Premessa
L’Istituzione negata, edita nel 1968 da Einaudi, ha spalancato “le porte su un’istituzione, una scienza e una società che mostrano il loro volto denudato nelle sue vergogne più nascoste: la violenza gratuita e disumana nei confronti dei più derelitti, violenza che rendeva disumani violentati e violentatori”. “Tutto ha inizio con un ‘no’”.
Lo dice Franca Basaglia ricordando un libro, pratiche e riflessioni teoriche che hanno, poi – nel giro di una decina di anni – condotto alla “legge 180”, detta anche, dal cognome di suo marito Franco, “legge Basaglia”, una “legge quadro” che avrebbe dovuto far superare la soluzione del manicomio come unica soluzione del “disagio” (o “malattia”, qui la scelta del termine è ardua) psichico – legge presto abbandonata a se stessa perché mai fu connessa ad un piano sanitario realmente propositivo.
1. Alla conclusione di un ampio e approfondito dibattito attuale sulla questione – ne La razionalità negata (Bollati Boringhieri, Torino 2008) –, Gilberto Corbellini e Giovanni Jervis osservano rispettivamente che “la peggiore eredità del movimento antipsichiatrico” (venivano chiamate così e si preferisce chiamarle ancora così le pratiche e le riflessioni teoriche in questione) “è la critica ideologica al valore della professionalità e della competenza nell’ambito della medicina e della sanità pubblica” (169) e che “non c’è alcun motivo di rimpiangere il passato; ma, forse, si poteva fare meglio” (170).
Già messe così le cose, diciamo che, come minimo, queste affermazioni ci pongono problemi: la differenza tra il “violentatore disumano” e la “professionalità” di valore o la “competenza” è tale da far venire i brividi, non è chiarissimo cosa si intenda per “critica ideologica” e, infine, è forse tutto da verificare che proprio nessun rimpianto per il passato alberghi nell’animo di chi parla.
2. Chi parla o, meglio, chi si parla sono uno storico della medicina nato nel 1958 ed uno psichiatra nato nel 1933. Il primo guarda alle vicende con il cuore leggero dello spettatore, di chi si è documentato, con l’occhio da etologo (lo dice lui e qualcuno, a seconda delle definizioni che si voglia dare dell’etologia, potrebbe anche offendersi); il secondo con i patemi del protagonista che si ritrova a doversela raccontare ricategorizzandosi in modo da uscirne più pulito possibile.
Per il primo – come se il suo brodo di cultura fossero i giornali e i dibattiti televisivi – il termine “ideologia” sembra connotare ogni nefandezza. Ne faccio qualche esempio:
- ci si renderebbe conto oggi “dei danni, delle sofferenze e dei ritardi che una serie di irragionevoli controversie ideologiche stanno causando da quasi mezzo secolo alla vita civile italiana” (pag. 19);
- sarebbe indotto a ritenere che “negli anni sessanta l’Italia abbia perso diverse opportunità per dotarsi di efficaci sistemi decisionali di selezione delle élite intellettuali”, a causa di “un quadro politico iperideologizzato” (pag. 35);
- sarebbe del tutto convinto che “le istanze di rinnovamento della psichiatria presero una piega fortemente connotata in senso politico-ideologico” (pag. 43).
Per il secondo – che proprio del tutto dimentico del proprio percorso intellettuale non può esserlo e che, pertanto, non se la sente di accettare supinamente gli ordini impartiti dal regime in materia di significato delle parole –, dalle ideologie “non c’è nessuno che sia immune” (pag. 26). Sembrerebbero in contrasto irrimediabile, ma – potenza dell’oggi – vanno invece d’amore e d’accordo.
3. Jervis ci invita suadentemente alla rassegnazione. “Ammettiamolo, siamo tutti cambiati”, dice – dove quel “tutti” è una mossa retorica che, se da un lato, gli può portare il massimo dei conforti, dall’altro prevarica non poco nei confronti di chi si sente libero di applicare diversi criteri e, magari, impegnato (a differenza di lui) a dichiararli. Poi, prova a giustificarli questi “tutti” se stesso incluso.
Il mutamento sarebbe ineludibile perché “i problemi principali non sono più gli stessi”, “dopo il sessantotto sono balzate in primi piano questioni drammaticissime che non immaginavamo neppure”, e le snocciola una per una: inediti settarismi, violenza omicida dei gruppi armati, attentati con le bombe, minacce golpiste, decadenza del sistema educativo, corruzione, crescente divario fra il nostro senso civico e quello delle altre popolazioni occidentali, rivincita dell’integralismo cattolico (pag. 24).
