Non
sono tra coloro che hanno esultato per l’elezione di
Barack Obama a nuovo presidente degli Stati Uniti. L’
habemus Papam non mi ha particolarmente suggestionato e non
perché ero indifferente al confronto tra i due contendenti:
dopo il tragico doppio mandato di Bush, sarebbe stata una
tragedia se ad insediarsi alla Casa Bianca fosse stato il
pallone gonfiato di McCain; ma, eletto il Papa, attendevo
si delineasse la strategia del pontificato sulla quale molto
avrebbero influito i personaggi che sarebbero stati chiamati
a far parte della squadra presidenziale. Come era lecito attendersi,
un tributo andava subito conferito ad Hillary Clinton, sua
acerrima avversaria durante le primarie ma poi più
o meno forzatamente rassegnatasi allo strapotere elettorale
del suo antagonista. Qualche perplessità genera la
conferma a capo del Pentagono del repubblicano Robert Gates,
che analogo incarico ricopriva nella precedente amministrazione
Bush, ma poi tutti gli altri sono teste d’uovo da sperimentare
alla prova dei fatti.
Con questa squadra Barak Obama deve decidere quali dei due
percorsi obbligati, privi di alternative, privilegiare: se,
cioè, continuare a praticare una politica che abbia
come presupposto un’immagine degli Stati Uniti come
potenza egemone, punto di riferimento di tutto l’Occidente
e garante dell’ordine planetario; oppure una visione
più realistica basata sul pluralismo e su rapporti
internazionali che privilegino la trattativa, rifuggendo dalla
demonizzazione degli avversari e rinunciando definitivamente
al ricorso alle armi.
Le due opzioni, come è evidente, hanno conseguenze
dirette sulla politica interna e della sicurezza: la prima,
quella che si pone in continuità con la politica di
Bush, lascerà senza soluzione i molti problemi di politica
interna ed internazionale che hanno reso il mondo instabile
e denso di conflitti regionali sempre destinati ad estendersi
per la fitta rete di interessi incrociati che caratterizzano
gli assetti economici ed egemonici della contemporaneità.
L’altra alternativa abbisogna di un radicale ripensamento
dell’ottica con la quale gli Stati Uniti hanno decifrato
i dati della complessa realtà internazionale e dei
danni che l’amministrazione Bush ha provocato, devastando
intere aree geopolitiche e stravolgendo, in misura ancora
difficilmente valutabile, la vita di intere comunità,
compresa quella americana.
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Barack Obama |
Il nodo del Medio Oriente
In queste note tenterò di esplorare le possibilità
concrete che Barack Obama ha di percorrere, sia pure tra mille
difficoltà, la seconda alternativa, un’alternativa
che sembra più congeniale alle corde del neo presidente.
Il nodo del Medio Oriente è quello che si dovrà
provare a sciogliere con priorità assoluta. La destabilizzazione
dell’area provocata dall’invasione dell’Iraq
ha praticamente sovvertito tutti gli equilibri, precari, che
regolavano i rapporti, non solo del mondo arabo, ma dell’intera
fascia che dal Sud Est Asiatico si snoda sino a lambire la
Russia. L’Iran è per molti versi il punto nevralgico
di questo tormentato panorama. Si tratta di un Paese che,
per la sua storia millenaria, la sua cultura e il suo sviluppo
tecnologico, pretende il ruolo di protagonista della regione
e in questa chiave va interpretata la corsa al nucleare, che
può certamente rispondere a motivi di sicurezza, ma
prevalentemente risponde ad esigenze energetiche da soddisfare
per consolidare il suo sviluppo. È certo che l’intera
questione israeliano-palestinese non potrà essere risolta
senza un coinvolgimento dell’Iran, e Barack Obama dovrà
realizzare in fretta che Teheran, a prescindere dalle dichiarazioni
oltranziste del suo attuale e tutt’altro che incontrastato
leader, non ha alcun interesse a radicalizzare il conflitto.
Certo l’interregno dei due presidenti americani paralizza
in una certa misura l’evoluzione della situazione e
non è un caso che al silenzio di Obama corrisponda
la ripresa delle operazioni militari di Israele nella fascia
di Gaza. D’altra parte il fragore delle armi, a prescindere
dalle vittime che procura, non ha alcuna prospettiva strategica:
Hamas non può andare al di là del lancio di
qualche missile in territorio israeliano; Tel Aviv non può
spingere l’azione militare oltre un certo limite, spaziale
e temporale, se non vuole provocare una guerra di ben diverse
proporzioni.
