Manifestazioni,
cortei spontanei, occupazioni di scuole e facoltà:
con queste forme, a partire dal mese di ottobre 2008, la protesta
studentesca ha fatto la sua comparsa su tutto il territorio
nazionale, portando nelle piazze quella parte di società
da sempre indicata come il “futuro del paese”,
a cui però un futuro è stato negato: sono i
bambini delle scuole elementari con i loro genitori, gli studenti
medi e universitari, i giovani precari delle strutture scolastiche
e della ricerca. Un pezzo di società nato e cresciuto
in un contesto di crisi non solo economica ma anche politica,
in cui i partiti hanno reciso ogni legame coi movimenti dal
basso e con le loro necessità, facendo della politica
lo strumento di rappresentanza di interessi corporativi e
di casta. Un movimento, quindi, disaffezionato alla stessa
parola “politica”, che si è sempre più
delineata nell’immaginario comune e giovanile come l’espressione
di logiche clientelari lontane dai pressanti problemi della
quotidianità.
L’Onda mette insieme individui diversi per
estrazione, cultura, orientamento politico e formazione, ma
tutti accomunati da un senso generico di precarietà
esistenziale, a cui hanno voluto contrapporre il desiderio
di tornare a decidere del proprio futuro, scrollandosi di
dosso il cliché, cucitogli addosso, di generazione
passiva e conformista.
Questo movimento prende vita da una contingenza precisa: la
contestazione alla legge 133. Una legge, quella proposta dal
ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini, inserita
in un progetto politico che mira a “riformare”
l’intero sistema della formazione e dell’educazione.
Fin dall’inizio studenti universitari, medi, precari,
insegnanti delle scuole inferiori e genitori si sono trovati
sullo stesso terreno di protesta, portando avanti rivendicazioni
specifiche ma inserite in un unico movimento.
Questa capacità di fare fronte comune nasce dalla consapevolezza
che i provvedimenti legislativi rispondono a un progetto più
ampio di smantellamento del sistema di istruzione. Dietro
l’attacco economico, infatti, con la progressiva riduzione
dei finanziamenti pubblici a favore di quelli privati, il
movimento individua la volontà politica di destrutturare
la scuola quale luogo tradizionalmente deputato alla crescita
e allo sviluppo critico dell’individuo, a favore di
una concezione del sapere asservita alle logiche di mercato
e di azienda. La mobilitazione ha intrecciato da subito due
percorsi di protesta: da una parte la critica al modello di
formazione voluto dal ministro; dall’altra la denuncia
dello stato attuale dell’università, conseguenza
di anni di cattiva amministrazione condotta dagli atenei dominati
da baronie e da logiche clientelari.
Pensieri e idee comuni e condivisi
Le forme con cui quest’Onda ha portato avanti le proprie
rivendicazioni (occupazioni, cortei spontanei, blocchi del
traffico, lezioni in piazza, autoriduzioni e sit-in) rappresentano
la capacità di riattualizzare le pratiche di lotta,
attraverso la pluralità e la spontaneità, ma
soprattutto di socializzare, cioè rendere comuni e
condivisi, pensieri e idee nei momenti assembleari, in cui
sperimentare forme alternative dello stare insieme, costruendo
così piccoli tasselli di una società radicalmente
diversa da quella frammentata e alienante a cui siamo assuefatti.
Le partecipate assemblee, quindi, non sono un semplice momento
di incontro o di vuota formalità (come le immagini
delle sedute parlamentari ci hanno abituato a concepire il
confronto politico) ma, esprimendo una dimensione sociale
di condivisione e partecipazione attiva, rappresentano la
volontà di superamento delle tradizionali forme di
rappresentanza e di delega stabilite dalle istituzioni, a
favore dell’autorganizzazione e del coinvolgimento di
ogni soggetto.
Così, mentre il movimento cresce e si mobilita nelle
città, si tracciano le “linee guida” di
un’Autoriforma volta a ridisegnare un’Altra
università a partire dalle istanze emerse durante
le assemblee e i tavoli di lavoro, che hanno visto studenti
e precari confrontarsi sui vari aspetti dell’attuale
sistema universitario per elaborare proposte alternative.
