Sabato 28 marzo, a Chiusa San Michele, in Val di Susa, dalla Cabind, una piccola azienda metalmeccanica che occupa 78 dipendenti e che è in mobilitazione contro la delocalizzazione della produzione in Polonia ed il conseguente licenziamento di tutto il personale, parte un piccolo corteo. È uno dei tanti in questi giorni, una delle mille mobilitazioni che si svolgono in condizioni di straordinaria difficoltà. L’obiettivo, certo non esaltante, è infatti la ricerca di un imprenditore disposto ad investire nell’azienda magari anche grazie ad una qualche forma di supporto da parte degli enti locali. E gli enti locali non mancano all’appuntamento, il corteo è aperto da diciotto sindaci della valle, dal presidente della comunità montana, dal presidente della provincia.
Questa disponibilità può essere interpretata in due modi non necessariamente incompatibili. Per un verso è chiaro che i sindaci ecc. hanno un evidente interesse a porsi come difensori della “propria” comunità, per l’altro si tratta di un mondo di piccoli centri dove i lavoratori hanno un rapporto diretto con le amministrazioni e sono in grado di esercitare un’effettiva pressione. Al corteo partecipano,in misura limitata ma positiva, lavoratori e delegati di altre aziende in crisi, un fragile tessuto di solidarietà che non va sottovalutato.
Vi è, d’altro canto, nel corteo una caratteristica alla quale non siamo abituati e che, per ragioni contingenti, appare evidentissima.
Si è, infatti, stabilito di non portare le bandiere sindacali, nella fattispecie quelle della FLMUniti CUB e della FIOM CGIL, in nome dell’“unità” della mobilitazione.
Ma alcune bandiere vi sono ed appaiono, essendo le uniche, in grande evidenza. Si tratta del tricolore nazionale e del drapò piemontese che diversi lavoratori sventolano con entusiasmo. Visto che li conosco, so perfettamente che non sono di destra e che si collocano, magari senza essere raffinati intellettuali, all’estrema sinistra.
D’altro canto, nella loro percezione immediata il problema è sin troppo semplice, un rilevante numero di aziende sposta ad est le produzioni sia per approfittare dei minori salari e della mancanza di tutele che per slanciarsi su nuovi ed interessanti mercati, impedire le delocalizzazioni è, se si agisce azienda per azienda, al limite dell’impossibilità, l’unica speranza è il sostegno del governo nazionale e locale ai quali ci si rivolge in quanto cittadini italiani.
Remare controcorrente
Poche settimane addietro, per fare un altre esempio, un robusto gruppo di lavoratori dell’Indesit di None, un’azienda di maggiori dimensioni ma dello stesso comparto produttivo e nella stessa situazione, durante un vivace presidio di fronte all’Unione Industriali di Torino ha lanciato lo slogan “Chi non salta polacco è, è!!”.
Naturalmente su questi atteggiamenti e slogan si discute, ci si confronta con i singoli lavoratori, si pone l’accento sul fatto che gli avversari non sono i lavoratori polacchi, nello specifico, e comunque i lavoratori d’altra nazionalità e che bisogna aver chiaro che sono i padroni italiani o stranieri poco conta. Resta il fatto che si ha spesso l’impressione di remare contro corrente, di opporsi ad una deriva pericolosa e difficilmente contenibile, di non avere effettive proposte tali da contrastare e vanificare e spinte nazionaliste.
Mentre tornavo a Torino ne ragionavo con un compagno molto attivo in un collettivo che organizza azioni di solidarietà ai lavoratori delle aziende in crisi.
In maniera molto analitica, egli mi faceva rilevare che il pericolo è abbastanza limitato non foss’altro perché la destra realmente esistente non intende nè può assumere una posizione protezionista in considerazione dei suoi legami e della sua subalternità al grande capitale internazionale. In altri termini il “nazionalismo operaio” sarebbe una pura e semplice raffigurazione ideologica della debolezza della classe ma non produrrebbe, di per sé, comportamenti politici e sociali significativi e, soprattutto, non troverebbe impresari politici in grado di canalizzarlo e organizzarlo.
A mio avviso, una lettura della situazione di questo tipo rischia, nonostante non manchi di fondamenti, di essere incompleta e, di conseguenza, sbagliata. In primo luogo, infatti, vi è un settore della destra, la Lega Nord, che tende da anni a marcare la propria differenza rispetto alla destra nazionale proprio nel suo porsi come destra popolare, comunitaria, ostile alla globalizzazione. È ben vero che si tratta di propaganda che contraddice platealmente l’affratellamento al Popolo della Libertà ma anche nel PdL vi sono settori populisti e l’aggravarsi della crisi potrebbe determinare modificazioni effettive nelle proposte e negli interlocutori sociali della destra.
D’altro canto, se guardiamo alla recente proposta leghista, per ora bloccata ma non si sa mai, di puntare sulla “preferenza nazionale” nella selezione dei lavoratori da licenziare, se incrociamo queste puntate in avanti con la deriva sicuritaria che caratterizza l’assieme della società, se valutiamo nei suoi reali termini l’attuale crisi del movimento dei lavoratori e della sua capacità di fare proposte forti e credibili, forse non c’è da sottovalutare i rischi che vicende apparentemente minori, come quella che narro, segnalano.
Si tratta allora di legare le lotte immediate, anche quelle più difficili e complesse, ad una prospettiva generale, tutta da discutere ed approfondire di risposta alla crisi industriale non modulata colpo su colpo ma capace di indicare proposte credibili sul breve e medio periodo.
Si tratta, in altri termini, di sviluppare una critica dell’attuale modello produttivo e delle sue ricadute sulla nostra vita.