Rivista Anarchica Online


politica internazionale

Il bivio di Barack
di Antonio Cardella

Il solito ruolo centrale degli Stati Uniti oppure il cosiddetto multilateralismo. In pratica guerra sì o guerra no.

 

Non sono tra coloro che hanno esultato per l’elezione di Barack Obama a nuovo presidente degli Stati Uniti. L’ habemus Papam non mi ha particolarmente suggestionato e non perché ero indifferente al confronto tra i due contendenti: dopo il tragico doppio mandato di Bush, sarebbe stata una tragedia se ad insediarsi alla Casa Bianca fosse stato il pallone gonfiato di McCain; ma, eletto il Papa, attendevo si delineasse la strategia del pontificato sulla quale molto avrebbero influito i personaggi che sarebbero stati chiamati a far parte della squadra presidenziale. Come era lecito attendersi, un tributo andava subito conferito ad Hillary Clinton, sua acerrima avversaria durante le primarie ma poi più o meno forzatamente rassegnatasi allo strapotere elettorale del suo antagonista. Qualche perplessità genera la conferma a capo del Pentagono del repubblicano Robert Gates, che analogo incarico ricopriva nella precedente amministrazione Bush, ma poi tutti gli altri sono teste d’uovo da sperimentare alla prova dei fatti.
Con questa squadra Barak Obama deve decidere quali dei due percorsi obbligati, privi di alternative, privilegiare: se, cioè, continuare a praticare una politica che abbia come presupposto un’immagine degli Stati Uniti come potenza egemone, punto di riferimento di tutto l’Occidente e garante dell’ordine planetario; oppure una visione più realistica basata sul pluralismo e su rapporti internazionali che privilegino la trattativa, rifuggendo dalla demonizzazione degli avversari e rinunciando definitivamente al ricorso alle armi.
Le due opzioni, come è evidente, hanno conseguenze dirette sulla politica interna e della sicurezza: la prima, quella che si pone in continuità con la politica di Bush, lascerà senza soluzione i molti problemi di politica interna ed internazionale che hanno reso il mondo instabile e denso di conflitti regionali sempre destinati ad estendersi per la fitta rete di interessi incrociati che caratterizzano gli assetti economici ed egemonici della contemporaneità.
L’altra alternativa abbisogna di un radicale ripensamento dell’ottica con la quale gli Stati Uniti hanno decifrato i dati della complessa realtà internazionale e dei danni che l’amministrazione Bush ha provocato, devastando intere aree geopolitiche e stravolgendo, in misura ancora difficilmente valutabile, la vita di intere comunità, compresa quella americana.

