Rivista Anarchica Online


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Alain Bashung è morto il 14 marzo del 2009

Quelle che seguono sono alcune note e riflessioni sparse per tentare di avvicinare – ancora troppo prossimi al suo passaggio, come siamo – la straordinaria novità del suo percorso musicale.

Questo gigante se n’è andato, a 61 anni, nel pieno della sua stagione più creativa, con un cammino di suoni avviato, in strada verso l’ignoto. Viaggia in solitaria come dice nell’ultima canzone del suo ultimo disco, uscito nel 2008.

Viaggia in solitaria
e nessuno l’obbliga a star zitto
così canta la terra.
Ed è una vita senza mistero
che se ne frega dei giudizi.
Ma è solo
un giorno
l’amore
l’ha lasciato, e se n’è andato
a fare un giro
dall’altra parte
di una città dove non c’erano più posti per perdersi.

Resta il solo volontario
e giacché non ha nulla da fare
più forte di un esercito intero
canta la terra.

Ed ecco il miracolo insomma
è quando la sua canzone è buona
perché è la gioia che gli dà
cantare la terra.

(Gerard Manset)

I suoi ultimi tre album – in particolare “Fantasie Militaire” del 2000 e “L’imprudence” del 2003 – sono, a mio avviso, la frontiera estrema a cui s’è spinta l’arte di far canzoni, di conservare la struttura di un genere cristallizzato in poche e “sane” regole, per sfrondarlo d’ogni residuo e rifarlo a fuoco e ghiaccio.
Bashung ha ordito una congiura di Penelope, ha disfatto la tela col disegno troppo prevedibile dei suoni e delle atmosfere, per intraprendere un canto che abbia sempre il suono dell’ignoto. Nel farlo ha sempre sorpreso, è sempre stato innovativo, qualche volta è stato spiazzante.

Penso che queste scelte derivino da un bisogno estremo di libertà. Sono un curioso, devo passare dall’altro lato dello specchio. Non sono come quegli artisti americani che suonano per cinquant’anni la stessa musica, che fanno sempre i medesimi quarantacinque minuti di concerto e che si va a vedere come un reperto di museo in tournée nella propria città. Credo che la mia vita sia troppo corta per non approfittare delle occasioni di incontro, di queste frazioni di secondo in cui si può rovesciare tutto, in cui si può fabbricare una storia straordinaria. Ma ogni volta che acquisisco una nuova libertà non mi ci attardo.

Questo grande principe solitario, elegante e timido, orgoglioso e retto fino alla sua ultima apparizione in pubblico – per ritirare ancora una volta uno dei massimi riconoscimenti della musica francese – solo quindici giorni prima di morire, ha come nessun altro vissuto nella sua carriera l’arte dell’incontro. Le sue collaborazione con una serie di autori di testi, alcune furtive e fugaci per produrre cinque minuti di bellezza oscura, altre costanti e durature, come quella col grande maestro dei giochi di parole Boris Bergman e, in ultimo, quella che ha prodotto i capolavori della maturità, con Jean Fauque, sono descritte con grande pudore:

non scrivo da solo le mie canzoni perché mi annoierei nel farlo, come mi annoierei nel doverle suonare tutto solo. Scrivendo voglio anzitutto divertirmi io stesso. Rischierei di mordermi la coda, allora mi voglio perde per ritrovarmi nel rapporto con qualcun altro.

Alain Bashung

In perfetto dialettico equilibrio

Non sono state – queste – collaborazioni standardizzate, catene di montaggio per produrre canzoni, come quelle in cui il musicista porta la sua linea melodica bell’e fatta e il paroliere s’industria di scrivere testi su commissione per un disco di prossima uscita. Già le prime collaborazioni di Bashung consistevano in un continuo scambio, una relazione di lettere e immagini, un pensare assieme le atmosfere da cui distillare le reciproche immagini sonore e i sintagmi, i giochi con le parole e quelle con i suoni. Colonne sonore cui ispirarsi reciprocamente per mettere in piedi un film di sensazioni e paesaggi.
Si dice che, in ultimo, Fauque portasse a Bashung interi quaderni d’appunti, di versi, frutto di discussioni e notti insonni, e quest’ultimo seguisse percorsi personali raccogliendo tali frammenti e organizzandoli in un discorso unitario, in cui musica e testi si interrogano e si rispondono in perfetto, dialettico equilibrio. Nascono così delle canzoni non narrative, eppure fluide, delle sceneggiature sonore, dei paesaggi onirici, in cui non si sa se si parli e a chi, di sé, di noi, del mondo.

