Botta/Le responsabilità di
Severino Di Giovanni
Cara redazione di “A” e caro Massimo,
lo scorso luglio ho iniziato a sfogliare il numero estivo, come al solito dalle lettere e dai “Ritratti in piedi”, grazie a cui sto collezionando una lista di libri da leggere. Ho letto il ritratto di Severino Di Giovanni con una certa emozione, poi un’altra volta “a freddo”. Nel mezzo mi è venuta in mente qualche questione.
Do per certo che il tema dell’illegalismo susciti – come ha sempre fatto – reazioni diverse nel movimento anarchico, frutto di punti di vista altrettanto diversi, ma, secondo me, non contraddittori. Da qui i vari e legittimi giudizi sulla persona di Di Giovanni. Ma non sono sicuro che a lui siano da attribuire tutte le dinamiche di perdita d’importanza del movimento anarchico tra gli anni Venti e Trenta in Argentina. In Sud America il movimento venne progressivamente sconfitto dall’emergere del totalitarismo nelle forme di dittature più o meno supportate dal fascismo e dall’affermazione di partiti comunisti per la prima volta maggioritari nel movimento operaio. L’anarchismo era a uno scoglio storico di dimensioni enormi. Gli attentati di Di Giovanni e dei “suoi” erano gli sbuffi di un movimento alle corde, braccato ma risoluto. Non credo furono loro a fermare “ogni idea di cambiamento e di opposizione”: a quelle ci pensavano i fascisti.
Queste sono le linee di tendenza generali; più in particolare in Argentina, come in Uruguay, il movimento operaio di ispirazione libertaria, da sempre maggioritario, all’inizio degli anni Venti aveva vissuto una scissione e la fondazione di un sindacato filobolscevico accanto alla tradizionale FORA. I dissidi tra le due fazioni sindacali erano aspri e nei primissimi anni Trenta, quando la vicenda esistenziale di Di Giovanni “toccava il culmine” finendo tragicamente, si fecero ancor più violenti. Inoltre i sindacati libertari, pur ancora in grado di paralizzare il porto e parte di Buenos Aires, non si mobilitarono contro il colpo di Stato e l’instaurazione della dittatura di Uriburu. Si pensava che per gli operai un governo valesse l’altro e si aprì così la strada alla repressione. I compagni riconobbero poi questo errore e forse anche quelle esperienze contribuirono ad approfondire il dibattito ideologico sul rapporto tra anarchia e democrazia da parte di alcuni militanti italiani emigrati sul Plata (penso, in maniera diversa, a Luce Fabbri e Torquato Gobbi).
Come si vede la questione non è facile: a leggere l’articolo mi pareva invece di vedere tra le righe l’intenzione di considerare Di Giovanni il colpevole di avvenimenti storici molto complessi, forse ancora più complessi della personalità dello stesso controverso personaggio.
Un abbraccio,
Antonio Senta
edizioniatemporali@autoproduzioni.net
…e risposta/In maniera
determinante
Antonio Senta non mi renderebbe giustizia se davvero mi attribuisse l’intenzione di “considerare Di Giovanni il solo colpevole di avvenimenti storici molto complessi”. Se la situazione dell’anarchismo, in America latina, vide infatti quell’inarrestabile processo involutivo ben evidenziato, nelle sue dinamiche, anche dalla lettera di Senta, non ne fu certo Severino Di Giovanni il solo responsabile. È altrettanto certo, però, che egli contribuì, in maniera determinante, a creare quelle condizioni materiali e psicologiche che fecero perdere al movimento anarchico, al suo pensiero e al suo progetto, quella credibilità e simpatia che negli anni Trenta erano ancora così diffuse in larghissimi strati del mondo del lavoro e dell’opinione pubblica.
Scusandomi preliminarmente per il necessario schematismo che adotterò, cercherò di chiarire il mio pensiero. Sono convinto che l’anarchismo, l’essere anarchici, si possa esprimere, sostanzialmente, in due modi: perseguendo un progetto di trasformazione sociale che preveda la partecipazione fattiva, cosciente e consapevole di larga parte della popolazione (altrimenti, si lavorerebbe per un processo rivoluzionario guidato dalle solite avanguardie cadendo così nel più evidente autoritarismo) oppure affidandosi all’azione pura e dura, a un ribellismo primordiale e individualistico che, al di là dei suoi aspetti “eroici” perfettamente inutili, non potrebbe portare ad altro che all’isolamento dell’individuo e a quello, ben più importante, del movimento che si dice o si crede, magari in buona fede, di rappresentare.
Il problema è questo e solo questo, ed è quello (come videro con la necessaria lucidità molti degli anarchici più attenti e responsabili, Luigi e Luce Fabbri in primis) che riguardò Di Giovanni e tanti altri compagni, più o meno credibili, in altre epoche e situazioni. E il risultato fu sempre il solito: la sostanziale emarginazione del movimento e la perdita di credibilità di un progetto di trasformazione collettiva che avrebbe dovuto invece realizzarsi, secondo le intenzioni di chi lo praticava, con i mezzi dell’illegalismo individualista.
