotività, sguardi, espressioni e finanche sensazioni che appartengono al non-detto. Con “Isola” e “Cattura” ritroviamo l’equivalente di una scelta espressiva che tende a non sovraccaricare l’immagine dello schermo e a farla comunicare quasi da sé, ovvero per quel di già troppo “carico” che i corpi e le figure umane, inserite nell’ambiente quotidiano e repressivo di un carcere, esprimono senza altre sottolineature. E, infine, l’autore propone un filo segreto e tuttavia percepibile di una riflessione politica che riesce ad amalgamare assieme: natura, esistenza vitale, rieducazione, diritto, libertà, speranza…
Un filo che, per quanto volutamente dimesso, per quanto a volte registrato dalla macchina da presa come “sottovoce” o “semplicemente” lasciato nel dramma dei conflitti sociali, tuttavia resta una precisa scelta di campo. Una scelta che sa essere forte e rigorosa, ma allo stesso tempo lacerante.
Alfonso Amendola
Les Anarchistes
e “Pietro Gori”
Nelle democrazie apparenti, lo Stato di Cancellazione sta sostituendo il metodo brutale dell’eliminazione fisica di un soggetto politicamente molesto, con l’eliminazione della memoria culturale, andando alle radici della conoscenza e estirpandola. Questa operazione coordinata su scala mondiale ormai riguarda non più l’individuo isolato ma l’intera società preludendo così all’uomo “nuovo”, appunto “smemorizzato.”
Per non creare il martire occorre dimenticare tutti quelli che lo hanno preceduto, non avere punti di riferimento né informazioni alternative se non la fonte istituzionale depurata e snaturata.
Partendo da quella società ipotizzata da Francois Truffaut nel suo lontano – ma quanto vicino! – film “Farenheit 451” (il grado di calore a cui brucia la carta) dove, a causa di un regime che vieta la lettura e incenerisce i libri con i lanciafiamme, un gruppuscolo di “ partigiani cartacei” impara a memoria un volume a testa per poterlo tramandare, fino alla città di “Alphaville”, lontano, ma quanto vicino! – film di Jean Luc Godard , sulla missione di un agente destabilizzatore che cerca di riportare a livello umano una civiltà interstellare dove addirittura i sentimenti, l’amore stesso, sono proibiti e perseguitati, il passo è breve. Anzi, il passo è stato fatto. Ci siamo dentro.
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Les Anarchistes |
La conoscenza provoca il sogno, e il potere sa che il sogno trasforma. Non più asserviti, ci si accinge alla disobbedienza. Il potere è transgenico, l’anarchia è un prodotto biologico. Accettando le ideologie storiche come decadute, le utopie generazionali come infrante, oggi le contrapposizioni si fanno più drammatiche e allarmanti ma diversificate, perché l’ordine planetario ha ormai raffinati strumenti per infiltrarsi negli interstizi antropologici del comportamento e manipolarlo attraverso una filosofia pedagogica mediatica che determina una crescita collettiva aculturalizzata, barbara, mirando e stimolando il suo metabolismo consumistico di cyber bulimico e onanistico. L’emergenza è nei rapporti interpersonali, nella disidratazione della solidarietà, nella voglia nascosta, e neanche troppo, di sangue fresco. La contrapposizione è tra il sentire e il non sentire più, tra l’uomo sensibile e il desertificato, tra l’intelligente e il cretino. I termini della rivolta si spostano, subiscono una scansione, superano i criteri manualistici, gli stilemi storici di base perché nella “dimenticanza” finalizzata a disinnescare l’ordigno pubblico della coscienza, si nasce e si muore nell’istante, senza più un passato umanistico, senza un decorso critico, senza un’implosione emotiva. Così la nostra deperibilità, senza radici, accellera il suo processo degeneratore appena dopo la nascita.
Come cicale viviamo un giorno. In un giorno non si fanno progetti. Vogliono uomini senza storia, soprattutto non in grado di rifarla. Alle balie sociali si sono allungati i canini. Se tu berrai il loro latte, loro succhieranno il tuo sangue. Questa è la legge del paggio. All’ufficio di collocamento, per prenotarsi, c’è una fila di qualche milione di disoccupati bramosi di essere ricevuti a corte per pulire i cessi dei regnanti.
Con la complicità delle multinazionali dell’editoria spariscono i grandi scrittori e nelle vetrine vengono esposti i nani della scrittura demenziale, spesso sostenuti da una critica compiacente e prezzolata che non ha più la capacità di indignarsi e di scuotere l’opinione pubblica per un arrembaggio etico a difesa della nostra dignità rinascimentale. I metodi scolastici si rivolgono al computer, i futuri “glacializzati” leggeranno online perdendo la gioia tattile-cartacea di quest’oggetto parlante e l’ormeggio con la cultura ombelicale. Veleggeranno come astronauti sganciati dal modulo materno verso il buio cosmico.