La domenica a Chernobyl
impilo stracci, vinili
vangeli
le mie palpebre sono pesanti
il mio corpo s’intorpidisce
non è cloro
non è clorofilla.

M’irradierai ancora a lungo
ben dopo la fine
m’irradierai ancora a lungo
al di là delle porte chiuse.

La domenica a Chernobyl
mi appello al sole
appello le sardelle
nell’arrossarsi del canale.
Alla centrale c’è un carnevale
ballo ossigenato
cervello, lavello
ogni giorno mi irride
indolore.

M’irradierai ancora a lungo.

Nulla, certo, che si possa chiamare “canzone di protesta”, in cui si suggeriscano vie d’uscita preconfezionate, ma pure nulla di rasserenante, nulla che faccia dormire, nulla che distolga dall’incessante dolore di esser vivi. Un cortocircuito fra intimismo e surrealismo.

“Bevevamo frizzantini, pisciavamo nei taxi”

Bashung arrivò relativamente tardi alla notorietà, fu all’inizio degli anni ’80, quand’era già oltre i trent’anni e con una dura gavetta di tentativi infruttuosi alle spalle; sopravviveva allora facendo l’arrangiatore per altri. Anche per questo conservò sempre una sana diffidenza nei confronti del successo: più d’una volta, quando il consenso, così difficilmente guadagnato, diventava plauso generale, creò appositamente dei dischi shock, dei dischi che stravolgevano la sua immagine così com’era stata acquisita dai media.
La prima volta fu nel 1982 quando – dopo aver piazzato un singolo come Gaby in vetta alle classifiche con un milione di copie vendute – convocò Serge Gainsbourg per scrivere assieme a lui lo spiazzante disco “Play blessure”.
Quella con Gainsbourg fu più che un’intesa, in effetti Bashung dirà di lui:

aveva gusto, senso estetico… ho pensato che insieme non ci si sarebbe annoiati. In effetti abbiamo fatto presto. Avevamo appuntamento tutti i giorni alle 3, si lavorava e alle 8 si partiva a fare bisboccia per Parigi, nei più bar coi più scalcinati strip-tease, bevevamo frizzantini, pisciavamo nei taxi… insomma, era la vita!

Il gelido humor nero di questi due artisti autodistruttivi si fuse in una sorta di cacofonia sensata, in una frammentazione di suoni e visioni, che ovviamente fu un grande insuccesso di vendite.

Dedico quest’angoscia a un cantante scomparso
Morto di sete nel deserto del Gaby.
Rispettate un minuto di silenzio
fate come se non fossi mai arrivato.

Dopo la morte di Gainsburg, Bashung è stato in effetti considerato il suo grande erede spirituale, anche ben al di là del pezzo di strada compiuto assieme. Li accomunava in effetti il gusto della provocazione, l’aver educato il pubblico ad esser pronto a qualsiasi eccesso e ad un costante rinnovamento, la forsennata ricerca nell’ambito del linguaggio.
Ma Bashung è anche troppo originale per essere l’epigono di qualcuno.
Bashung ha un suo proprio universo, popolato di suicidi nelle toilette degli autogrill, dove si è sempre in fuga da qualcosa che trattiene, dove la ribellione esistenziale è un ringhio. Bashung porta una sorta di violenza espressiva, che lo apparenta anche a Brel o Ferré, una comunicatività che pare rivolgersi a ogni singolo ascoltatore, per riscuoterlo dal torpore. In una delle sue prime canzoni vi è la metafora di un attore, paralizzato sulla linea bianca che delimita i suoi movimenti.

I miei occhi sono nello specchio in cui li ho piantati
non mi riconosco sulle foto
non capisco le domande
non capisco questa prigione.
Mi hanno fatto prendere troppe aspirne per le mie aspirazioni (…)
Come si chiama qui?
Mi son perduto, non si chi sono
non ho capito bene la sceneggiatura.
Sempre sulla linea bianca (…)

Rispetto al gelido allucinato formalismo con cui Gainsbourg si difende essendo altro da una modernità che non lascia spazio al suo essere dandy, Bashung accetta di divincolarsi nella camicia di forza del presente con urla rumori di fondo che entrano in questa sorta di colonna sonora della modernità.
Bashung introduce nella canzone d’autore, con testi e musiche curati, precisi e dilaganti, una fisicità e una personale lettura dello spirito rock. È un nuovo sistema di codici che finalmente fa irrompere il suono e le parole delle metropoli nell’ambito dell’arcadia letteraria in cui si cristallizza l’universo letterario di troppi autori di canzoni. È una ricerca che è percepibile già in un modo particolarissimo di usare la lingua e la pronuncia, forzandone suoni e ritmica, senza però perdere l’immediatezza comunicativa del parlato. È un lavoro che s’inerpica sulla strada tortuosa di quasi trent’anni, nei quali ogni nuova opera di Bashung ha marcato un passaggio, un attraversamento. Per questo il senso della frontiera, del luogo, della linea attraverso cui trascolorare da un mondo all’altro è il punto focale del suo lavoro. Stupenda la canzone che evoca l’inadeguatezza di ogni mezzo di trasporto per arrivare realmente al corpo dell’altro.