Non si tratta di creare un “pacchetto riforma”
da sottoporre all’approvazione del mondo istituzionale
che, nella sua articolazione partitica, è stato rifiutato
dal movimento in nome della sua autonomia e irrappresentabilità,
ma di un progetto in divenire che risponde alla necessità
di ricostruire dal basso l’università.
Le rivendicazioni studentesche hanno anche saputo inserirsi
in un contesto più ampio, intrecciandosi con le mobilitazioni
di tutte le fasce sociali più deboli che vedono ricadere
sulle proprie spalle il peso della crisi globale che il sistema
produttivo sta attraversando: lavoratori in cassa integrazione
e sull’orlo del licenziamento, migranti colpiti da provvedimenti
volti alla loro marginalizzazione e criminalizzazione, si
sono mobilitati insieme agli studenti, come testimonia lo
sciopero generalizzato del 12 dicembre 2008, perché
lo slogan-manifesto del movimento, Noi la crisi non la
paghiamo, dà voce a questa pluralità di
soggetti.
La necessità di allargare il conflitto è stato
uno dei maggiori punti di coesione tra le migliaia di studenti
riunitisi a Roma durante l’Assemblea nazionale, dove
si è partiti dall’idea che l’università
sia uno dei principali tasselli del sistema produttivo nel
quale lo studente è inserito, e a partire dalla quale
si vuole dare inizio alla propria lotta facendo sì
che l’università non sia il punto di arrivo,
ma un punto di partenza. Non solo, l’Assemblea ha rappresentato
un primo momento di incontro collettivo a livello nazionale
di tutte le realtà che in più di due mesi di
mobilitazione hanno costruito sui propri territori spazi di
dibattito e costruzione di modelli alternativi di didattica,
di accesso ai saperi, di partecipazione ai processi decisionali
e di diritto allo studio. Uno scambio di esperienze e punti
di vista, quindi, all’interno della cornice assembleare
che ha colto i punti di contatto tra le diverse realtà
studentesche e ha cercato di stabilire un’agenda di
mobilitazione nazionale.
Contro la verticalizzazione dei processi decisionali
Un elemento è importante sottolineare, perché
emblematico di questo movimento: l’assemblea non si
è conclusa con la redazione di un documento vincolante
per le realtà di movimento, né con la costituzione
di una struttura che funzionasse secondo il principio della
delega ma, al contrario, ha ribadito e sancito come base costitutiva
dell’Onda l’autonomia non solo rispetto ad istituzioni
o sigle, ma anche rispetto al principio stesso della verticalizzazione
dei processi decisionali. L’Onda, quindi, costruisce
sin dall’inizio nelle sue pratiche e negli strumenti
adottati pezzi di autoriforma, ossia di un nuovo modo di intendere
e vivere l’università.
In questo libro abbiamo voluto raccogliere alcuni documenti
prodotti dall’Onda che rappresentano tappe importanti
della mobilitazione e della progettualità del movimento.
Non è ovviamente possibile, in uno spazio così
ridotto, dar voce alle molteplici espressioni di questa lotta;
il nostro intento risponde alla volontà di tracciare
un percorso di lettura per comprendere ragioni, strumenti
e finalità che ne hanno caratterizzato la genesi e
lo sviluppo.
Ogni documento è testimonianza di una tendenza divenuta
subito prassi costitutiva del movimento: analizzare il reale
per costruire azioni che gettino le basi di una progettualità
politica di lunga durata.
Per questo motivo l’opposizione contro la riforma dell’università
si basa sullo studio specifico della legge che ha costituito
la base di un’opposizione critica e cosciente, niente
affatto ideologica e sterile, come spesso è stato detto
e scritto. Il Dossier sulla 133 è un esempio
della capacità di analizzare la legge con un approccio
tecnico-giuridico rigoroso, e allo stesso tempo di divulgare
tale analisi in modo semplice e accessibile a tutti, rispondendo
alla volontà di allargare la conoscenza del testo di
legge non solo agli studenti, ma alla cittadinanza tutta.