Ma ritorniamo all’Iran che gioca un ruolo non irrilevante
per uscire dal pantano afgano. Sino adesso gli americani hanno
consentito la destabilizzazione dell’Afghanistan in
funzione antiiraniana. Musharaf ha scatenato una violenta
crociata dei sunniti contro l’apostasia sciita in Iran,
concedendo a Bush una base logistica aereo-navale nel Mar
Arabico all’imbocco del Golfo Persico: l’individuazione
dei luoghi la dice lunga sul reale obiettivo che,in prospettiva
s’intende colpire.
Teheran ha storicamente un’influenza notevole sull’Afghanistan
occidentale e teme che la destabilizzazione dell’area
consenta un’espansione del Pachistan nel paese tale
da indebolire la sua influenza.
In questo ginepraio, Barack Obama dovrà muoversi in
modo tale da non inasprire i conflitti e disinnescare le provocazioni
che Bush ha messo in atto in quest’area anche come monito
contro la Russia e la Cina. E ciò comporta un mutamento
dell’atteggiamento dell’amministrazione americana
nei riguardi di questi due grandi Paesi, comprendendone sino
in fondo le aspirazioni e le difficoltà che attraversano
per stabilizzare le loro economie e le condizioni sociali
di territori immensi, popolati da comunità sino adesso
escluse da ogni forma di benessere. Non credo vi sia via d’uscita
se non quella di promuovere dei tavoli attorno ai quali far
sedere tutti i protagonisti dei diversi conflitti in atto
e tentare di trovare soluzioni condivise.
Eguale sensibilità il nuovo inquilino della Casa Bianca
dovrà manifestare nei confronti dell’ Europa:
la politica americana durante le due precedenti amministrazioni
ha lavorato per impedire che si raggiungesse una vera integrazione
tra gli Stati membri, ritenendo che la frammentazione economica
e politica del Vecchio Continente tornasse utile agli interessi
degli Stati Uniti ed al consolidamento della sua influenza.
Ciò ha certamente consentito di scaricare sull’Europa
il prezzo delle spese militari per le diverse spedizioni punitive
intraprese dagli americani in giro per il mondo, ma ha frammentato
politicamente l’intero Occidente, impedendo, tra l’altro,
la creazione di un polo credibile di mediazione che contribuisse
a disinnescare o a dirimere i molti conflitti che hanno caratterizzato
il mondo contemporaneo.
Il ruolo dell’industria militare
È difficile sintetizzare nello spazio di un articolo
l’immenso panorama geopolitico nel quale dovrà
operare Barack Obama nei prossimi mesi: rileggendo queste
note mi rendo conto di avere solo sfiorato alcuni aspetti
del difficile compito che attende la nuova amministrazione
americana, il cui ambito operativo è reso se possibile
più angusto da una non facile situazione interna.
A prescindere dalla gravissima crisi economica che ormai minaccia
di paralizzare, direttamente o indirettamente, l’intero
pianeta, resta da decifrare quale sarà l’atteggiamento
dei poteri forti che hanno contribuito in misura determinante
all’elezione di Obama. Smantellato dagli scandali e
dai fallimenti il sistema finanziario, la recessione ha messo
in crisi l’economia reale americana, coinvolgendo l’intero
apparato produttivo e producendo un livello della disoccupazione
inedito dalla grande crisi del 1929. L’unica industria
che sopravvive al disastro è quella degli armamenti,
la stessa che ha consentito di superare le diverse crisi di
settore verificatesi nel tempo nel sistema produttivo americano
e che ha, direttamente o indirettamente, redistribuito una
non indifferente quota del reddito complessivo. Non dimentichiamo
che la logica del dominio impone investimenti colossali nella
ricerca applicata, finalizzata anche alla conquista dello
spazio e al continuo aggiornamento degli armamenti strategici
per bilanciare il parallelo adeguamento dei sistemi offensivi/difensivi
dei veri o presunti nemici. Come è facile intuire,
la sopravvivenza dell’industria degli armamenti è
conseguenza immediata della logica della guerra come unica
soluzione reale dei conflitti che sorgono in ogni angolo del
Pianeta.
Ebbene, la domanda che si fanno tutti coloro che hanno a cuore
le sorti presenti e future dell’umanità, è:
vorrà e riuscirà Obama a contrastare l’opera
dei signori della guerra che numerosi operano entro i confini
del suo Paese e che grande influenza hanno sui guerrafondai
di tutto il mondo? Dalla risposta che Barack Obama darà
a questo quesito di fondo scaturirà il senso inequivoco
che caratterizzerà il suo mandato.
Un’ultima considerazione perché non nascano equivoci:
per la nostra logica, per la logica anarchica, il sistema
capitalistico non è emendabile, quindi non ci attendiamo
da Obama un significativo sovvertimento della politica americana.
Non possiamo, però, essere insensibili al dilemma guerra
si o guerra no, perché non siamo indifferenti alle
sofferenze immani che la guerra produce laddove insorge. In
questa chiave vanno pertanto interpretate le considerazioni
contenute in questo articolo.