Gaza fa rima con Sabra e Shatila. Ai primi di settembre del 1982, durante la prima guerra del Libano, le truppe israeliane misero sotto assedio i campi profughi palestinesi in territorio libanese. Quindici giorni dopo le Falangi cristiano-maronite, alleate del governo di Israele entrarono nei campi sterminando centinaia, forse migliaia di rifugiati palestinesi inermi tra cui numerosi bambini (1).
Nei 26 anni che ci separano da quell’orrore la questione palestinese-israeliana ha vissuto vicende importanti, ma la condizione delle popolazioni palestinesi è andata costantemente peggiorando. Morte, distruzioni, privazione delle terre del cibo, dell’acqua negazione di diritti più elementari: dalla libertà di movimento all’assistenza sanitaria.
Il recentissimo mega-massacro di Gaza, realizzato dall’esercito israeliano – 1300 morti di cui 400 bambini –, appare come il logico coronamento dell’escalation degli ultimi anni, ma al tempo stesso sembra rappresentare un salto di qualità: un uragano di tecnologia distruttiva (bombe taglia-uomo, fosforo bianco, ecc.) vomitato su una strisciolina di terra affollata da un milione e mezzo di esseri umani, stremati da un lungo embargo, impossibilitati a fuggire.
Qualche anno fa un anziano e autorevole esponente della sinistra libertaria israeliana, Ilan Shalif, individuava in Israele una dialettica antagonistica tra “il vecchio Potere Sionista” (con i settori capitalistici ad esso legati) ed un “emergente capitalismo”. Il primo avrebbe puntato ad una ulteriore espansione coloniale con tutto il carico di morte che ciò comportava, mentre il secondo sarebbe stato interessato ad una attenuazione della politica coloniale per tutelare meglio la propria espansione economica, anche grazie all’utilizzo a prezzi stracciati di forza-lavoro palestinese (2).
Non so quanto quell’analisi cogliesse nel segno, ma è certo che oggi l’asse è decisamente spostato verso il colonialismo più sanguinario.
Il Ministro della difesa uscente, il laburista Barak (3), che con le mani ancora lorde del sangue di Gaza, autorizza nuovi insediamenti coloniali in Cisgiordania , e l’ultra-nazionalista Lieberman che propone la bomba atomica su Gaza (4) sono i poli di una dialettica che odora vagamente di “soluzione finale”.
La politica statale israeliana verso i palestinesi sembra consolidarsi attorno a due assi. Da un lato una sorta di lento genocidio a tappe nella striscia di Gaza, grazie all’effetto combinato dello strangolamento economico-sanitario e dei bombardamenti (bombardamenti che uccidono subito, ma anche nel tempo con la valanga di tumori provocati dal Tungsteno e dall’uranio impoverito). Dall’altro l’apartheid in Cisgiordania ed in Israele con il Muro della separazione, con l’espropriazione delle terre, con l’avanzata degli avamposti coloniali e con il restringimento di ogni spazio di agibilità sociale, civile e politica degli arabi-israeliani.
Del resto pur con qualche distinguo l’imperialismo euro-americano è schierato con la sub-potenza israeliana come di più non potrebbe. Di fronte al sangue di centinaia bambini colato a fiumi e proiettato nelle case di tutto il mondo, di fronte allo spudorato bombardamento di strutture di aiuto alla popolazione e perfino di strutture dell’ONU, abbiamo sentito un coro assordante attorno al diritto all’autodifesa di Israele, minacciata dai razzi artigianali lanciati da Hamas.
Premesso che il lancio dei razzi sulla cittadina israeliana Sderot è una pratica barbarica e demenziale allo stesso tempo, val la pena di ricordare che nei 3 anni che hanno preceduto l’attacco a Gaza sono morti 11 israeliani a causa dei razzi contro 1700 palestinesi uccisi in varie incursioni durante gli stessi 3 anni (5).
La scena politica palestinese
A dispetto della tragedia abbattutasi sulla popolazione palestinese di Gaza, Hamas è uscita dai 22 giorni di bombardamenti meglio di come vi era entrato. I suoi consensi sono decisamente cresciuti anche in Cisgiordania dove domina Al Fatah, mentre il tentativo di mediazione egiziano per “una tregua duratura”, dopo il cessate il fuoco unilaterale di Israele, introducono in qualche modo Hamas nel mondo della diplomazia internazionale.
