Chi, nel corso dell’estate che volge alla fine, ha seguito l’azione del governo in particolare per quel che riguarda il taglio della spesa sociale non ha potuto fare a meno di sentir parlare dell’art. 71 (1) del Decreto Legge 112/2008 che modifica radicalmente (2) la normativa che regola le assenze dei pubblici dipendenti.
In estrema sintesi, l’articolo 71 prevede:
- sanzioni economiche per tutti i dipendenti che si assentano per meno di dieci giorni mediante la non corresponsione della parte variabile del salario;
- gli arresti domiciliari per i malati costretti a restare a casa per le visite di controllo dalle 8 alle 20 con la possibilità di assentarsi solo dalle 13 alle 14;
- l’invio della visita di controllo sin dal primo giorno di assenza;
- il fatto che questa norma non può essere modificata dalla contrattazione sindacale.
Fatto salvo che il DL 112/2008 prevede, su altre materie, ben di peggio (
3), siamo di fronte ad un’azione assolutamente grave e volta ad ottenere un notevole impatto sull’opinione pubblica (
4).
È, d’altro canto, interessante notare che, sebbene la tensione e la preoccupazione fra i pubblici dipendenti siano notevoli, è anche vero che, ad oggi, la risposta si è centrata, almeno a quanto ho avuto modo di rilevare, solo su due pur rilevanti questioni:
- la denuncia del trattamento riservato ai gruppi sociali privilegiati anche da questo punto di vista (assenteismo dei deputati e senatori et similia) come se un sia pur difficilmente ipotizzabile rigore nei confronti dei privilegiati bastasse a rendere tollerabile quello verso i subalterni;
- il fastidio per il fatto che la misura in questione colpisce in maniera indiscriminata oziosi ed operosi, assenteisti e malati effettivi.
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Il ministro Renato Brunetta |
Il diritto
all’ozio
È, di conseguenza, capitato a chi scrive, che pure dal punto di vista politico e sindacale è impegnato nella denuncia delle malefatte del governo, di riflettere su di un fatto, in qualche misura, interessante: nessuno ha osato rivendicare, per citare un classico che andava, non a caso, di moda qualche decennio addietro, il diritto all’ozio.
Eppure, nei gloriosi anni ’70, la sinistra radicale di allora, alquanto diversa da ciò che viene oggi designato con questo nome, ebbe una discussione assolutamente vivace e legata a comportamenti pratici diffusi proprio sul giudizio da dare sull’assenteismo (5).
Sempre, in estrema sintesi, ci si divideva allora, almeno nel milieu che frequentavo, fra apologeti dell’assenteismo (6) assunto come forma di sabotaggio alla produzione e di rottura della disciplina sociale e compagni, come me ed altri, che valutavano con maggior prudenza la natura e l’impatto di questo tipo di comportamento e ne coglievano limiti ed ambiguità pur riconoscendolo come una pratica legittima dal punto di vista dello scontro sociale.
Ricordo, a questo proposito, un seminario al quale partecipai nella primavera del 1978 e che era incentrato sulle forme di lotta, sabotaggio, boicottaggio individuali e collettivi. Uno dei compagni che partecipava all’incontro, allora operaio all’OM Fiat di Milano, affermava, fra l’altro, a proposito appunto dell’assenteismo:
- “l’intensificarsi della crisi ha mostrato anche i limiti dell’assenteismo come azione autonoma di classe. I dati disponibili per il ’76-’77, testimoniano una caduta netta del tasso d’assenteismo e una ripresa della produttività. Nella violenza della crisi, le due componenti dell’assenteismo, quella individuale (anche se diffuso a livello di massa) e quella organizzata, si sono scisse. Quasi sempre l’assenteismo è un fatto individuale di ogni singolo operaio una scelta personale di autodifesa e di autoregolazione, ma chiaramente il suo tasso in questi anni era maggiore in quei reparti e in quelle fabbriche dove era più alto il potere operaio. Scelta soggettiva dunque, ma sostenuta da una più incisiva capacità di decisione organizzativa; se questo, vien meno cresce anche la paura di praticarla. Nei reparti ove è forte una coscienza anticapitalista è stato possibile fare un uso organizzato dell’assenteismo. Gli operai si accordavano per distribuirsi i turni di assenza e di presenza quando addirittura non li imponevano ai capi. In questi casi. grazie a un forte potere operaio che minacciava azioni peggiori (fermate, danneggiamenti ecc.), l’assenteismo non poteva essere attaccato come fatto individuale perché era azione cosciente e collettiva, espressione di potere sull’organizzazione produttiva e l’opera di disgregazione della classe era più difficile da raggiungere.”
Era insomma allora chiaro il legame fra forza collettiva dei lavoratori e praticabilità di comportamenti individuali “trasgressivi”, legame che richiederebbe, me ne rendo conto, ulteriori riflessioni ma che è, comunque, un preciso criterio analitico ed operativo.
Scambio
informale
Il mistero dell’attuale, e speriamo provvisorio, incruento successo di Renato Brunetta è, da questo punto di vista, disvelato: la campagna contro il reale o presunto assenteismo dei pubblici dipendenti colpisce non una prassi antagonista e collettiva ma, al massimo, l’utilizzo individuale di una normativa meno severa, formalmente e soprattutto sostanzialmente, rispetto alla disciplina che vige nell’impresa privata. Per decenni le amministrazioni pubbliche hanno lasciato le redini lunghe, oggi le tirano con il consenso anche di molti lavoratori, i reali o autopercepentesi come tali operosi soprattutto nel settore privato ma non solo.
D’altro canto, se il governo pretende di imporre ai suoi diretti dipendenti una disciplina produttiva più seria e severa è possibile, ed in questa direzione si deve operare, che i lavoratori pongano innanzi con più forza le questioni che sono oggi centrali: organico, retribuzione, organizzazione del lavoro.
In altri termini, lo scambio informale fra scarsa produttività e mediocri retribuzioni viene rotto? Non è accettabile che ciò avvenga solo in una direzione.