Innanzitutto un ben tornato ai lettori in questo scorcio d’autunno e un augurio di buon lavoro ai compagni della Redazione.
Certo la stagione è tutt’altro che propizia: il pianeta intero ha dei sussulti che non lasciano prevedere nulla di buono. L’instabilità dei rapporti internazionali, l’indubbia debolezza del quadro economico-finanziario, l’allargamento della forbice che divide i pochi ricchi dai molti poveri sono tutti fattori che precarizzano il sistema complessivo, senza che alcun protagonista dello scenario internazionale possa chiamarsi fuori dal disagio e avanzi proposte in qualche modo salvifiche. Le carte,infatti, sono mischiate in maniera tale che tutti i giochi impazziscono. Sparite le barriere delle ideologie che sembravano consolidate, con valori che si ritenevano irrinunciabili (da una parte il liberismo, con l’esaltazione del mercato unico mondiale e la progressiva delegittimazione degli Stati nazionali; dall’altra la pianificazione politica dell’economia, i piani pluriennali, i cui obiettivi andavano raggiunti a prezzo di qualunque sacrificio), tramontato tutto questo, ciascuno prende ormai dal bagaglio residuale di questi mondi un tempo opposti i pezzi di ricambio che sembrano utili per ricostruire un tessuto di potere che serva a prevalere sui concorrenti veri o presunti. Così, ad esempio, la Cina prova ad utilizzare le formule più spregiudicate del capitalismo per scalare la graduatoria delle potenze egemoni, a vantaggio di una casta al potere che mortifica i diritti più elementari dei suoi cittadini. Anche se – e questo non va taciuto – gli sforzi per far uscire la popolazione di questo immenso territorio dalla condizione di servi della gleba sono sotto gli occhi di tutti e non vanno sottovalutati.
Dall’altro versante, l’America di Bush e della sua corte di potentati economici non riesce più a far fronte ai disastri di un’economia speculativa che ha finito per minare le basi del Colosso, coinvolgendo nel disastro l’intera economia occidentale e non soltanto. Adesso anche questa profetessa del liberismo senza lacci e laccioli si sveglia, non solo con i conti dello Stato a pezzi, ma con una popolazione indebitata sino al collo, che non può più far fronte neppure alle proprie necessità primarie. Le conseguenze sono ormai manifeste: il fallimento di alcuni colossi bancari ed assicurativi e la pericolosa debolezza dell’intero apparato creditizio e assicurativo hanno indotto il Tesoro ad immettere liquidità nel sistema, una liquidità che appesantisce ulteriormente il suo debito, soprattutto con l’estero. Così anche da parte della potenza oltre atlantica si ricorre al magazzino degli strumenti che sembravano dovessero essere definitivamente accantonati.
Si riscopre la politica sociale, una sanità ed un’istruzione meno selettive e onerose, un sostegno alle classi meno agiate e misure drastiche contro le speculazioni e a difesa dell’azionariato popolare. È – sembra di capire – il programma di Obama e di quella parte del partito democratico che lo sostiene, anche se alla propaganda elettorale dei Presidenti in pectore degli Stati Uniti bisogna sempre fare la tara, perché sono essi stessi, in prima persona o per sostegni indiretti, espressioni di giganteschi interessi economici.
Il calcolo americano
E qui apriamo l’inquietante parentesi sulla recente crisi del Caucaso, sulla cui origine e le reali partite che in quella parte nevralgica del mondo si giocano, quasi tutti gli osservatori, anche i più indipendenti, hanno lanciato cortine fumogene per confondere le idee dei loro lettori o ascoltatori.
Certo, perché se i disastri in politica interna hanno mostrato le gambe d’argilla dei veri o presunti moloch, non sono scemate per questo le loro vocazioni imperialistiche. Parliamo naturalmente e senza reticenze dell’imperialismo americano che, anche se cambia il colore dei presidenti, non cessa di perseguire le sue mire espansionistiche. L’attacco della Georgia alla provincia secessionista dell’Ossezia del Sud viene da molto lontano, e, precisamente, dalla politica americana nei Balcani.
