Rivista Anarchica Online


dossier sul pacchetto sicurezza e dintorni

Oltre il deserto
di Maria Matteo

Di fronte alle recenti misure governative, non basta l’indignazione, occorre agire concretamente per inceppare la macchina delle espulsioni, il caporalato nero come quello in guanti legali, occupando metro dopo metro tutti gli spazi di libertà possibili.

 

Il pacchetto sicurezza, il decreto antistupro e, in generale, i tanti provvedimenti legislativi che hanno dato corpus giuridico ad un diritto diseguale, sono un’aberrazione persino per il più conservatore dei liberali. Ma tant’è. In un’epoca in cui tutti sono liberali, i liberali veri si sono quasi estinti. D’altro canto senza solide basi materiali eguaglianza e libertà sono solo vacui principi, e comunque la distanza tra la forma e la sostanza è sempre stata grande. Nondimeno la sanzione giuridica della disuguaglianza, poiché le leggi sono rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza all’interno della società, è il segnale che il terreno del conflitto sociale sta spostando il proprio asse: lo scontro di classe cede il passo alla guerra tra poveri.
La valenza simbolica e reale di questo evento è enorme.
L’azione del governo, sebbene principalmente focalizzata contro l’immigrazione, ha investito pesantemente le cosiddette libertà formali (parola, stampa, associazione): i margini di opposizione consentiti dalla legge subiscono un ulteriore violenta erosione.
Ultima trovata, in termini di tempo, la forte spallata data alla residua possibilità di scioperare per i lavoratori dei trasporti. Lo sciopero virtuale – si lavora ma non si viene pagati – ribalta come nei peggiori incubi orwelliani il senso dello sciopero: non si sciopera più per fare male ai padroni, per metterli in difficoltà, per obbligarli a trattare, ma si rinuncia allo stipendio per avere il diritto di dire che si gradirebbe un aumento di salario o il miglioramento delle condizioni lavorative. Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere. D’altra parte a Maroni è bastata una semplice circolare alle prefetture per rendere complicato fare un corteo senza incorrere in un divieto.
Il processo di normalizzazione violenta dello spazio sociale si dispiega all’interno delle nostre città, colpendo nel profondo. Nell’ultimo anno sono stati criminalizzati comportamenti banali come il bersi una birra in strada, fare caciara con gli amici ai giardinetti, tirare tardi al bar. Una società in guerra dichiara il coprifuoco, restringe le libertà formali, accusa di intelligenza con il nemico chi si oppone al macello. Il moltiplicarsi degli uomini armati per le strade è il necessario contrappunto al moltiplicarsi di divieti e prescrizioni. I cittadini che si fanno poliziotti, incubo fascista, con il crisma della legalità rischiano di diventare rapidamente vere squadracce.
Come una marea lenta ma poderosa questi provvedimenti sono tasselli diversi che ben si incastrano nel disegnare un mosaico di guerra permanente, dove l’attitudine a trattare le questioni sociali in termini di ordine pubblico, venuta maturando negli ultimi due decenni, si dispiega senza più alcuna remora, poiché forte del sostegno di tanti, troppi, che il lessico della paura strangola in una morsa di xenofobia e razzismo.