Barack Obama

Il nodo del Medio Oriente

In queste note tenterò di esplorare le possibilità concrete che Barack Obama ha di percorrere, sia pure tra mille difficoltà, la seconda alternativa, un’alternativa che sembra più congeniale alle corde del neo presidente.
Il nodo del Medio Oriente è quello che si dovrà provare a sciogliere con priorità assoluta. La destabilizzazione dell’area provocata dall’invasione dell’Iraq ha praticamente sovvertito tutti gli equilibri, precari, che regolavano i rapporti, non solo del mondo arabo, ma dell’intera fascia che dal Sud Est Asiatico si snoda sino a lambire la Russia. L’Iran è per molti versi il punto nevralgico di questo tormentato panorama. Si tratta di un Paese che, per la sua storia millenaria, la sua cultura e il suo sviluppo tecnologico, pretende il ruolo di protagonista della regione e in questa chiave va interpretata la corsa al nucleare, che può certamente rispondere a motivi di sicurezza, ma prevalentemente risponde ad esigenze energetiche da soddisfare per consolidare il suo sviluppo. È certo che l’intera questione israeliano-palestinese non potrà essere risolta senza un coinvolgimento dell’Iran, e Barack Obama dovrà realizzare in fretta che Teheran, a prescindere dalle dichiarazioni oltranziste del suo attuale e tutt’altro che incontrastato leader, non ha alcun interesse a radicalizzare il conflitto. Certo l’interregno dei due presidenti americani paralizza in una certa misura l’evoluzione della situazione e non è un caso che al silenzio di Obama corrisponda la ripresa delle operazioni militari di Israele nella fascia di Gaza. D’altra parte il fragore delle armi, a prescindere dalle vittime che procura, non ha alcuna prospettiva strategica: Hamas non può andare al di là del lancio di qualche missile in territorio israeliano; Tel Aviv non può spingere l’azione militare oltre un certo limite, spaziale e temporale, se non vuole provocare una guerra di ben diverse proporzioni.
Ma ritorniamo all’Iran che gioca un ruolo non irrilevante per uscire dal pantano afgano. Sino adesso gli americani hanno consentito la destabilizzazione dell’Afghanistan in funzione antiiraniana. Musharaf ha scatenato una violenta crociata dei sunniti contro l’apostasia sciita in Iran, concedendo a Bush una base logistica aereo-navale nel Mar Arabico all’imbocco del Golfo Persico: l’individuazione dei luoghi la dice lunga sul reale obiettivo che,in prospettiva s’intende colpire.
Teheran ha storicamente un’influenza notevole sull’Afghanistan occidentale e teme che la destabilizzazione dell’area consenta un’espansione del Pachistan nel paese tale da indebolire la sua influenza.
In questo ginepraio, Barack Obama dovrà muoversi in modo tale da non inasprire i conflitti e disinnescare le provocazioni che Bush ha messo in atto in quest’area anche come monito contro la Russia e la Cina. E ciò comporta un mutamento dell’atteggiamento dell’amministrazione americana nei riguardi di questi due grandi Paesi, comprendendone sino in fondo le aspirazioni e le difficoltà che attraversano per stabilizzare le loro economie e le condizioni sociali di territori immensi, popolati da comunità sino adesso escluse da ogni forma di benessere. Non credo vi sia via d’uscita se non quella di promuovere dei tavoli attorno ai quali far sedere tutti i protagonisti dei diversi conflitti in atto e tentare di trovare soluzioni condivise.
Eguale sensibilità il nuovo inquilino della Casa Bianca dovrà manifestare nei confronti dell’ Europa: la politica americana durante le due precedenti amministrazioni ha lavorato per impedire che si raggiungesse una vera integrazione tra gli Stati membri, ritenendo che la frammentazione economica e politica del Vecchio Continente tornasse utile agli interessi degli Stati Uniti ed al consolidamento della sua influenza. Ciò ha certamente consentito di scaricare sull’Europa il prezzo delle spese militari per le diverse spedizioni punitive intraprese dagli americani in giro per il mondo, ma ha frammentato politicamente l’intero Occidente, impedendo, tra l’altro, la creazione di un polo credibile di mediazione che contribuisse a disinnescare o a dirimere i molti conflitti che hanno caratterizzato il mondo contemporaneo.

Il ruolo dell’industria militare

È difficile sintetizzare nello spazio di un articolo l’immenso panorama geopolitico nel quale dovrà operare Barack Obama nei prossimi mesi: rileggendo queste note mi rendo conto di avere solo sfiorato alcuni aspetti del difficile compito che attende la nuova amministrazione americana, il cui ambito operativo è reso se possibile più angusto da una non facile situazione interna.
A prescindere dalla gravissima crisi economica che ormai minaccia di paralizzare, direttamente o indirettamente, l’intero pianeta, resta da decifrare quale sarà l’atteggiamento dei poteri forti che hanno contribuito in misura determinante all’elezione di Obama. Smantellato dagli scandali e dai fallimenti il sistema finanziario, la recessione ha messo in crisi l’economia reale americana, coinvolgendo l’intero apparato produttivo e producendo un livello della disoccupazione inedito dalla grande crisi del 1929. L’unica industria che sopravvive al disastro è quella degli armamenti, la stessa che ha consentito di superare le diverse crisi di settore verificatesi nel tempo nel sistema produttivo americano e che ha, direttamente o indirettamente, redistribuito una non indifferente quota del reddito complessivo. Non dimentichiamo che la logica del dominio impone investimenti colossali nella ricerca applicata, finalizzata anche alla conquista dello spazio e al continuo aggiornamento degli armamenti strategici per bilanciare il parallelo adeguamento dei sistemi offensivi/difensivi dei veri o presunti nemici. Come è facile intuire, la sopravvivenza dell’industria degli armamenti è conseguenza immediata della logica della guerra come unica soluzione reale dei conflitti che sorgono in ogni angolo del Pianeta.
Ebbene, la domanda che si fanno tutti coloro che hanno a cuore le sorti presenti e future dell’umanità, è: vorrà e riuscirà Obama a contrastare l’opera dei signori della guerra che numerosi operano entro i confini del suo Paese e che grande influenza hanno sui guerrafondai di tutto il mondo? Dalla risposta che Barack Obama darà a questo quesito di fondo scaturirà il senso inequivoco che caratterizzerà il suo mandato.
Un’ultima considerazione perché non nascano equivoci: per la nostra logica, per la logica anarchica, il sistema capitalistico non è emendabile, quindi non ci attendiamo da Obama un significativo sovvertimento della politica americana. Non possiamo, però, essere insensibili al dilemma guerra si o guerra no, perché non siamo indifferenti alle sofferenze immani che la guerra produce laddove insorge. In questa chiave vanno pertanto interpretate le considerazioni contenute in questo articolo.

Antonio Cardella