Negli ultimi dieci anni la gestione dei flussi migratori ha costituito in Europa e in Italia un vastissimo laboratorio di repressione. È sulla pelle degli immigrati, infatti, che gli stati e i governi hanno attuato – attraverso strumenti normativi e giuridici – una nuova apartheid per escludere gli immigrati dal godimento di libertà e diritti universali.
L’opinione pubblica è sempre stata indotta a considerare la costruzione dell’Unione europea come una realizzazione di conquiste storiche: abbattimento delle frontiere, libertà di circolazione, benessere per tutti. In realtà, tali conquiste valgono solo per chi è cittadino europeo: tutti coloro i quali non sono cittadini della UE sono automaticamente tagliati fuori. L’Europa è una fortezza, circondata da una frontiera fatta di leggi e regolamenti che vietano l’ingresso a chi non è europeo e non può garantire una sicurezza economica: chi proviene da un paese povero ed emigra per cercare lavoro è un soggetto da reprimere e terrorizzare.
In Italia, la norma vigente in materia di immigrazione è la famigerata Bossi-Fini, un dispositivo realizzato sull’impianto della precedente legge Turco-Napolitano. Significativamente, centrosinistra e centrodestra hanno trovato la giusta sintonia nell’interpretare il medesimo intento: l’immigrato “extracomunitario” che vuole entrare in Italia non può farlo se, prima del suo ingresso, non dimostra di aver già sottoscritto un contratto di lavoro. In questa pretesa del tutto assurda (dal momento che una persona emigra perché il lavoro lo deve ancora trovare) va rinvenuto il legame tra permesso di soggiorno e contratto lavorativo: considerando soltanto il ruolo produttivo dell’immigrato, in questo sistema la clandestinità è funzionale agli interessi dei padroni che sono del tutto liberi di sfruttare lavoratori immigrati che non possono tutelare i loro diritti, una quantità impressionante di manodopera a costo zero schiavizzata ogni giorno nelle nostre campagne, nei nostri cantieri, nelle nostre fabbriche.
L’impossibilità di entrare regolarmente in Europa costringe gli immigrati provenienti dal Sud del mondo ad affrontare viaggi pericolosi per raggiungere i nostri confini. Le migliaia di immigrati morti annegati nel Mediterraneo o asfissiati a bordo dei tir che attraversano l’Europa sono tutte vittime provocate dalle politiche assassine dei governi: una lunga ed estenuante strage di stato.
Un altro aspetto aberrante di questo impianto legislativo è la creazione dei Centri di Permanenza Temporanea (CPT) che oggi si chiamano Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE). Si tratta di luoghi di detenzione per soli immigrati. L’immigrato che entra irregolarmente in Italia veniva incarcerato in queste strutture per sessanta giorni prima dell’identificazione e dell’espulsione: si finisce dunque in un CIE non certo per aver commesso un reato bensì a causa di un illecito amministrativo. Con le nuove norme previste dal cosiddetto decreto-sicurezza, questo periodo di detenzione viene esteso addirittura a sei mesi. Giova ricordare che i centri di identificazione costituiscono una grossa fonte di reddito per le strutture laiche e religiose che li gestiscono. Un “volontariato sociale” che specula sulla pelle della povera gente inserendosi nelle maglie di un sistema che fa del bisogno, della debolezza e della ricattabilità un proprio punto di forza.
Gli immigrati sono perfettamente consapevoli della natura autoritaria delle politiche europee sull’immigrazione: tentativi di fuga dai CPT, rivolte, proteste nei quartieri abitati massicciamente da immigrati sono ormai uno scenario di conflitto permanente.
Delirio securitario
Negli ultimi anni, in Italia, gli immigrati hanno anche dimostrato di saper lottare per i propri diritti: le numerose esperienze di autorganizzazione e di mobilitazione di piazza tra i migranti sono un segnale di vitalità dal quale prendere spunto per costruire un’alternativa reale allo stato di cose presenti. Sostenere i migranti nella lotta antirazzista significa proprio questo: valorizzare l’autonomia dei gruppi e/o dei singoli senza delegare l‘azione antirazzista ad alcuno.
La precarietà economica e sociale coinvolge tutti, stranieri e non, e proprio su quest’asse vanno rinsaldate le rivendicazioni di diritti fondamentali quali lavoro, salute, istruzione.
L’apparente attrito tra i bisogni degli italiani e degli stranieri deve essere svelato per ciò che rappresenta: una strategia delle istituzioni per indebolire e frammentare quello che può e deve essere un ampio fronte di resistenza al dominio, all’ingiustizia, alla crisi. Allo stesso modo, è necessario respingere con fermezza il delirio sicuritario alimentato dalla politica e dai media che criminalizzano l’immigrazione per fare di ogni straniero il capro espiatorio per tutto ciò che va male in questo paese. La libertà di circolazione, la possibilità di progettare la propria vita a prescindere dal luogo in cui si è nati, l’opportunità di fuggire dalle guerre o dai contesti di miseria sono diritti universali che nessuno deve limitare.
L’antirazzismo è oggi un terreno di conflitto che non ammette mediazioni perché non è possibile mediare su ciò che è umano e ciò che non lo è. Lo Stato, le sue leggi, i suoi interessi e i suoi tutori cancellano l’umanità togliendole il respiro vitale della libertà, dell’autodeterminazione, della dignità.
Ma le anarchiche e gli anarchici sanno da che parte stare e per cosa lottare.