Prevengo l’obiezione di Senta e concordo che non si deve generalizzare: ogni individuo è una storia a sé, ogni vicenda ha le sue peculiarità. Ma resta il fatto che in sostanza i risultati sono sempre stati quelli cui accennavo in precedenza. Le difficoltà che devono affrontare un movimento e un pensiero come il nostro, così attenti a non concedere nulla al potere, sono già talmente tante – lo vediamo nella nostra presenza e attività quotidiana – che non si vede il bisogno di andarsene a creare altre, convinti magari che prendendo certe scorciatoie si arrivi prima: non è affatto vero, così non si arriva, punto e basta.
Il bisogno di reagire alle ingiustizie è forte, soprattutto in chi, come gli anarchici, ritiene che di ingiustizie non debbano essercene. Ma il modo migliore di reagire è organizzasi collettivamente per creare la possibilità che si sviluppi qualcosa che le renda impossibili, lottando perché a crearle sia un vasto movimento sociale e non facendo fuori il “cattivo” di turno. Tutti insieme, con la lotta, con l’organizzazione, con lo sviluppo e la crescita di coscienze libere e solidali, non con altri mezzi, spettacolari certamente, ma troppo spesso, altrettanto certamente, inutili nei risultati e dannosi nella inevitabile ferocia.
Converrà, Antonio Senta, che questi punti di vista, oltre ad essere diversi, sono anche, eccome se lo sono!, contraddittori.
Un abbraccio.
Massimo Ortalli
Botta/libertari?
Alla redazione di A,
a Sébastien Faure, che fondò nel 1895 le libertaire, viene spesso attribuito il merito di avere inventato la parola libertario come sinonimo di anarchico. Ma il fatto che Déjaque l’usò già nel 1858 lascia pensare che quando Faure l’adottò essa fosse nell’uso da parecchio tempo... tratto dal libro “L’anarchia” di George Woodcock. Di recente, però, del termine (libertario) si sono appropriati vari filosofi americani sostenitori del libero mercato (Friedman, Nozick, Rothbard, Wolff), cosicché è necessario esaminare la moderna concezione dell’individualismo «libertario» dal punto di vista della tradizione anarchica. Tratto dal libro “l’anarchia” di Colin Ward.
Dal libro di Woodcock è evidente che il termine libertario è sinonimo di anarchico, usato di sicuro per non usare il termine troppo “pesante” come anarchico (pesante per chi non conosce l’anarchismo).
Allora mi chiedo come mai sovente sento parlare di area libertaria e area anarchica (comunque libertaria) come due cose distinte? Oppure, in tal posto si sono incontrati anarchici e libertari? Oppure ho sentito parlare di anarchici libertari, come se gli anarchici organizzati non fossero libertari.
In quanto i “libertari” del libero mercato o meglio conosciuti come anarco-capitalisti (o libertarian) citati da Ward, alcuni anni or sono leggendo il libro di Cosimo Scarinzi “L’enigma della transizione” chiesi all’autore del libro (per lettera) maggiori informazioni sugli anarco-capitalisti e lui mi rispose che i “libertarian” sono una corrente della destra statunitense (e di Cosimo mi fido parecchio).
In poche parole i “libertari” del libero mercato (come sintetizza Ward nel suo libro) non sono libertari (cosa risaputa da molti ovvio) e se libertario è sinonimo di anarchico è giusto parlare di area libertaria e area anarchica come due cose distinte?
Tanti saluti
Ronal Perono Querio
(Ciconio – To)
…e risposta/un termine pesante
Caro Ronal,
di Cosimo Scarinzi fai bene a fidarti perché ci prende spesso e volentieri. Infatti oggi negli Stati Uniti gli anarco-capitalisti o libertarian che dir si voglia, sono proprio una delle espressioni più agguerrite e meno simpatiche della destra conservatrice e formalmente antistatale. Del resto anche in Italia abbiamo, purtroppo, qualcosa di simile, vale a dire i cosiddetti “libertari” del partito radicale pannelliano, che ancora si avvalgono della vecchia nomea che si richiamava a principi di libertà, ma che ora usurpano questa definizione con proposte politiche strumentali ed equivoche.
Ma lasciamo perdere queste miserie e veniamo agli anarchici, ossia ai libertari “veri”. In effetti potrebbe sembrare che ci sia una certa confusione nell’uso dei due termini, che a volte vengono utilizzati come sinonimi, a volte invece no. Se volessimo schematizzare, si potrebbe risolvere la questione dicendo che tutti gli anarchici sono libertari mentre non tutti i libertari sono anarchici, e quindi potremmo partire da questo assunto per spiegare, brevemente, come credo che stiano le cose. Il termine “anarchico” in effetti è un termine abbastanza pesante perché sia nella sua etimologia che nella sua consolidata accezione storica viene ad assumere un significato ben chiaro, quello che connota chi ha fatto dell’antiautoritarismo e della lotta al potere, al concetto stesso di potere, il punto centrale della propria riflessione teorica e della propria azione sociale.