Del resto appare fortemente dubbio che lo scopo degli Olmert, Livni, Barak sia mai lontanamente stato quello di distruggere la forza di Hamas. Uno Stato come Israele, tanto teocratico-militare quanto più si erge a paladino della libertà in Medioriente, quale interfaccia migliore potrebbe desiderare di una forza reazionaria come Hamas, i cui tratti feudaleggianti sono insiti nella coincidenza ideale e materiale tra fondamentalismo religioso e credo politico (6).
Una forza che è collegata a quanto di più reazionario ci possa essere nel Medioriente, primo tra tutti l’Iran dove si “giustiziano” gli omosessuali, si arrestano e si torturano i sindacalisti. Una forza che combina pratiche assistenzial-paternalistiche con il vagheggiamento mitologico di una improbabile soluzione militare della lotta contro l’invasore, di cui Hamas stessa si erge a simbolo e ad esempio.
Dall’altro lato della scena politica palestinese ci sono il partito Fatah, l’ANP ed il Presidente Abu Mazen. Questi appaiono sempre più i cagnolini delle principali potenze imperialiste (USA,Europa), disponibili a trattative dove con sempre maggiore evidenza sul piatto non viene messo un bel nulla.
Nel contesto del mega-massacro di Gaza, Abu Mazen sono apparsi come veri e propri sciacalli. Durante i 22 giorni di sangue, non solo non hanno mosso un dito in difesa della povera gente della Striscia; non solo al contrario hanno duramente represso le manifestazioni pro-Gaza nel pezzo di Cisgiordania da loro “controllata”; ma hanno dato chiari segnali di voler approfittare della situazione per provare a riprendere il “controllo” di Gaza, perduto con la “secessione” di Hamas.
Per fortuna in questo quadro fosco, sembra non essersi spenta ed anzi brillare ancor di più in Cisgiordania, la stella del Movimento di Azione Diretta Congiunta contro il Muro e contro l’apartheid.(composto da palestinesi+israeliani + attivisti internazionali). Questo movimento, sviluppatosi in decine di villaggi della Cisgiordania, al cui interno un ruolo propulsivo lo giocano gli “Anarchici contro il Muro” (7), si caratterizza ormai come movimento popolare indipendente.
Da alcuni anni robusti comitati popolari di villaggio praticano la mobilitazione permanente quotidiana, l’azione diretta contrastando l’avanzata del Muro, l’espropriazione delle terre , la distruzione delle case, la repressione e tutti gli abusi quotidiani. Le popolazioni di questi villaggi hanno quotidianamente al loro fianco centinaia di giovani (e meno giovani) ribelli israeliani.
In occasione della spietata aggressione contro le popolazioni di Gaza, il Movimento di Azione Diretta Congiunta Contro l’Apartheid ha creato grossi momenti di mobilitazione contro il mega-massacro. E proprio per questo la repressione dell’esercito israeliano nei suoi confronti ha fatto un salto di qualità: sempre più pallottole vere contro il movimento, oltre alla consueta valanga di lacrimogeni, bombe assordanti e pallottole di gomma. Un ragazzo palestinese è stato ucciso a Nil’in (8), mentre si sono registrati decine di feriti e centinaia di arresti sia tra i palestinesi che tra gli israeliani.
La presenza costantemente in prima fila di spezzoni della sinistra anti-sionista israeliana in questo movimento ha un valore inestimabile: si abbattono muri fisici e mentali tra le due comunità, si tendono a creare le pre-condizioni per il superamento di un ottica meramente nazionalista della lotta di emancipazione palestinese.
Certo non possiamo nasconderci il carattere esclusivamente cisgiordano del movimento e, a breve, la sua improbabile estendibilità alla Striscia di Gaza. Inoltre è evidente che tale movimento coinvolge per lo più pezzi di gioventù ribelle israeliana, mentre la classe lavoratrice israeliana è estranea e probabilmente ostile.
La questione
palestinese-israeliana
e la lotta di classe
La saldatura sul terreno della lotta di classe di pezzi di classi subalterne palestinesi con pezzi di classi subalterne israeliane potrebbe in teoria rappresentare una delle migliori leve per una fuoriuscita dall’orrore mediorientale. Ed in generale la prospettiva di trasformare gradualmente la lotta di emancipazione etnico-territoriale in lotta di classe è la prospettiva a cui ogni sincero socialista, umanista e classista allo stesso tempo, non può rinunciare.