A questo approccio si affianca un’analisi più
propriamente politica, come testimoniano gli altri documenti
del movimento studentesco.
Il documento di Trento affronta motivi e ragioni della protesta
studentesca evidenziando i punti salienti della riforma Gelmini,
che porterebbero alla progressiva, ma irreversibile, destrutturazione
del sistema universitario come istituzione pubblica a favore
di un modello condizionato da interessi privatistici e incapace
di un ricambio generazionale della classe docente.
Questa consapevolezza si allarga, con il contributo di Torino,
alla rivendicazione dell’autonomia del movimento, che
rifiuta la delega non solo nella sua accezione più
immediata, ossia quella della rappresentanza, ma nel concetto
più ampio del rifiutare che le decisioni determinanti
per il futuro di una generazione siano delegate a terzi.
Anche la precarietà è un furto
Il documento di Napoli rappresenta un ulteriore aspetto:
la capacità di inserire le trasformazioni del mondo
universitario italiano nello scenario mondiale ed europeo
in cui si ritrovano le linee guida di una società capitalista
che concepisce la formazione secondo le logiche del mercato.
Importante è anche l’inserimento della riforma
Gelmini entro la tendenza, che accomuna governi di centrodestra
e di centrosinistra, a frammentare il sapere (sistema del
3+2) e monetizzarlo (introduzione dei crediti).
Questi diversi aspetti sono rintracciabili nel documento finale
uscito dall’Assemblea nazionale di Roma, in cui sono
trascritti i report dei workshop che hanno visto migliaia
di studenti confrontarsi su didattica, diritto allo studio
e welfare, ricerca e formazione. Un panorama, quindi, dei
nodi cruciali intorno ai quali ogni realtà di movimento
sta lavorando per fornire una risposta concreta sul proprio
territorio.
Altrettanto significativo è il documento prodotto dall’Assemblea
nazionale degli studenti medi: non solo un avvenimento importante
per gli stessi protagonisti, che da anni non si riunivano
a livello nazionale, ma anche per la visione comune che tiene
insieme l’intero movimento studentesco, il quale ha
saputo applicare a ogni grado dell’istruzione il concetto
di autoriforma e inserire le proprie rivendicazioni in una
lettura generale del sistema capitalista e repressivo, come
mostra il riferimento ai fatti gravissimi accaduti in Grecia,
con l’uccisione di un giovane quindicenne da parte della
polizia.
Ai documenti prodotti dagli studenti seguono due testi, voce
di altri due protagonisti di quest’ondata di mobilitazione:
per un verso il contributo dei precari della ricerca il quale,
attraverso un excursus sulla specificità pisana che
può essere esteso a tutte le realtà degli atenei
italiani, delinea la condizione di precarietà propria
di quella base su cui gran parte della ricerca e della didattica
universitaria si basano. Per l’altro il testo sui precari
tecnico-amministrativi, che rappresentano un altro tassello
fondamentale dell’ingranaggio universitario in cui si
intrecciano, come per gli altri soggetti, precarietà
economica ed esistenziale.
Non è intenzione di questo libro raccontare la storia
e i colori di questo movimento; consapevolmente, e simbolicamente,
abbiamo preferito lasciare che fossero gli studenti, con le
loro parole d’ordine e le loro analisi sul reale, a
raccontarsi. Si sono fatti, quindi, portavoce di se stessi,
tratteggiando un autoritratto collettivo che ha scelto di
comporre, in un unico mosaico di lotta e rivendicazioni, quei
tasselli che le istituzioni vogliono singoli e separati l’uno
dall’altro. Poiché il primo, pericoloso passo
verso il cambiamento è la presa di coscienza di essere
parte di un tutto a cui è stata tolta una dimensione
del tempo: il futuro. Questo movimento vuole riappropriarsene
combattendo il mezzo tramite il quale le istituzioni hanno
compiuto questo furto: la precarizzazione.
Se è possibile considerare la proprietà come
un furto, oggi possiamo dire che lo è anche la precarietà.