Sembrerebbe di averci a che fare con un’anima candida – che né ha mai letto un libro di storia (l’ottocento russo?), che ha vissuto nel nostro Paese senza mai leggere i giornali (il caso Sifar? L’immunità concessa all’estrema destra ed ai residuati del fascismo?) e senza guardarsi troppo in giro (la Democrazia Cristiana, la sua cultura, il suo sistema di potere? Il Vaticano? Aveva forse creduto Jervis alla fine del potere temporale dei Papi?). No, tutte queste questioni erano ben presenti ed evidenti – per chi voleva constatarle – ben prima del sessantotto. Non all’improvviso e non a caso, per l’appunto, si arriva al sessantotto.
Invece si ha a che fare con un filo-maoista a tempo (“tutti gli anni sessanta”), “una cosa”, tuttavia, “un po’ platonica e intellettualistica” (pag. 26) (viviamo tempi in cui l’ossimoro è norma sociale e, dunque, abbiamo anche il “maoista platonico”), per il quale “le prospettive sono cambiate”, “il marxismo è tramontato”, “perché ci siamo resi conto che (…) è necessario dare più importanza a tutto ciò che Marx, invece considerava secondario”. E, colui che un tempo citava L’ideologia tedesca ci spiega cosa sarebbe stato “secondario” per Marx: culture, moralità e immoralità dominanti, ideologie, credenze, stereotipi e costumi. Un Marx, insomma, in versione veltroberlusconiana – tra Calandrino e Pappagone.
4. Ma non solo. Giustificazioni ce n’è per tutti. A “parziale scusante per l’abuso”, occorre dire che “per lo più gli psichiatri non sapevano cosa fare. Spesso erano frustrati, talora esasperati, e allora era più facile che sbagliassero, nel tentativo di fare comunque qualcosa” (pag. 43). E, comunque, già per conto suo, ovvero senza bisogno di tanta critica, “la psichiatria stava cambiando”: “basta pensare all’avvento degli psicofarmaci nel corso degli anni cinquanta”, che mitigò le sofferenze dei malati (pag. 41), nonostante – ma si guardi un po’ – che “non si sapeva neppure molto bene perché fossero efficaci” (pag. 42). Jervis ricorda le “cure disperate” (che diedero il titolo ad un ottimo libro di E. S. Valenstein, edito da Giunti, Firenze 1993) e l’ “avvento” (una categorizzazione che, spesso, già implica il giubilo) di questo o quell’altro psicofarmaco, fra cui il litio, “che si rivelò risolutivo per il trattamento degli stati maniacali e delle psicosi bipolari” e che “rese molto più rara la necessità” dell’elettroshock.
Si dimentica di quando assembleava con Basaglia – quando questi diceva “non si deve fare l’elettroshock, non si devono dare le medicine” (cfr. L’istituzione negata, Einaudi, Torino 1968, pag. 267) e lui non trovava nulla da eccepire –, ma è pronto nel menzionare violenze e suicidi ascrivibili alla “chiusura dei manicomi” (mentre non si prova nemmeno a indagare su violenze e suicidi ascrivibili a dosaggi più e meno sbagliati di litio). L’elettroshock – si sarà notato – è comunque tornato “necessario”; il regista di Qualcuno volò sul nido del cuculo – che, sprezzantemente, non nomina neppure – era “furbo e superficiale”, Szasz, l’autore de Il mito della malattia mentale (pubblicato nel 1961, riedito da Spirali, Milano, nel 2003), che afferma come ”uno stato psichico denominato schizofrenia non è una malattia se non in senso metaforico” (pag. 76) – argomento sul quale si tace – sarebbe caratterizzato da un’ideologia antipsichiatrica “tradizionalista, ultra-individualista e di destra” (pagg. 75-76); mentre figure centrali del movimento antipsichiatrico – come Laing e Cooper –, d’altronde, morirono alcolizzati (pag. 64 e pag. 75). Insomma, in quanto a processi di svalorizzazione non si bada a spese.
Ciò non ostante, dopo il sessantotto si incontravano “persone di eccellente livello di istruzione” e “perfino qualche psicologo” che “dicevano con la massima serietà che i luoghi di degenza psichiatrica e la psichiatria stessa erano un prodotto del capitalismo” (pagg. 80-81). Uno di questi – verrebbe da dire –, per l’appunto, era lui.
5. Ricordo, allora, alcuni concetti espressi da Jervis ne L’istituzione negata.
Innanzitutto, “è legittimo esprimere il sospetto che la psichiatria” – con tutta la sua “pretesa scientificità” – “non riesca a definire in modo chiaro le particolarità che rendono di sua competenza un comportamento deviante” (pag. 304), tenendo presente che “il concetto stesso di malattia in generale non era per nulla facile da definire, e l’assimilazione dei disturbi mentali alle malattie organiche finiva comunque per avvenire su di un piano empirico e approssimativo” (pag. 305).
