Rivista Anarchica Online


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Errori di
psicologia

capelli e parole

 

1. In un suo libretto dedicato a Creatività e innovazione, lo psicologo cognitivo Paolo Legrenzi commette almeno tre errori. Il primo, proprio all’inizio, allorché dice che Musil, ne L’uomo senza qualità, “paventa il giorno in cui si sarebbe detto di un cavallo da corsa che era geniale”; il secondo, allorché dice che il sociologo Merton “ha coniato il termine serendipity” e il terzo allorché, suddividendo in due tipologie coloro che giocano in Borsa – gli speculatori e i cassettisti –, dice che questi ultimi “sono chiamati così perché comprano le azioni e le chiudono in un cassetto”.

2. Spesso la denuncia di un errore soddisfa l’esigenza di svalorizzare un prodotto. L’errore sarebbe semplicemente una prova di un assetto complessivamente sbagliato, se ne cita uno che valga per il tutto. Non è questo il caso, perché i tre errori di Legrenzi sono errori banali che poco o nulla tolgono ad un libro utilissimo, ben scritto e sostenuto da una documentazione vagliata con intelligenza. I suoi non sono errori – voglio dire – cui si perverrebbe di necessità stanti gli assunti della tesi. Testimoniano semplicemente di una certa superficialità e di eccessiva sicurezza di sé, assecondando, per così dire, la pressione del quadro ideologico all’interno del quale, giocoforza, si muove come autore. Musil, ne L’uomo senza qualità, tira in ballo almeno un paio di volte l’attribuzione di genialità al cavallo da corsa – una volta lo fa affermando che “quando il nostro secolo dichiara geniale un cavallo da corsa o un tennista non esprime tanto il suo concetto del genio quanto la sua diffidenza verso tutta la sfera più alta” e, poco oltre, lo fa nel contesto di un possibile confronto con la genialità di un fotografo. Merton, con la collaborazione di Elinor Barber, ha scritto un bellissimo libro dedicato alla “serendipità” – cioè a quel misto di caso e sagacia in virtù del quale qualcuno trova quello che non stava cercando –, ma, in quelle pagine, non si appropria scorrettamente di alcunché e attribuisce il primo uso di quel termine a Horace Walpole in una lettera del 1754 a Horace Mann. Il “cassettista”, infine, ovvero colui che compra azioni e se le tiene a lungo, deriva il suo nome dalla “cassetta di sicurezza” bancaria in cui le seppellisce e non da un insicurissimo “cassetto” del comò. La natura di questi errori è evidente: facciamo dire a persone e vicende umane quel che ci viene più comodo che abbiano detto o quel che ci conviene pensare sia stato il loro andamento, diamo valore al più vicino e al più noto oggi e tendiamo a dimenticare il più lontano e meno noto, scegliamo la soluzione più semplice da spiegare agli altri – e, in questo senso, accettando scorciatoie assecondiamo – senza rendercene conto – il quadro ideologico in cui viviamo.

3. Di solito, quando qualcuno comincia con il far rilevare errori di ortografia negli scritti altrui – e quando è ben sicuro non trattarsi di refusi tipografici –, di solito, è perché mira al bersaglio grosso. È partito lancia in resta per distruggere l’avversario, annientandolo nel ridicolo. È così che, a proposito di un’adunata in cui gli organizzatori esibivano cartelli programmatici, il quotidiano “Il Giorno” fa subito notare che “provvisorio” non si scrive con una “v” sola ed “evenienza” non si scrive con la “g” – come invece compariva in tali pubbliche dichiarazioni d’intenti. È così, poi, che “Il Corriere della Sera” ci dà dentro con sarcastiche annotazioni sulle modalità con cui questa adunata si è svolta: organizzatori disperati per la scarsissima partecipazione, curiosità divertita dei passanti, straordinario schieramento delle forze dell’ordine e presenza discreta di agenti in borghese considerati i “bandi di rivolta” che hanno dato il là all’adunata stessa, assenza totale di “rappresentanti del gentil sesso” ribattezzate per l’occasione “lolite” e “suffragette del movimento”, qualche maschietto colto addirittura con parrucche femminili, radi entusiasti tra i quali – addirittura – “il barbiere del paese” – con il che un problema di ordine pubblico è hic et nunc trasformato in un problema di ordine prima estetico e poi morale – e l’annotazione relativa ad una “atmosfera da Waterloo” che avrebbe colto tutti i partecipanti al momento della chiusura della manifestazione.