Nessun espresso mi porterà
alla felicità
nessuna bagnarola l’abborderà.
Nessun Concorde avrà la tua
[apertura alare
nessuna vela ci andrà
se non te.
Nessun trolley mi potrà trattenere
appollaiato
nessun vapore mi farà fondere.
Dalle scale mobili fino ai deltaplani
ho provato tutto.

Ho costeggiato il tuo corpo
sposato i suoi meandri
mi sono importato
trasportato
al di là degli abissi
sopra i frutteti
lasciando la circonvallazione
ho preso il controviale
mi sono importato
trasportato.

Nessuna carrozza mi lascerà
a bocca spalancata.
Nessun Walhalla vale la pena del viaggio.
Nessuna astronave ci si avvicina
nessuna vela ci va
se non te.

Nessun espresso mi porterà
alla felicità.
Nessuna bagnarola l’abborderà.
Nessun Concorde avrà la tua apertura alare
nessuna vela ci andrà...
Nessuna.

Alain Bashung

All’incrocio di molti suoni

Bashung è definibile come un vero compositore moderno. Quel linguaggio del rock, perfettamente dominato, è piegato alle esigenze di una rappresentazione sonora della nostra contemporaneità. Nelle sue canzoni si vede in trasparenza, attraverso lo spazio sonoro. Bashung resta e canta all’incrocio di molti suoni che vengono a comporre una tappezzeria, una colonna di fumo, in cui le storie perfide, violente e autodistruttive dell’autore s’intuiscono più che svolgersi, tutte comprese in un canto che allude, che sussurra, che si spezza e si frammenta. Le immagini sono a volte vorticose a volte restano sospese in aria.
Il quartetto d’archi viene violato e sfondato da un ringhio meccanico e post-industriale, e poi a sua volta scandisce il ritmo e prende il sopravvento sul caos sonoro di un umorismo elettronico. Chitarre distorte accennano l’idea di un assolo che non arriva mai a svolgersi.

Nei suoi ultimi dischi Bashung supera l’elemento catartico, fisiologico del linguaggio del rock quanto già in precedenza aveva superato gli elemento consolatori, melanconici e riflessivi della canzone poetica e d’autore.
Perciò Bashung è forse l’artista meno rassicurante del suo tempo. Ogni sua proposizione è una fuga. L’amore è fuggito, la felicità abbandonata in un letto disfatto, all’alba, non si sa nemmeno bene perché, forse perché semplicemente per quest’artista la felicità non è felice.
Ma anche la morte e la tragedia – che si avvertono sempre lì a un passo, presenti anche solo nel tono – quando si verificano rimangono come confinate in un angolo di questa cattedrale di suoni e vibrazioni.

Bashung compone i suoi ultimi dischi nel corridoio, all’incrocio dei suoni.
Racconta in un’intervista che un’intuizione lo colse allorché si trovava nel corridoio di una grande studio di registrazione, dov’erano poste le macchinette automatiche per farsi un caffè. Contemporaneamente, da diversi locali collocati nello spazio, in alto o in basso, da destra o da sinistra, gli giungevano i suoni di diverse sale in cui registravano o provavano diversi gruppi, nella spazialità. Lui decise così di comporre i suoi dischi organizzando questo caos, fino a farlo divenire una sorta di sinfonia sovrapposta. Nemmeno un collages o un mosaico dove ogni frammento prenda la sua parte in relazione agli altri, ma proprio una sovrapposizione in cui le parole e la melodia stessa della canzone, attraverso un attentissimo lavoro di regia a posteriori, si stagliano su questa sorta di sfondi trasparenti che scorrono l’uno sull’altro.
Per questo il lavoro di composizione degli ultimi dischi di Bashung s’avvale di una ridda di musicisti (alcuni celeberrimi come i chitarristi Marc Ribot e Arto Lindsay) ognuno convocato a ricreare il proprio mondo espressivo in questo brodo primordiale in cui poi magicamente la voce indimenticabile e l’armonica a bocca di Alain Bashung vengono a dare una direzione, un senso, uno scopo.
Anzi – purtroppo – venivano.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it