Nella scienza moderna, “i fatti non parlano più da soli, l’osservatore è presente nella ricerca e non è fuori di essa, con i propri interventi pratici, le proprie categorie interpretative, la propria ideologia”, (pag. 307). Pertanto “non è più possibile sostenere (…) il carattere ‘naturale’ della malattia”, tanto è vero che “nella maggior parte dei casi (…) l’ipotesi di una lesione cerebrale appare infondata, artificiosa e irrilevante, perché il disturbo interpersonale acquista un senso solo nell’ambito di quella dinamica sociale che progressivamente gli ha dato forma” (pag. 308).
“La differenza principale fra lo psichiatra e il malato che gli sta di fronte”, dunque, “non risiede nello squilibrio fra salute e malattia, ma in uno squilibrio di potere” (pag. 309). Il medico, infatti, “rimane (…) tenacemente ancorato a questa sua collocazione sociale, al modo di pensare della sua classe, alle presunzioni della sua formazione scientifica, all’ideologia del produttivismo, della proprietà (compresa la proprietà intellettuale), della sopraffazione individuale” (pag. 316).
6. Nel bilancio del duo Corbellini-Jervis – così retoricamente avveduti, così a modino nel non contraddirsi, così funzionali ad un quadro ideologico in cui repressione, medicalizzazione e revisione storiografica si implicano reciprocamente – non c’è più traccia di denuncia della “violenza dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. A psichiatria e scienza tutta viene riconsegnata la loro neutralità – non dico “perduta” ma almeno “messa in dubbio” – e gli inconvenienti loro capitati vengono classificati alla voce “irrazionalismo”. La razionalità negata – una “razionalità” che, ovviamente, ci si guarda bene dal definire – è dunque l’atto di controdenuncia con cui si ripristina un potere.
7. Senza badare a spese, dicevo. Alla conclusione del suo saggio ne L’istituzione negata, Jervis diceva che “il velleitarismo della antipsichiatria si propone di indicare (…) alcune delle vie possibili per una società totalmente diversa” (pag. 319), dove il carattere diverso designava chiaramente la presa di distanza dell’autore dalla parola. Come si trattasse di una citazione, di parola colta nella bocca altrui. Orbene, nella discussione attuale c’è perfino un momento (pag. 87) in cui Corbellini, in cerca di conferme e pronto a servirne su un piatto d’argento, ricorda a Jervis di aver parlato di “velleitarismo dell’antipsichiatria”, ma prendendo la parola per buona, come fosse una lungimirante dichiarazione di Jervis medesimo. E lui, ci sta.
Felice Accame
Post scriptum
Di quell’osservatore sempre “presente” nella ricerca scientifica, Jervis dovrebbe ricordarsi anche quando parla del suo panorama serale. Ci racconta, infatti, di un “tramonto del marxismo” spacciandolo per datità storica universale, non solo ignorandone – o fingendo di ignorarne – l’attualità nella ricerca storica e nella criteriologia dell’analisi economica, ma anche travisandone l’impianto metodologico. Potremmo ascrivere a Marx una tesi secondo la quale, nella ricostruzione degli eventi politici vanno privilegiati gli eventi categorizzati come “economici”, ovvero derivati dal conflitto fra chi detiene i mezzi di produzione e chi no, ma senza dimenticarci affatto di tutti quegli elementi culturali (credenze, morale, stereotipi, costumi, religione, etc.) che, connotandola negativamente in quanto “falsa coscienza”, riassume nell’”ideologia”. Che quest’ultima venga imposta dalla classe dominante per mantenere il proprio potere sui dominati è consapevolezza di cui a costi di buonsenso eccessivi (anche per la pur capace borsa di Corbellini e Jervis) Marx può essere espropriato. Anche la storiografia successiva a quella marxista – la scuola delle “Annales”, per esempio, un Le Goff o un Duby – ha contribuito a far emergere dal gran magma di sfondo gli elementi “ideologici”, ma affiancandoli a quelli “economici”, senza contrapporli affatto gli uni agli altri.
Sull’uso del termine “ideologia” e sui molteplici significati che questo termine ha acquisito nei vari contesti, Rossi-Landi – nel 1978 (ma è disponibile una riedizione di Meltemi, Roma 2005) – scrisse un bel volume riccamente documentato. Corbellini potrebbe dargli un’occhiata: vedrebbe incrociarsi valorizzazioni positive (come nel caso della cultura sovietica post-rivoluzionaria), valorizzazioni negative (come quella marxiana) e investimenti più cauti – come quelli che affidano al termine la designazione di “quadro dei valori” o di “progettazione sociale”. Potrebbe così rendersi conto che, nel contesto testé ordito – in carenza di criteri espliciti –, la sua “ideologia” designa semplicemente, banalmente e vagamente “tutto ciò che è di sinistra”.
Post post scriptum
Le affermazioni di Franca Basaglia sono tratte dalla riedizione di F. Basaglia (a cura di), L’istituzione negata, Baldini e Castaldi, Milano 1998, pag. 3.
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