4. Io c’ero. Era il 22 maggio del 1966. Con l’amico Paolo Barosso eravamo partiti da Milano con la mia 850 Fiat vinta con i Mon Cherì Ferrero ed eravamo giunti sul Lago Maggiore, a Massino Visconti, in tempo per assistere al primo raduno dei “capelluti d’Italia” – una giornata che avrebbe dovuto essere – ed è stata – di musica, salsicce e polenta, elezione di Miss e Mister Capellone, tra qualche timido cartello di vaga protesta, pochi discorsi se non niente del tutto e tanta insana curiosità poliziesca nei confronti di un fenomeno per pochi disorganizzatissimi intimi che mai e poi mai – nemmeno con la sospettosità di un Torquemada – avrebbero potuto essere scambiati per le avanguardie di una rivoluzione. Dello spazio concesso dalla locale autorità comunale ricordo soltanto la poca erba spelacchiata e la polvere – tanta.


Eppure, ad un evento che, al giorno d’oggi, non riceverebbe neppure l’onore di tre righe di cronaca sul bollettino parrocchiale, i giornali di allora conferirono una dimensione inverosimile. “Anche il mito dei capelloni sta cominciando a stempiarsi”, apre con metafora ironica il proprio articolo sul “Corriere” Guido Vergani, sotto due titoli che volevano rassicurare tutti quei buoni padri di famiglia che ai valori della borghesia non sapevano rinunciare: “Un fiasco il raduno dei capelloni nel Novarese” e, non l’avessero mai detto, “Un mito al tramonto”.
Era il 1966. Non sapevano ancora cosa gli sarebbe capitato tra capo e collo. Il “mito al tramonto” – nonostante gli stigmi e le ridicolizzazioni, nonostante i funerali anticipati – avrebbe fatto traballare le fondamenta del loro impero.

5. Di “serendipità”, allora, parla per la prima volta Lord Walpole, in una lettera datata 1754. Magari chi l’ha ricevuta avrà sorriso. “Una bizzarria linguistica”, si sarà detto. Fino al 1833, a quanto pare, non fu più usata. Poi, verso la fine dell’Ottocento, la parola entra nell’uso di qualche bibliofilo e, nel 1912, entra nell’Oxford e, poco dopo, un “Serendipity shop” viene aperto a Londra. La faccio breve. Fino al 1958, Merton conta 135 persone che hanno utilizzato il termine per iscritto a partire dal 1875. Ma, tra il 1980-1989 in un data-base anglosassone la parola compare 1.838 volte, nel 1990-1999, 13.266 volte e, infine, in Google 2001, serendipity ha 636.000 citazioni, mentre in Google 2004 arriviamo a 647.000 (di cui 8.400 in pagine in lingua italiana) e in Google di questa mattina siamo a 7.890.000 citazioni (e 32.900 nella italica versione di “serendipità”). La bizzarria non è più tale.

6. Il sistema si difende. Definirlo “mito” e dichiararlo “al tramonto” è un modo per rendere inoffensivo il nuovo che fa capolino dietro l’angolo – o per cercare di renderlo inoffensivo, senza riuscirci e, anzi, forse – come certi antibiotici mal usati contro i batteri – contribuendo proprio a rafforzarlo. Il sistema esorcizza i propri incubi. Eppure. Tuttavia. Però.
Laddove cerca di individuare alcuni criteri per favorire i processi creativi – condizione fondamentale per la buona convivenza sociale –, Legrenzi ci invita a considerare il rapporto fra talento e tolleranza e dice che “c’è un legame stretto tra la capacità di vedere il mondo mettendosi dal punto di vista altrui” – la cosiddetta “empatia” – “e la tolleranza, il pensiero critico, l’accettazione della diversità”. Come dire che, accettando gli altri – anche avessero i capelli lunghi, anche usassero una parola nuova – rendo migliore la mia vita e quella di tutti. Come dire che tanto sangue – perché di questo si tratta – avrebbe potuto essere risparmiato e che, ora, non ci ritroveremmo a dover ricominciare da capo. Ancora una volta.

Felice Accame

Note
Ovviamente, ho escluso in partenza le due ipotesi peggiori. Che Legrenzi abbia commesso gli errori (i primi due) perché a) non ha letto i libri in questione e b) perché li ha letti male. Lungi da me, comunque, l’idea di escluderle, però, per reverenza nei confronti della sua persona e del suo ruolo – ho visto ben di peggio commesso da illustri cattedratici. No, tenderei ad escludere le due ipotesi in rapporto alla qualità complessiva del suo libro – dal modo, approfondito e competente, in cui parla di ogni altro argomento pertinente al tema. Per i suoi tre errori, allora, cfr. P. Legrenzi, Creatività e innovazione, Il Mulino, Bologna 2005, pag. 7, pag. 53 e pag. 86. Per il “cavallo da corsa geniale”, cfr. R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1957, pag. 440 e pag. 444. Il libro di R. K. Merton e di E. G. Barber si intitola Viaggi e avventure della Serendipity, Il Mulino, Bologna 2002. Gli articoli de “Il Giorno” e de “Il Corriere della Sera” – qui documentato – uscirono il 23 maggio 1966, rispettivamente a firma di Marco Mascardi e Guido Vergani.