Il problema degli attuali demenziali epigoni di un antiebraismo violento e
insensato sta tutto nel radicalizzare, in una grottesca guerra di religione,
il dramma di due popoli.
Ma non è solo una questione che investe la sorte di israeliani e palestinesi, bensì il rigurgito di pulsioni storiche, che il mondo contemporaneo dimostra di non avere ancora metabolizzato collocandole – come avrebbe dovuto da tempo – nel novero di una sorta di improvviso tramonto della ragione, del prevalere di una barbarie che, nel genocidio del diverso, ha creduto di reperire le ragioni della propria sopravvivenza. Il sogno tragico di un’umanità dominata da una minoranza di pelle bianca, anzi, bianchissima, arbitra assoluta delle sorti dell’intero genere umano, che era il sogno delirante del nazismo, affondava le sue radici in irrazionali paure ataviche che né le filosofie della modernità né il progresso tecnologico e scientifico (con il conseguente miglioramento, relativo e parziale, delle condizioni di vita dei popoli) sono riusciti a sopire.
Le svastiche riapparse nelle vetrine dei negozi ebraici segnano il regredire ulteriore di una società che vive nel segno dell’arroccamento, dell’ossessiva urgenza di fissare i paletti all’interno dei quali coltivare i riti della propria solitudine. Ci si confina in una landa desolata, priva di futuro e rigidamente sottratta ad ogni relazione con un mondo esterno che ci terrorizza.
Le grandi metropoli che abbiamo orgogliosamente costruite si corrodono nella ricerca ossessiva di un consumo privo di condivisione. Sono attraversate, raramente vissute.
Ci si aggrega per separarsi: questa è la realtà desolante della nostra condizione esistenziale e non ci sono ragioni materiali e sociali che riescano compiutamente a spiegare questo nostro regredire verso un individualismo, mistificato e annichilente, che moltiplica i suoi nemici sino ad immaginarli, indistinti e minacciosi, appena fuori dalle proprie pareti domestiche.
Una qualche diffidenza
In un recente sondaggio approntato dall’osservatorio di Renato Mannheimer risulta che il 46% della popolazione italiana mostra una qualche diffidenza verso gli ebrei, mentre il 12% può senza mezzi termini associarsi ad un antisemitismo dichiarato.
Ho studiato, in tempi purtroppo ormai lontani, scienze statistiche e so quanto questi sondaggi vadano presi con le pinze, ma la pertinenza di questa indagine è suffragata dalla singolare equivalenza con la consistenza numerica del Popolo della Libertà di rigida ispirazione berlusconiana e, in misura leggermente inferiore, con quel mondo della cattolicità acriticamente attestatasi sulle posizioni di papa Ratzinger.
Non debbono quindi confonderci le chiassose manifestazioni che questi stessi soggetti hanno orchestrato in favore di Israele: del popolo israeliano a questa gente non importa nulla, plaudono solo alla faccia feroce che il governo Olmert mostra ai palestinesi e alle migliaia di vittime che l’esercito con la stella di David infligge alla popolazione della striscia di Gaza, stipata in una gabbia a cielo aperto senza vie di fuga.
Così il consenso che si declama a gran voce per l’operato del governo di Israele non esclude affatto la deriva antisemita che attraversa il popolo della destra italiana.
Del resto, se si vuole una ulteriore riprova delle sue vocazioni escludenti basta guardare all’atteggiamento assunto nei riguardi dell’immigrazione, che è un atteggiamento di ostilità assoluta, sul quale il Popolo delle Libertà ha fatto leva per vincere a man bassa le ultime elezioni.
Riappare con evidenza, in tutte le sue implicazioni, la paura ancestrale per il diverso da noi, per chi ha un colore della pelle che non è il nostro, ma anche per quanti non intendono abdicare a modelli di vita e di sviluppo diversi dai propri. Riappare (dopo e contro il Concilio Vaticano Secondo) la chiusura intransigente verso altri credi religiosi e si rafforza, nelle gerarchie cattoliche quella velleità universalistica che, in ogni tempo, le ha spinte a rifiutare, di fatto, ogni tentativo di pacifica convivenza con comunità religiose di segno diverso.
C’è certo dell’arroganza in questo riproporre supremazie astoriche, ma anche il timore di perdere le anime e i corpi che, sempre meno numerosi, si riconoscono nel verbo ecclesiale, quelle anime e quei corpi che assicurano alla Chiesa prestigio e ricchezza e che, in un paese come l’Italia, hanno sempre tentato di plagiare le istituzioni, collocandole su una frontiera di resistenza alla modernità che spesso sfiora il farsesco.
Risposte concrete
Da qualunque angolazione la si guardi, insomma, la contemporaneità sembra dominata da frustrazioni e paure che la recente crisi sistemica ingigantisce. Forse per la prima volta dopo il 1929 ad essere minacciati non sono soltanto gli anelli più deboli delle società una volta opulente, ma anche quelle nicchie di privilegio che, storicamente, sulle crisi cicliche del capitalismo avanzato hanno sempre lucrato.
Onde evitare che questo clima di liquidità del sistema renda anche noi anarchici timidi e silenti, è necessario rielaborare e rilanciare, con un’azione militante incisiva, la nostra visione del mondo, che fornisce oggi più che mai risposte concrete alla vocazione dei popoli alla libertà ed alla solidarietà.
Dovremo riaffermare, con voce ferma, il nostro coinvolgimento diretto in tutte le lotte dei popoli oppressi, qualunque sia la latitudine della loro collocazione territoriale, e ribadire che ad offenderci sono gli Stati, i governi e tutte le divise sotto le quali si celano le fetide membra dell’oppressione e della morte. Lo abbiamo fatto con gli scritti e, quando ci è stato possibile, con l’azione diretta in ogni periodo della nostra storia. A maggior ragione lo possiamo fare oggi che, nella buia storia del tempo che attraversiamo, si comincia, ancora assai confusamente, a comprendere le nostre istanze.