Al contrario il termine “libertario” è, evidentemente, più leggero, perché richiamandosi più semplicemente al solo concetto di libertà – e si sa che questo è un concetto estendibile e flessibile come un elastico – può essere attribuito non solo agli anarchici ma anche a coloro che hanno, o almeno dovrebbero avere, come obiettivo principale il perseguimento e la creazione di spazi di libertà sempre maggiori. Ovviamente, al di là delle attribuzioni, non può non esserci che simpatia e collaborazione fra gli anarchici e i libertari veri.
Fatte queste considerazioni, resta che nessuno ha il brevetto del termine per cui spesso, per ingenuità, per malevolenza o per secondi fini, c’è chi vuole intende fare confusione creando identificazioni o fittizie o troppo facili. È quello che vediamo spesso, come si diceva all’inizio, ma per fortuna una cosa sono le definizioni e un’altra le pratiche e le azioni sociali. Massimo Ortalli
Botta/A proposito di tasse
ed evasori
Gentile redazione,
ho trovato equilibrato l’intervento di Massimo Ortalli (cfr. sullo scorso numero la sua replica alla lettera di Luca Miola) sulla questione tributaria del punto di vista dell’anarchico.
Tuttavia il discorso è incompleto. Si omette di precisare che lo Stato è ricchissimo (il deficit di bilancio è una bufala, come ho argomentato altrove), e che le tasse non servono affatto ai “servizi”, ma a tenere soggiogato il cittadino, non solo con il prelievo, ma anche con adempimenti sanzionati.
È inutile che vi ricordi che tutte le rivoluzioni e i moti della storia hanno avuto una radice fiscale, ma proprio la retorica dei “servizi” ha attenuato la percezione del carattere coercitivo del fisco, instillando un senso di colpa nell’evasore A parte che non può evadere chi è soggetto a ritenuta d’acconto).
Nella tradizione americana la questione è più sentita che da noi (Thoureau, Tucker), il che non significa che gli evasori vadano santificati: è gente che, molto spesso, ai più alti livelli, dallo Stato ci guadagna con concessioni e prerogative. Evadere. Per loro, è solo un arrotondamento nel rapporto con lo Stato.
Fabio Nicosia
(Ospedale Psichiatrico Giudiziario – Montelupo Fiorentino)
…e risposta/in attesa di
abbattere lo Stato
Nella lettera di Fabio Nicosia la “questione tasse” viene affrontata partendo da una nuova prospettiva, tale da spostare significativamente i termini del discorso. Se nella precedente risposta alla lettera di Luca Mioli discutevamo su quale dovesse essere la risposta del singolo individuo alla domanda “evasione sì evasione no”, ora veniamo a parlare di ciò che potremmo definire come “rivolta fiscale” o anche, per paradosso, “evasione di massa organizzata”.
Nella cultura nordamericana il tema della tassazione e del ruolo dello Stato nella società è particolarmente sentito, e ne è esempio la scintilla fiscale che scatenò la Rivoluzione americana contro gli inglesi. Al tempo stesso è innegabile la centralità che hanno, nel dibattito politico, la necessarietà e la presunta invadenza dell’intervento statale nella vita dei cittadini. Tucker e Thoreau, mi pare, contestavano la legittimità di una certa imposizione fiscale, imputando allo Stato la mancanza di quella funzione etica che avrebbero voluto attribuirgli. Quindi la loro non era una opposizione alle tasse in quanto tali, ma piuttosto al loro cattivo, o presunto tale, utilizzo. In un certo senso a loro si ispiravano gli obiettori fiscali che, in tempi recenti, si rifiutavano di versare allo Stato italiano l’equivalente delle spese militari.
Diversa la posizione dei cosiddetti anarcocapitalisti, i quali contestano tout court la legittimità delle tasse in quanto atto autoritario, affermando però, pur se nascondendosi dietro raffinati sofismi, la legittimità di un atto ben più autoritario quale lo sfruttamento “egoistico” delle risorse naturali e della forza lavoro altrui.
Dove stare dunque? Cosa scegliere? Personalmente ritengo che l’unica risposa “anarchica” sia quella che le tasse non si pagano solo abbattendo lo Stato che le esige e costruendo una società talmente solidale e collaborativa che di tasse non ne abbia più bisogno. In mancanza, o nell’attesa, che fare? E allora torno alle conclusioni della mia precedente risposta.
Massimo Ortalli
I
nostri fondi neri
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