È evidente però che nel tempo breve questa prospettiva appartiene al mondo dei sogni più che alla realtà. E questo non solo per la crescita di influenza di Hamas tra le masse disperate palestinesi, ma anche perché la società israeliana sembra sempre più avvolta nelle tenebre del nazionalismo sionista più spietato. Il larghissimo consenso all’operazione militare di Gaza, lo sfondamento elettorale dell’estrema destra ed il calo dell’astensionismo nelle elezioni di febbraio ci danno segnali difficilmente equivocabili.
Per altro la condizione dei proletari israeliani è in costante peggioramento per le politiche liberiste dei vari governi, per la crisi internazionale, ma anche per il peso crescente della spesa pubblica a sostegno del regime coloniale (spese militari e di sostegno agli avamposti coloniali), a cui corrisponde un dimagrimento del welfare israeliano. Sono di pochi anni fa le grandi ondate di scioperi dei dipendenti pubblici contro i tagli alla spesa sociale. Più di recente i dati forniti dall’Istituto di Assicurazione Nazionale israeliano parlano di 1 milione e 630 mila persone al di sotto della soglia povertà su circa 7 milioni di cittadini. Anche considerando la presenza di un milione di arabi con passaporto israeliano, che incidono certamente molto sulle cifre della povertà, si tratta comunque di cifre enormi. Da considerare poi il calo del salario medio valutato al 3,5% nel solo trimestre settembre-novembre2008, complici anche licenziamenti e crisi produttiva (9).
Purtroppo, e lo verifichiamo molto bene qui in Italia, “se c’è la crisi per il padrone” non è per niente detto che”avanza la rivoluzione”. Al contrario, in questa fase, ampi settori di classe lavoratrice indirizzano la propria rabbia verso coloro che versano in condizioni assai più disastrate.
Ma proprio per questi motivi il Movimento Congiunto contro l’Apartheid ha un valore ancor più inestimabile: attualmente rappresenta l’unico ponte reale tra le due società.
Che dire e che fare noi anarchici
La questione etnico-territoriale palestinese è una questione reale, concreta, che non vive solo nelle aspirazioni frustrate ad uno Stato dei gruppi dominanti palestinesi. La popolazione palestinese non vive una “normale” oppressione statal-capitalistica, vive da decenni due fenomeni particolarmente dolorosi quali l’apartheid ed uno strisciante genocidio. È da tale condizione che secondo me bisogna comunque partire affrontando la vicenda mediorientale e non da una generica equidistanza anti-bellica, buona per tutte le “normali” guerre tra Stati, ma insufficiente per la situazione specifica.
Lo “Stop all’Apartheid” e “lo Stop al Genocidio” potrebbero rappresentare gli obbiettivi intermedi e le parole d’ordine unitarie da lanciare e su cui convergere con altri tipi di solidarietà alla Palestina (non con tutte). Fermo restando che sulle nostre bandiere sta scritto “due popoli nessuno stato”, mentre su quelle degli altri stanno scritte altre cose.
Una volta ribadito che non appoggeremo mai forze reazionarie come Hamas, di fronte ad aggressioni genocide come quelle di Gaza credo che debba essere affermato il diritto all’autodifesa delle popolazioni palestinesi (diritto in senso umano e non giuridico).
Fatta salva la libera e rispettabile scelta della non-violenza, mi sembrerebbe per lo meno “sorprendente” dire ad un milione e mezzo di persone accalcate in una strisciolina di terra, affamati in mezzo alle macerie e senza possibilità di fuga, che devono beccarsi una valanga di bombe in santa rassegnazione e porgendo l’altra guancia perché hanno la sfortuna di avere Hamas come forza dominante.
Sul terreno pratico il boicottaggio delle merci israeliane, anche se tecnicamente non semplicissimo, rappresenta comunque l’unico terreno di azione diretta che possiamo coltivare qui dal suolo italiano ed europeo. E andrebbe secondo me propagandata e sostenuta più di quanto è già stato fatto l’esperienza del Movimento Congiunto in Cisgiordania: non solo per valorizzare la presenza dei “nostri” (“Anarchici contro il Muro”), ma soprattutto per quel potenziale internazionalista che quel movimento ha insito in sé.
Infine andrebbe riportata all’attenzione generale la questione degli accordi di collaborazione nella ricerca militare tra Italia e Israele, firmati a suo tempo dal secondo governo Berlusconi e confermati da Prodi e dal “filo palestinese” D’Alema.