Tutto ha origine dall’attacco NATO alla Serbia per fermare, come affermò D’Alema in Parlamento, il genocidio degli albanesi del Kossovo. Si era nel 1999 e sull’intervento NATO sorsero da subito seri dubbi di legittimità, poi risolti con il tardivo assenso dell’ONU. Il Kossovo fu praticamente militarizzato con una massiccia forza militare internazionale, mentre la Serbia fu quietata, da un canto con l’assicurazione che alla provincia secessionista non sarebbe stata mai concessa l’indipendenza, semmai una limitata autonomia, dall’altro con la promessa di un’accelerazione del processo per il suo ingresso nella Comunità europea. Quando parliamo di NATO, parliamo naturalmente di America, e fu proprio l’America a dettare le condizioni per la fine del repentino conflitto.
Ma quale era nella realtà il calcolo americano? Da un canto, il fatto di mantenere nell’area balcanica una consistente forza militare a supremazia americana avrebbe destabilizzato l’assetto politico dell’ex Iugoslavia, fomentando le spinte centrifughe di piccole province che, sulla scorta di quanto era avvenuto per la Slovenia e la Croazia, aspiravano a rendersi autonome da Belgrado; dall’altro avrebbe consentito la penetrazione militare negli spazi dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia e il conseguente spostamento ad est del baricentro delle basi americane d’Oltremare. Ma vi era un terzo disegno nella strategia americana non meno importante degli altri due sopra richiamati ed attuati, ed era quello di disgregare ulteriormente la Comunità europea, che Washington ha sempre considerato, in prospettiva, una concorrente temibile. E che sia riuscita nell’intento lo dimostrano le difficoltà che sono sorte nei vari consessi che hanno preceduto la dichiarazione di indipendenza del Kossovo del 7 febbraio 2008. Nella risoluzione del 18 febbraio scorso del Consiglio Affari Generali e relazioni esterne, che riuniva i 27 ministri degli esteri dell’Europa unita, si legge testualmente: “Il Consiglio sottolinea la propria convinzione che, considerato il conflitto degli anni Novanta e il prolungato periodo di amministrazione internazionale, nel quadro della risoluzione 1244, il Kossovo costituisce un caso sui generis (se non andiamo errati il termine fu suggerito dall’allora nostro ministro degli Esteri, Massimo D’Alema) che non mette in questione questi principi e risoluzioni”. L’excusatio non petita manifesta le gravi divisioni che spaccarono il Consiglio. I più perplessi, naturalmente, furono quei Paesi che registravano spinte secessionistiche nei loro territori, la Spagna in prima fila, ma anche la Romania, la Slovacchia, la Grecia e Cipro. Insomma, dalla questione del Kossovo l’Europa esce con le ossa rotte, come auspicato dall’ “alleato” statunitense.
Accerchiamento della Russia
Compiuta questa operazione strategica, che ha altri mille retroscena impossibili da sintetizzare, si apre, molto opportunamente, per il disegno complessivo dell’amministrazione americana, il conflitto georgiano. È assolutamente incredibile che Tblisi apra le ostilità contro l’Ossezia del Sud senza l’avallo del suo alleato americano e senza valutare le conseguenze dell’inevitabile reazione russa. Assai più credibile è invece l’ipotesi che tutta l’operazione sia stata costruita per consentire l’ulteriore accerchiamento della Russia, con l’accelerazione del progetto di istallazioni antimissilistiche in Polonia e la spedizione della flotta USA nel Mar Nero (per aiuti umanitari, si sostiene, che spesso sono gli alibi per coprire ogni nefandezza).
Ma la strategia è molto più complessa: col destabilizzare l’area si tenta di fomentare le spinte autonomiste di regioni come l’Ucraina, dove più consistenti sono le istanze di cambiare il quadro delle alleanze.
È difficile valutare adesso le conseguenze di questa situazione, complicata, se possibile, dagli interessi consistenti che gravitano, nell’area, sul terreno delle risorse energetiche, un settore nevralgico, che non abbiamo neppure tentato di sfiorare in questo articolo forzatamente limitato, tanto è spinoso e aggrovigliato.
Resta il fatto, incontrovertibile, anche se esorcizzato dai commentatori politici, tranne qualche lodevole eccezione, che siamo in pieno conflitto, un conflitto che di freddo ha solo la temperatura corporea delle vittime innocenti.