È l’epoca della Sostituzione Protesica. L’umanesimo muore nella videotecnologia virtuale. L’uomo sintetico, duplicabile, è pronto alla consegna in pacchi di montaggio. Il libro finirà su E-Bay, o nelle librerie antiquarie per collezionisti passatisti. Ti ricordi di Pavese, Vittorini, Papini, Soffici? Ti ricordi di Pinelli, Valpreda, Serantini? Sai chi sono Sacco e Vanzetti? No, non sono I Sonora.
In ambito musicale non abbiamo più i nostri Tenco, De André, Gaber, Bindi, Endrigo, poeti in musica inclonabili della cui perdita non sappiamo ancora calcolare la portata. Restano Paoli e Guccini a salvarci dal degrado attuale della musica italiana che ci viene somministrata come un menù per anoressici, un chef de rang che esalta il Mc Donald’s, i quattro salti in padella. Perché l’omologazione del conformismo e dell’anticonformismo riguarda sia i cantanti “popolari” che i gruppetti dilettantistici che pensano di fare “ricerca” o “avanguardia”. Invece si equivalgono nei loro loculi euclidei precostituiti, etichettati, e obsoleti. La televisione, poi, è peggio della spazzatura campana. È un’offesa razzista.
Per fortuna, sono tornati gli anarchici, anzi “Les anarchistes”: con loro c’è Pietro Gori. La memoria ci viene restituita e trafugata.
“…e poi questa malattia che lo teneva tanto male, poverino…lui è morto mi pare i primi giorni di gennaio dell’undici, l’otto gennaio dell’undici appunto, all’ultimo dell’anno aveva fatto un brindisi, aveva detto:” E se tu non mi dai la salute che aspetto, nuovo anno tu sia maledetto!”. E infatti morì pochi giorni dopo…e allora appunto una notte verso le quattro sentii bussare, perché abitavamo porta a porta qui nel palazzo che adesso è il Darsena, prima era un palazzo bellissimo, palazzo medievale magnifico…e si abitava porta a porta, neanche ci divideva no scalino, così…e venne:”More Pietro! More Pietro!” sicché ci alzammo, io avevo i bambini piccoli, sicché io andavo e venivo…e lui poverino…e lei diceva:” Ma no, Pietro, vedi, è una crisi, poi ti passa…” E dalle quattro arrivammo fino al mattino, tanto a un certo momento lui disse:” Bice, Bice, apri, apri la finestra! Fammi rivedere il sole! Fammi rivedere il sole!” E lei aprì tutta la finestra, infatti il sole…perché lì è magnifico…inondò il letto addirittura…E poi, io andavo e venivo, quando sono ritornata, mio marito era sempre lì e disse:” Guarda, Letizia, è spirato in questo momento, è spirato. Vieni a sentire, vieni a sentire!” e m’alzò la testa, poverino, di lui, misi la mano tra il guanciale e la testa sentii ch’era sempre caldo.
D. Lei non vide i prete entrare in casa alla sua morte?
R. No, no…ma era veramente bono, lui parlava sempre dei suoi viaggi, che aveva fatto in Ame…oltremare diceva, oltremare… ( testimonianza tratta dal libro “È tornato Pietro Gori” di Patrizia Piscitello e Sergio Rossi, edito da Elbareport nel 2008)
Forse quello che Gori sperava di vedere dalla finestra, in quel sole invernale, a Portoferraio, era il Grande Sogno in piena luce, a occhi aperti, tra delirio ed evocazione, finalmente nelle strade, sui volti della gente, dentro le case: un nuovo assestamento armonioso di tutte le cose. Forse lo vide, perché l’aveva perseguito per tutta la vita quel sogno, forse lo vide solo lui, ma non importa. Andrà oltremare quel sogno, magari non troverà accoglienza in nessun luogo, magari resterà per sempre al largo, a galleggiare nell’immaginario di neri gabbiani in volo permanente, alla ricerca di una terra d’approdo,” fra diecimila anni o domani mattina!” come diceva Léo Ferré.