L’arma della solidarietà

Il governo, per rompere le resistenze residue al pieno dispiegarsi di una lunga teoria di dispositivi autoritari, fa leva sulle emozioni, approfitta dell’allarme sociale provocato da delitti compiuti da immigrati, criminalizza ad arte ogni manifestazione di dissenso. Scorrendo le pagine di buona parte dei quotidiani si ricava l’immagine di un paese in preda a stranieri dediti ad attività criminali e vittima delle violenze indisturbate di una minoranza di oppositori stupidi ma pericolosi. Un quadro falso che ben rappresenta timori non riassorbili da una confutazione razionale.
La crisi economica rende più concrete le paure di chi teme di perdere il poco che ha, di chi fa fatica ad arrivare alla fine del mese, di chi ha contratto un mutuo e non riesce a pagarlo, di chi vive di lavori precari, pericolosi, malpagati. Raramente il disagio di molti si indirizza contro chi lucra, giorno dopo giorno, sulle vite di tutti, per rivolgersi contro chi sta peggio, contro gli immigrati poveri, che passano da un lavoro in nero ad un altro, che rischiano la detenzione nei CIE e la deportazione verso paesi dove non possono e non vogliono più vivere.
La ragione suggerirebbe che la cancellazione delle leggi razziste è il solo modo di sottrarre i lavoratori immigrati al ricatto derivante dal legame tra contratto di lavoro e diritto al soggiorno legale nel nostro paese. Se questi lavoratori fossero più liberi, se non rischiassero il futuro dei loro figli, sarebbero meno disponibili a piegare la testa, ad accettare paghe infime, lavori rischiosi, orari spaventosi. La libertà degli immigrati è la libertà di tutti, perché è solo interesse dei padroni erigere barriere tra i lavoratori, renderli incapaci di mutuo appoggio, di lotte comuni per strappare migliori condizioni di vita e di lavoro.
La stessa ragione consiglierebbe l’arma della solidarietà contro chi non ha altra morale che quella del profitto, ad ogni costo, quali che siano le conseguenze. Soldi. Tanti e subito, senza riguardo per l’ambiente, la salute, la libertà, la dignità di chi per vivere deve lasciare in ostaggio ai padroni le proprie braccia. Eppure vince la paura, che si fa panico, che travolge ogni resistenza etica, che imbriglia le coscienze, che vuole solo erigere muri sempre più alti. In tanti credono che quando il mare salirà ancora potranno stare a galla mentre gli altri verranno sommersi. Non vedono che il cammino di chi non ha speranza non può essere arrestato, non vedono che chi governa le sorti del mondo non guarda in faccia nessuno e gioca una partita con i dadi truccati.
Se non sapremo sconfiggere la paura dei più e la rassegnazione di tanti altri il limite degli orrori pensabili, quelli relegati nel passato, potrebbe spostarsi. O, meglio, potrebbe spostarsi ancora di più, perché ormai la nostra società ha da tempo oltrepassato l’orlo del baratro: la discesa è sempre più rapida e violenta. C’è da augurarsi non ci tocchi arrivare al fondo, dove muri robusti difesi da guardie armate, non lascino altra alternativa che la guerra civile. C’è chi pensa che ormai sia inevitabile e che i giusti non possano che scegliere la propria barricata. Lo ritengo possibile ma non auspicabile, poiché in una società spezzata in due, quando alla paura di questi fa da contrappunto la furia disperata di quelli, non c’è spazio all’anticipazione di un tempo altro, scandito dal ritmo della libertà e dell’eguaglianza. Eppure non ci sono alternative: o si cambia davvero o non si cambia affatto, se non in peggio. Tra le rovine non si vive, si sopravvive.
L’anima della rivoluzione è fatta di conflitto e prefigurazione utopica, di rotture e sperimentazioni e si costruisce giorno dopo giorno nell’humus caldo della solidarietà, nella condivisione di un universo assiologico, nel suo inveramento nella pratica.
Stiamo attraversando il deserto e in fondo non c’è nessuna promessa. Ma il deserto si attraversa in molti modi e attraversarlo bene è importante quanto arrivare alla fine.

Piccoli passi faticosi

Non c’è tempo, non c’è più tempo da perdere. Questa è una storia che si racconta facendola, dove la resistenza necessaria si intreccia con la paziente tessitura di relazioni durature, in un continuo rimando tra un piano e l’altro, alla fin fine strettamente allacciati, fusi, indistinguibili.
Contro le leggi razziste occorre saper unire la denuncia alla resistenza connettendo la resistenza all’intreccio di reti solidali. Non basta l’indignazione occorre agire concretamente per inceppare la macchina delle espulsioni, il caporalato nero come quello in guanti legali, occupando metro dopo metro tutti gli spazi di libertà possibili.
Cooperative e associazioni che gestiscono i CIE, le prigioni per migranti, collaborano attivamente alla macchina delle deportazioni e non devono avere vita facile. Nelle strade, nei mercati, nei posti di lavoro a chi non accetta che certe norme vengano applicate non resta che mettersi in mezzo per impedirne o intralciarne l’applicazione.
Negli ultimi tempi in alcune città si sono sviluppate interessanti esperienze di lotta, che, pur tra mille difficoltà, contrastano le retate sui tram e nei quartieri, rinforzano la solidarietà ai lavoratori immigrati in lotta, sostengono chi si ribella ai centri di detenzione, tenta la fuga, sciopera, si rivolta apertamente. Piccoli passi faticosi, spesso illegali, rischiosi. A volte servono, altre sono inutili. Eppure necessari, terribilmente necessari.
Se un giorno, qualcuno chiederà dov’eri quando deportavano la gente, quando le ronde imperversavano per le strade, quando uomini e donne morivano in mare e nei cantieri, quando i caporali avevano i loro schiavi, vorrei poter rispondere che ero lì, con gli altri, a passare il deserto.

Maria Matteo