Ricordando
Matilde Finzi Bassani
Martedì 3 marzo, al cimitero ebraico di Mantova è stata tumulata Matilde Bassani Finzi deceduta domenica 1 marzo all’ospedale Fatebenefratelli di Milano all’età di 90 anni.
Matilde è stata e rimarrà un’illustre figura della Resistenza partigiana, del socialismo e del movimento femminista italiano. Cugina dello scrittore ferrarese Giorgio Bassani (autore tra gli altri del famoso romanzo “Il giardino dei Finzi-Contini “ ) il 23 marzo del 1943, Matilde, mentre si recava in Vaticano per cercare ospitalità per due rifugiati polacchi, fu fermata dalle SS e dalla polizia fascista: riuscì a fuggire, ma le spararono a un ginocchio. Il padre, professore di tedesco all’Istituto Tecnico di Ferrara, venne licenziato, nei primi anni ‘20, proprio perché antifascista. Lo zio Ludovico Limentani, fratello della madre Lavinia, fu uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti.
Ma nonostante le persecuzioni che decimarono la sua famiglia Matilde, nell’agosto del ‘44 con un gruppo di compagni di Roma andò a Firenze, mentre ancora si combatteva la battaglia per la liberazione, per portare armi ai partigiani della brigata Bruno Buozzi. Il gruppo riuscì ad arrivare a destinazione grazie all’efficace lasciapassare della Central D Section del Psicological Werfare Branch. A conferma dell’enorme prezzo che questa famiglia ha pagato per la libertà occorre ricordare il sacrificio di suo cugino, Eugenio Curiel, antifascista e combattente nella resistenza, ucciso dai fascisti nel ‘45. Nonostante le dure condizioni nelle quali era costretta a vivere per continuare l’attività clandestina conobbe l’amore della sua vita, Ulisse Finzi, che sposò il 4 aprile 1945.
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Matilde Bassani Finzi |
Insieme ai fratelli Andreoni e a Ulisse Finzi, Matilde fu tra gli organizzatori del Comando Superiore Partigiano a Roma. Per capire di quanto coraggio fosse dotata questa giovane partigiana ricordiamo uno scritto di Concetto Marchesi, suo professore all’Università che disse di lei: “il suo nome suonava allora come quello di una intrepida compagna che dava agli anziani l’esempio della fermezza, dell’intelligenza e dell’onore”.
Dopo la liberazione di Roma il Comando cominciò una collaborazione con gli alleati in vari campi, tra cui lo scambio di informazioni militari e politiche, l’epurazione fascista, la partecipazione alle attività del Psicological Warfare Branch, l’Ufficio per la Guerra Psicologica. Il Comando divenne “un vero centro di smistamento dei patrioti”, come si legge in una lettera del Comando stesso agli alleati. Si occupava dell’assistenza ai partigiani che numerosi si presentavano ogni giorno alla sua sede, dando loro vitto e alloggio, vestiti, denaro, cure mediche, cercando loro un lavoro. Portava notizie alle famiglie dei partigiani che ancora si trovavano nei territori occupati, svolgeva attività di propaganda tramite volantini, manifesti e il giornale “il partigiano”.
Mentre lavorava con il CSP, Matilde collaborava con il PWB scrivendo articoli per “Italia Combatte”, trasmissione radiofonica e giornale che veniva paracadutato dall’aviazione nei territori ancora occupati. Dopo la guerra i coniugi Finzi andarono a vivere a Milano, Ulisse riprese l’attività di pellicciaio rimettendo in sesto l’azienda di famiglia, mentre Matilde lavorò nel campo del sociale, in particolare occupandosi di rapporti genitori-figli e di problemi di sessuologia. Forse a nessun caso come all’esperienza di Matilde Bassani Finzi si addice la famosa espressione di F. Kafka quando affermava: “noi Ebrei siamo come l’oliva, diamo il meglio di noi stessi quando veniamo schiacciati”.
Angelo Pagliaro
Al bel ricordo dell’amico e compagno Angelo, voglio aggiungere solo qualche piccola annotazione relativa ai rapporti tra mia madre e gli anarchici.