Il sogno di Gori è ripercorso, nei suoi versi cantati, da “Le anarchistes”, la band d’origine carrarina che ha in Nick Toscano e Max Guerrero i suoi meritevoli ed eroici fondatori. È giusto e doveroso ricordare l’itinerario artistico del gruppo che con umiltà pragmatica e fedeltà utopica ha dato prova, nel corso del tempo, di un rigore e di una coerenza davvero encomiabili senza mai cedere a nessun compromesso, e noi sappiamo quanto sia dura la vita oggi per i “cani sciolti” ma “i cani quando fiutano la compagnia/ Si agitano/si sbarazzano del collare/ E posano l’osso come si posa la sigaretta quando si deve fare qualcosa d’urgente/ Tanto più se l’urgenza consiste in un’idea da sbattervi sulla faccia” (L. Ferré trad. E. Medail). E questa “urgenza” Les Anarchistes l’hanno sempre sentita, questa “tensione verso” li ha sospinti lontano dai territori beceri del rumore musicale a fini commerciali, conducendoli in una zona geo-onirica di incomparabile bellezza e dalla quale non si torna: l’anarchia, la sua storia, i suoi protagonisti, la nostra attesa.
I primi due album “Figli di origine oscura” (Premio Ciampi 2002) e “La musica nelle strade!” (2005) che usufruivano ancora della collaborazione interpretativa di Marco Rovelli, ora staccatosi dal gruppo, non sono stati solo una premessa, come spesso capita, ma già ci avevano coinvolto trascinandoci nel cuore di questa avventura musicale transtemporale che si sposta dal passato al presente con una volontà situazionista difficile da riscontrare in altre formazioni. Però l’ultimo album appena uscito e intitolato semplicemente “Pietro Gori” è un ulteriore “stacco in alto” di grande raffinatezza musicale, di sonorità ricercate, di un incedere ritmico-insurrezionale che da sempre agita l’animo degli arrangiatori regalandoci un impatto emotivo di rara potenza tra anatemi, evocazioni, requisitorie e pietà. La rivisitazione musicale è di una tale moderna pienezza che rivela uno stile inconfondibile e compiuto, il clima prodotto dall’ensemble dispiega un linguaggio profondamente suggestivo, e ogni musicista, pur nel rispetto della concertazione collettiva, ha modo di essere presente con la propria seducente individualità.
Cosi è per i suoni modulati, aspri o languidi, ma sapientemente dominati da Lauro Rossi al trombone, così è per il sax magico e solitario di Mauro Avanzini che sa trasformarlo in un’entità a lui siamese ma con identica voce interiore, cosi è per la discreta e vigile incandescenza del basso di Pietro Bertilorenzo, cosi è per l’ubiquità intellettuale e tentacolare di Max Guerrero che si duplica all’infinito tra key, prog, groove, e percussions, cosi è per l’ospite Zita Barbara, vera virtuosista misterica del violino dal quale estrae e reinventa “sussurri e grida” lirici e laceranti che toccano e fibrillano nei processi segreti dei nostri discioglimenti, cosi è per Mirko Sabatini alla batteria, no, oltre la batteria, direi a uno dispiegamento di forza ordinata, suddivisa, mantenuta, a un crivellamento impetuoso ed elegante, a uno stile teso e lapidario, a una furia trattenuta, sminuzzata, pirotecnica, così è infine per Nick Toscano, chitarrista di respiro europeo, maestro
della tastiera ardente: tra le sue dita c’è il sangue della Spagna risorta.
Gli arrangiamenti portano la sua firma e quella di Max Guerrero. Quali elogi meritano le voci trascendentali di Cristina Alioto e Alessandro Danelli?
Avviluppati in intrecci canori danzano figurazioni melodiche struggenti, si scambiano al trapezio dei versi dolenti, rientrano dirompenti tra assoli e sovrapposizioni, perseguendo la massima potenzialità espressiva delle proprie qualità interpretative, permeando di tutti i sentimenti umani i brani di Gori, riesumando antichi echi spenti di voci rivendicate a distanza, al di là del tempo, con rabbia e compassione. Sono loro le voci della memoria, le corde vocali ricucite ai silenziati, la coscienza del passato tra luce e miseria. I suoni della Storia sepolta.
Da sottolineare l’intervento recitativo, denso e livoroso, di Lucariello degli Almamegretta in “Inno del Primo Maggio”, e quello più selvatico e “nature” di Sergio Rossi alla fine del percorso. I brani sono: Inno del Primo Maggio – Stornelli d’esilio – L’estaca – Addio a Lugano – Già allo sguardo – Solo un bandido (di Toscano –Guerrero) – Sante Caserio – Amore Ribelle – Inno dei lavoratori del mare – Stornelli elbani. Il CD è stato prodotto per l’evento “È tornato Pietro Gori, anarchico pericoloso e gentile” che si è tenuto all’isola d’Elba dal 29 aprile al 4 maggio del 2008.
L’album ha una dedica: in ricordo di Pippo Bacca, spirito libertario.
Mauro Macario |