Fin da bambino ricordo che spesso, sul comodino di mia madre, c’era una piccola rivista con la copertina mezza rossa e mezza bianca. Si chiamava “Volontà” ed era un po’ la “A” di allora: la rivista mensile degli anarchici. Li aveva fatti abbonare Virgilio Galassi, tuttora presente negli ambienti anarchici milanesi, padre di Dana e di Mara, mie compagne di scuola alle elementari.
Nei racconti che a volte mia madre mi faceva della Resistenza, e nelle sue chiacchierate con altri adulti, ogni tanto facevano capolino gli anarchici, e sempre sotto una buona luce: onesti, rigorosi, disinteressati. Ricordo che mi parlava di una fioraia ferrarese, nota come la Bakunina, attiva nella rete clandestina antifascista ferrarese nella seconda metà degli anni Trenta.
Socialista di stampo riformista emiliano (da Prampolini a Massarenti), mal sopportava gli atteggiamenti dei comunisti (e delle comuniste soprattutto, visto che nel secondo dopoguerra fece politica soprattutto nell’Unione Donne Italiane), ritrovandosi accanto alle minoranze comuniste, agli anarchici e ai socialdemocratici nella loro (pur differente) estraneità ai metodi operativi e anche spesso “umani” dei comunisti allora rigidamente stalinisti. D’altra parte non a caso nella Resistenza romana aveva militato nell’area di Bandiera Rossa, “alla sinistra” del PCI, e poi con il giornale “Il Partigiano” fondato da Carlo Andreoni (significativa figura della Resistenza non-comunista di Roma e con simpatie per gli anarchici).
Nel dopoguerra dedicò il suo impegno soprattutto in campo “femminile”, nell’UDI ma non solo, partecipando alla fondazione del CEMP (Centro per l’educazione matrimoniale e pre-matrimoniale) che aveva tra i suoi obiettivi la diffusione della contraccezione anche giovanile, impegnadosi poi nei referendum per la difesa del divorzio e dell’aborto.
Mi sostenne nelle lotte studentesche. Un esempio: nel 1967, ero al liceo, saltai la scuola per partecipare ad un corteo contro il regime franchista in Spagna. Il giorno dopo, sul libretto delle assenze, scrisse che mi ero assentato per partecipare ad una doverosa manifestazione contro il dittatore fascista Franco.
Quando cominciai a bazzicare gli anarchici, era combattuta tra la simpatia per il nostro movimento e la preoccupazione per le possibili conseguenze negative (repressione, ecc.). Quando nel gennaio 1969 (avevo appena compiuto 17 anni) venne la Polizia per una lunga perquisizione in casa (cercavano materiale esplosivo, dopo alcuni piccoli attentati a firma anarchica) e soprattutto dopo che fui condotto in Questura nella notte del 12 dicembre, dopo la strage di piazza Fontana, la preoccupazione divenne nei miei genitori prevalente e mi costrinse a vari mesi di “clandestinità” nel frequentare gli anarchici (si fecero promettere che mi sarei limitato a un’adesione culturale senza militanza, io dovetti promettere, spergiurando).
Nacque poi “A” e i miei la leggevano. Conobbero poi il consuocero Alfonso Failla e si legarono a lui con un rapporto molto forte. In diverse occasioni feci loro conoscere altri nostri vecchi, da Umberto Marzocchi a Franco Leggio, da Pier Carlo Masini a Vincenzo Toccafondo.
Mia madre molte volte sottoscrisse, spesso con lo pseudonimo “una partigiana socialista”, per questa rivista, “Umanità Nova” e anche per altre iniziative nostre.
Negli ultimi tempi, ogni volta che le dicevo che sarei andato a fare una conferenza sullo sterminio dei Rom, mi incoraggiava a fare il possibile perché quella pagina storica tragica fosse tirata fuori dall’oblio. “Dobbiamo ricordarli noi, loro sono troppo deboli, perseguitati come sono da sempre”.
Paolo Finzi
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